Interludio I (introd. a “Come lavoro”, già pubblicato) (dal Cap VI, 6.1)

[audio:https://www.neldeliriononeromaisola.it/wp-content/uploads/2011/08/Billy-Cobham-Snoopys-Search_Red-Baron-1973.mp3|titles=Billy Cobham – Snoopy’s Search_Red Baron (1973)]

“   perché l’Io è un sogno
finché il bisogno di un vicino non lo crea”
(W.H.Auden, 1946)
La psichiatria e la psicoanalisi hanno subito una grossa evoluzione a partire dall’inizio degli anni ’70 ad oggi.
Io sono una delle tantissime persone nel mondo che hanno vissuto questa evoluzione sulla propria pelle.
La storia della psichiatria e della psicoanalisi è conosciuta e approfondita dagli specialisti di queste materie e da quelle nuove branche del sapere così entusiasmanti che sono le neuroscienze e la neuroanalisi.
Oso ritenermi uno “specialista” anch’io in malattie mentali per il semplice motivo che la storia dei malati che racconto in questo libro è prima di tutto la mia storia: questa posso dire di averla vissuta fino in fondo e, come per tutti i malati di qualsiasi malattia, di esserne diventata un’esperta. Ho avuto occasione di conoscere molti malati mentali, alcuni intimamente, e tramite me anche loro raccontano il loro romanzo.
Anche il mio è un romanzo, “un romanzo di formazione” (fa chic!) che va dalla psicosi ad una “sanità psicotica”, come la chiamavo,  che, col passar degli anni, è diventata una specie di “normalità”…indistinguibile, anche all’occhio di un esperto, da una completa sanità. Del resto è una storia vecchia che tutti imatti non siano al manicomio: nella “nostra” normalità ci sto anch’io…!
In questo capitolo racconto di tante cose che si chiariranno leggendo, ma specialmente spero di offrire una “lingua scritta” (che si può leggere e rileggere anche a piccoli pezzi) ad altri malati come me, che ancora stanno lottando per recuperarsi; ma vorrei anche regalare una messa a fuoco “dal basso” agli specialisti, dal punto di vista del paziente, sia della malattia, e del delirio, che della terapia.
Con grande fervore mi rivolgo soprattutto alle famiglie, che tanto male e tanto bene fanno, perché sono loro a poter determinare il destino di un malato mentale, prima ancora degli esperti. Ma devono diventare persone “avvertite”.
Per quanto tutto ciò che racconto possa apparire ovvio ai professionisti, nella mia lunga esperienza di terapia (passati i venticinque, gli anni di psicoterapia non li ho più contati) mi sono convinta che, per i tecnici, avere “dati freschi” sugli psicotici, partecipati da loro in prima persona, è necessario come il pane per andare avanti nella comprensione di questo difficile mondo.
Inoltre, e questo è un aspetto per me fondamentale: da paziente e da malata mi sono convinta che tutti, non solo i tecnici, hanno qualcosa da dire sui malati mentali, meno loro stessi.
Io vorrei essere una paziente che parla della sua malattia, fiduciosa che molti malati-sani come lei possano seguirla.
Molti ce ne saranno che lo hanno già fatto, ma a me ne vengono in mente troppo pochi.
Questi malati-sani non hanno bisogno di scrivere un romanzo intero, sono utili anche alcune pagine che, poi, possono essere raccolte insieme in modo significativo, magari da altri, senza essere modificate, ma rese forse più comprensibili tramite un commento.
E’ mia convinzione “delirante” che se fosse possibile raccogliere migliaia di pagine varie o tanti blog come il mio, la cura delle malattie mentali potrebbe evolversi enormemente (uso il termine “delirante”, perché la necessità di dare la parola ai malati mentali appartiene costantemente al mio delirio, ma anche per significare una fortissima convinzione).
Vorrei però che prima mi si permettesse una piccola confessione “filosofica” per poterci capire meglio fin da subito.
