INTRODUZIONE: 23. Ci sono persone che hanno la mia malattia e sono molto simili a me. Anche questo mi ha spinto a scrivere il mio racconto.

 

 

 

 

La storia che racconto è inevitabilmente la storia di una persona unica, questo è il grave limite di questo lavoro, ma la mia è la sola mente che posso conoscere e accompagnare così intimamente.

 

Ho avuto, però, la possibilità di conoscere altri malati come me, e il loro profilo psicologico, come le loro manifestazioni morbose, non differivano, negli aspetti sostanziali, dal mio caso.

 

Erano diverse, naturalmente, le occasioni della malattia e la sua evoluzione, senza dire della varietà dei caratteri, ma tutte queste persone si erano percepite come “ non esistenti” nei primi anni di vita e lamentavano dei genitori perennemente “distratti” e assorbiti nei loro bisogni specifici.

 

Nell’infanzia avevano sperimentato il vuoto e l’abbandono, oltre alla mancanza di un adulto su cui fare un affidamento stabile oppure era venuta a mancare una figura genitoriale e la figura rimasta aveva avuto bisogno dell’ appoggio del figlio.

 

Questa situazione particolare, la mancanza di figure adulte cui rivolgersi, oltre a non averle abituate alle frustrazioni, non avendo acquisito l’abitudine di stare con qualcuno che avesse il compito di educarle, aveva loro impedito la costruzione di un nucleo di radici alle quali ancorare il loro essere perché queste non te le puoi dare da solo.

 

Questo nucleo mancante aveva reso difficile il formarsi di una “presenza” ( fatta di sensazioni, di immagini, di esperienze ripetute, di rappresentazioni mentali, di emozioni costanti) sufficientemente stabile, dentro di loro, attorno alla quale agglutinare il loro io.

 

Nel periodo della formazione si erano trovati così a sbandare tra bisogni sfrenati e moralità eccessive, come se il loro io non avesse avuto la possibilità di svilupparsi sufficientemente per integrare parti opposte.

La loro coscienza morale, non essendosi potuta formare sull’identificazione con adulti amorevolmente costanti, appariva rigida ed estremamente esigente, capace solo di richieste assolute che andavano molto al di là delle possibilità umane.

 

Questa mancanza di coesione interna li aveva resi “dimezzati” come il famoso visconte di Calvino: metà parte solo cattiva, e solo in cerca del male, e metà solo buona, e dedita all’ossessiva riparazione delle crudeltà dell’altra metà. Entrambi così inumani che la contadina di cui si innamorano, rappresentante dell’essere umano intero, sfugge entrambi come la peste.

 

La cura del visconte dimezzato consiste, a partire da un oggetto intero su cui si focalizzano entrambi ( la contadina), in una chirurgia che giunta le due parti, anche se con grandi sofferenze e conflitti. La descrizione del momento della “collisione” delle parti opposte fatta da Calvino è stupenda, soprattutto per chi, come me, l’ha dovuta vivere..

 

Questa soluzione non è lontana dalla terapia di un paziente con questa malattia, ma è solo l’analista che può compiere questa ricongiunzione, ammesso che il paziente possa accettare di sopportare grandi sofferenze e situazioni di conflitto.

 

Attraverso queste sofferenze si impara a poco a poco a mettere in parole, e poi, pian piano, a farsi una rappresentazione mentale, abbastanza costante, di se stessi e delle figure fondamentali della propria vita, rivivendo con il terapeuta quelle relazioni fondamentali che ancora ci fanno sentire vivi.

Anche se è non è affatto così semplice come lo racconto!

 

Le persone che ho visto con la mia malattia, non molte, le ho sentite miei fratelli. Ed è stata l’ intima convinzione di una stretta analogia tra il caso di queste persone e il mio che mi ha deciso a parlare della mia storia, anche se capisco che le poche persone che ho conosciuto non permettono alcuna generalizzazione.

 

Le ragioni, inoltre, che portano a scrivere un testo sono comunque molteplici, complesse e, vorrei dire, contraddittorie.

Esiste anche il semplice piacere di raccontare, ma prima di tutto c’è il mio bisogno di raccontare una storia come paziente.

 

Una cosa vorrei precisare.

Dai tempi dei primi quaderni, mi sono abituata ad usare un termine dopo una ricerca interiore perché la parola doveva scaturire proprio dal sentimento che provavo in quel preciso momento. Le parole che uso devono essere intese come frutto di questa disciplina, almeno quando parlo di emozioni.

Le emozioni poi non sono visibili, né palpabili e neanche lì, “pronte”, immediatamente, nella nostra mente.

E’ stato difficile “ripescarle”, e poi metterle in parole, così come voler raccontare una melodia, o un ritmo, a qualcuno che non li avesse mai ascoltati. Infatti, come tutti sanno, le esperienze intime appartengono inesorabilmente a chi le prova, e comunicarle, a meno che a parlare non sia un poeta, è estremamente difficile.

 

 

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