INTRODUZIONE: 5. Sapreste immaginare il sogno “impossibile” di ogni malato mentale?

 

 

 


INTRODUZIONE: 5. Sapreste immaginare il sogno “impossibile” di ogni malato mentale?

 

 

Per fare questo racconto non ho aperto i quaderni di cui ho parlato all’inizio perché li sentivo “scottanti”, quasi “palpitanti” di tante angosce provate: forse perché non li ho mai riletti o meglio non ho mai avuto il coraggio di aprirli.

Ho preferito invece usare dei testi che avevo già elaborato per un lavoro iniziato presso il mio terapeuta dopo la fine dell’analisi.

 

Ho provato a riscriverli pensando ad altre persone, “ingenue” come me (in fondo “ingenuo” non vuol dire soprattutto “spontaneo”?) che forse li avrebbero letti, e ho scoperto che questo dialogo immaginario con la normalità funzionava per me da terapia.

 

Stavo vincendo la paura e la diffidenza che la “normalità” mi aveva sempre ispirato.

 

La radice di questi sentimenti verso gli altri ( mi accorgo adesso mentre scrivo) era invidia per chi aveva avuto la possibilità di fare una vita qualunque, senza dover lottare tanto con la propria mente.

 

La mia era stata, invece, una continua battaglia, e direi dalla nascita.

Cerco di spiegarmi, anche se ne parlerò meglio avanti.

 

La psicosi è una malattia che ha una forte componente ereditaria e se, per un adulto, si può dire che in lui agiscono due variabili contemporaneamente, almeno secondo il mio parere: il codice genetico e l’ambiente, in un bambino, alla nascita, agisce prevalentemente il codice genetico e l’esperienza della vita intrauterina.

Il bambino che un domani sarà un adulto psicotico si sentirà sempre un po’ diverso dagli altri bambini: avrà, come minimo, una sensibilità molto particolare che determinerà tutte le sue prime

esperienze, e che lo condizionerà nel suo sviluppo e nei suoi rapporti, prima con la madre e il padre e i fratelli, e, in seguito, con gli altri.

Per questo, la mia vita l’ho sentita difficile fin da subito, probabilmente proprio per questo eccesso di sensibilità che ho poi mantenuto, e accresciuto, tutta la vita.

A questa si aggiungeranno altre esperienze nei primi anni di vita che verranno raccontate nei primi capitoli.

 

Oggi, di questa identità di lottatrice silenziosa e anonima, che vive una solitudine assoluta perché non può “mettersi in comune” con nessuno, né con gli psicotici (perché ciascuno di loro ha una storia assolutamente singolare), né con i normali, per ovvie ragioni, ho finito per farmene una specie di orgoglio, o meglio, una forma di calma dignità.

 

Ma il mio inguaribile ottimismo mi fa scrivere questo libro proprio nella speranza di poter “mettermi in comune” con qualcuno, normale o nevrotico o psicotico, insomma con qualcuno purchessia, e uscire così da questa solitudine siderale in cui ci sono solo io.

Anche se lì, in quel cantuccio, dove sono assolutamente sola, ci vado ogni tanto, solo per pochi attimi, quando ho bisogno di ritrovare la mia identità più profonda che, a volte, mi capita ancora di perdere.

Per questo penso che questo aspetto della mia solitudine, dovuta alla specificità della mia storia, abbia anche una funzione positiva.

 

 

 

Se il sogno di ogni malato mentale è, almeno secondo me, avere un gemello, un compagno identico perché la solitudine è abissale, ma il differente non si può tollerare, nel mio caso, invece, non lo vorrei.

Il mio sogno è di quelli proprio “impossibili”, perché vorrei essere considerata uguale ad un normale, con tanto di pubblico attestato!

Ecco, questo tipo di stigma lo accetterei ben volentieri! Ma non vorrei dover rinnegare nulla della mia storia.

 

So bene che si ha l’abitudine di dire molto male della normalità, “la normalità è borghese, è conformista…”, anche se, per la verità, dagli anni ’80 non lo sento dire più…comunque sia, questi per me, sono discorsi da gente viziata.

Per noi pazzi, la normalità, con tutta la sua piattezza e sciatteria è un gran lusso!

 

 

 

Sempre tra le difficoltà incontrate nello scrivere c’è il fatto che, fino ad oggi, escluso alcune eccezioni, non avevo mai avuto il coraggio di andare oltre il dialogo a due.

 

Avevo paura di immergermi in tanta diversità.

Potevo essere giudicata!

Uno sì, si può controllare, come avviene nel dialogo a due, ma tanti non si possono!

 

Ti devi abbandonare ad ogni possibile giudizio.

E la mania di persecuzione va a mille!

Devi, così, poterla abbassare e, nello stesso tempo, acquistare un po’ di sicurezza.

Devi poter essere “sciolta”, cioè essere di quelli che le cose se le lasciano dire…

Io che “scioltezza” non ne ho mai avuta!

 

Ma oggi mi sono accorta che avevo proprio bisogno di “rischiare” un giudizio “normale”.

Era come accettare una sfida!

O forse provare una dura disciplina.

 

Evidentemente, nel frattempo, la vita ha migliorato la mia sicurezza vitale, devo anche aver profittato bene della terapia perché questo ne era uno dei punti centrali.

Anche la mania di persecuzione è diminuita perché mi sento circondata da gente che mi vuole bene ed solidale con me.

Forse è perché anch’io ho sentimenti più benevoli nei confronti degli altri: mi sono “sgarbugliata” un bel po’ e per questo mi fa sentire più fiducia e amore verso gli altri.

Adesso sono anzi nella fase di imparare a difendermi, ma ne parlerò perché è quello che bolle in pentola.

 

 

Oggi sento di scrivere per tante facce diverse che mi guardano ciascuna con occhi differenti e mi ascoltano con in mente mondi molto lontani dal mio. ma so che attraverso  questi mondi devo passare per essere capita e la cosa mi lascia male

 

 

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