Comincio col dire che non credo che oggi si possa più fare “teoria di qualcuno”, se questo è un essere umano, come se questa persona fosse un oggetto inerte che sta lì per essere raccontato da altri, ma solo “teoria insieme a qualcuno”, in dialogo con qualcuno, chiedendo la sua partecipazione attiva fin dove è possibile.
I bravi medici, oggi, danno sempre più spazio ai pazienti e discutono la terapia con loro accettandone i suggerimenti anche sui farmaci. E’ provato, inoltre, che l’efficacia di una medicina dipende dal rapporto di collaborazione attiva che il paziente ha stabilito con il proprio medico, oltre che dalla fiducia che ripone in lui. Questo è ancora più vero per una psicoterapia.
Un tempo questo risveglio dei pazienti sarebbe stato impensabile.
Tutto doveva “emanare dall’alto” e noi eravamo dei “sacchi vuoti da riempire”di pillole o di parole a seconda delle occasioni. Ho avuto un clinico per tanti anni che non ha mai sentito il bisogno di spiegarmi le medicine che mi ricettava limitandosi ad elencarle sul foglietto tra sé e sé.
Oggi si comincia a capire che questi “sacchi”, vuoti non sono, e che capire ed essere persuasi, essere motivati per muoversi e curarsi, è assolutamente necessario, altrimenti le cure non fanno effetto o ne fanno di meno. Si comincia, anche, a capire, ma questo è più raro, che il paziente ha un ruolo nel fare la diagnosi e nella direzione della terapia, nella scelta di un farmaco o di un altro e, ancor più, nei dosaggi.
Ma esistono anche i dosaggi psicoterapeutici di cui deve farsi carico il paziente e che sono fondamentali. Il ritmo della crescita psicologica deve essere lasciato al paziente perché solo lui può sapere cosa può o non può fare. Forzarlo secondo nostri criteri è sbagliato perché troppo spesso significa incamminarlo verso un esaurimento nervoso o anche una crisi.
Si tratta di fornire loro le parole, alcuni strumenti relativi alla loro situazione patologica ed ascoltarli mentre a questi danno un contenuto vivo che rispecchia l’unicità dei loro disturbi. Questa unicità, oggi abbastanza riconosciuta, è esclusivo patrimonio del paziente e non può essere posseduta dal medico. Non solo gli psichiatri e gli psicoterapeuti, ma anche i medici iniziano ad osservare che un farmaco ha un effetto differente a seconda del paziente perché, finalmente, si sta diffondendo la consapevolezza che il fattore individuale e mentale è decisivo nel determinare uno stato fisico. E lo stato fisico, aggiungo io, è determinante per uno stato mentale: non si può discernere, infatti, se non didatticamente, tra corpo e mente, essendo due facce della stessa medaglia che ci rappresenta, noi vivi.
Oggi si comincia a delineare l’idea che un paziente sia una “persona”, un soggetto vivo che si erge nella sua storia attuale e passata in tutta la dignità e l’autorevolezza che gli viene dai suoi diritti umani, ai quali siamo diventati più sensibili, con un cervello attivo e progettante, non solo reagente ad ogni minimo stimolo, di cui diventa necessario assicurarsi la collaborazione più piena possibile in vista di certi risultati.
Perché senza questa alleanza, loro stessi, i tecnici, qualunque sia la loro specialità, non fanno bene il loro lavoro e, soprattutto non arrivano alla cura.
Questo vale, a mio parere, anche per i malati mentali.
Qualunque demente non perde mai del tutto la sanità e il contatto con la realtà: a questa parte sana si deve dare piena fiducia, e contemporaneamente,dobbiamo cercare un altro tipo di alleanza con la parte malata, usando il suo particolare linguaggio e i suoi comportamenti specifici.
Credo inoltre, e qui tocco un altro tasto, che la “messa a fuoco” che abbiamo sui dati che osserviamo determini abbastanza ciò che vediamo: la messa a fuoco di un paziente che osserva la propria mente o quella di un altro paziente (come a me è avvenuto) non può essere la stessa di quella di uno psichiatra o di uno psicoanalista. La nostra messa a fuoco è determinata dalla nostra storia personale e dalla nostra compartecipazione emotiva. Sono per questo convinta che un tecnico e un paziente, se vedranno certamente delle cose simili perché entrambi ricercano all’interno di una stessa realtà, vedranno anche cose che potrebbero essere profondamente diverse data la loro diversa posizione nel mondo.
Quella che chiamo “messa a fuoco”, per spiegarmi con chiarezza, un tempo di chiamava “Weltanchaaung”o concezione del mondo. Oggi questa parola non è più in uso, ma non si può non ammettere che è con la propria esperienza di vita, tutta intera (con le proprie emozioni e credenze, pregiudizi, idiosincrasie, concetti, abitudini, passioni, fissazioni ecc.), insomma con quello che è la propria “concezione- sensazione della vita”, in quel momento preciso, e anche in tanti momenti ripetuti, che una persona osserva un altro o se stesso.
Ora la “posizione” di fronte al mondo di uno psichiatra o di uno psicoanalista è ben diversa da quella di un malato di mente, malato o guarito che sia: certamente non abitano lo stesso mondo. Vedono cose molte diverse e hanno linguaggi differentissimi per comunicare. Questo è ovvio, ma è bene ricordarlo.
E’ per questo che gli psicoanalisti e gli psichiatri hanno dovuto imparare un nuovo linguaggio per parlare con i malati, specialmente quando sono in delirio, o, se non “impararlo”, almeno provare a balbettarlo con maestria. Diverso sarebbe conoscerlo davvero. Altrimenti, quando lo parlano, danno l’impressione di recitare e anche, se posso permettermi, di recitare male.
Un malato se ne accorge subito, anche se è in delirio. Io me ne accorgevo.
Mi si obietterà che questo linguaggio non si può imparare perché ogni paziente ha il suo e, in parte, sarei d’accordo. Ma nello stesso tempo dico che è difficile dirlo perché se ne sa troppo poco.
Quello che so è che vivere il mio delirio mi ha aiutato tantissimo a comprendere deliri anche molto differenti dal mio, come ci fosse una lingua di base comune, una specie di latino da cui poi ciascun paziente forgiasse la propria lingua. Quello che ho verificato è che quella nuova lingua che ciascuno forma per capirsi è un dialetto, una trasformazione di una lingua generale che è alla base di tutti i deliri. Per questo, tra di noi pazienti ci si può capire abbastanza bene anche se non si appartiene allo stesso tipo di psicosi.
Quella che chiamo “latino” sarebbe, se non sbaglio, la lingua dell’inconscio o della memoria implicita. Anche se bisogna precisare che quando questa “lingua inconscia” invade la realtà, esce cioè dal tempo limitato del sogno e diventa, per così dire, un sogno diurno, continuato nel tempo, subisce una modificazione per l’insinuarsi di dati specifici della realtà esterna, oltre che interna, in modo molto più massiccio che nel sogno. Per questo motivo la conoscenza del linguaggio del sogno non è sufficiente a capire la comunicazione delirante. Il sogno ci è familiare, la sua logica oscura ci accompagna tutte le notti, il delirio no. Per questo è così importante che chi lo vive, ce lo racconti in un modo che noi possiamo comprendere.
Ed è proprio questo che mi sono disposta a fare con questo mio lavoro.

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1 risposta a Interludio I (introd. a “Come lavoro”, già pubblicato) (dal Cap VI, 6.1)

  1. nemo scrive:

    Sì, sei sicuramente una ‘specialista’ speciale che può ‘parlare’ di una realtà che ha vissuto dall’ interno e dall’ esterno. Preziosissime ‘testimonianze’ per gli addetti ai lavori e non solo. Assegnerei a questo libro/romanzo ‘in fieri’ una funzione sociale. Interessante e ‘curiosa’ la scoperta del linguaggio ( ‘latino’) del sogno .

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