SENZA TITOLO. SECONDA MODIFICA OGGI 12 MARZO 2012

 

 

titolo del quadro: “un fantasma” (2010) di Mario Bardelli.

 

 

 

Alla notte sogno d’essere, sì, una forma umana, ma, a guardarmi bene, ed io mi guardo con attenzione, “mi” sembro piuttosto una  mummietta tutta rinsecchita in sé, uno spauracchio dei campi tutto sbiancato come gli avessero passato una mano di vernice; insomma un morticino, ma che sente tutto con grande sensibilità perché è vivo vivissimo. E’ il vedermi riflessa in questa forma estranea che mi fa sentire un certo orrore mentre sogno, ma se guardo a lungo in quella penombra che mi avvolge stretta, questa sensazione di baratro mi passa. Anche nel delirio sopportavo l’orrore guardandolo in faccia, una spinta vitale mi conduceva, mentre, sempre con gli occhi aperti, mi approfondivo man mano in quel buio che sembrava non dovesse finire mai. Perché è il nero informe che terrorizza. Invece cercando di guardare “attraverso”, sempre nel delirio, quella che ti sembra una parete d’inferno, se hai l’immensa pazienza di attendere… attendere e attendere, col fiato strozzato in gola, che “lo sconosciuto”, l’orrore mai immaginato, lentamente- il tempo è infinito- si dipani e nella foschia fitta appaia…Allora succede che quando lunghissimamente ti trovi a guardare  il fondo, scorgi alla fine alla fine una forma. Che, per quanto terribile possa essere, puoi sopportare… in qualche modo ti tranquillizza in quanto “reale”, nel senso che appartiene al mondo comune. E’ qualcosa conosciuto. Il mondo della luce, infatti, è formato di forme le più varie, quello della notte, come a volte si vede nei sogni, “non ha forme né cristalli, ma solo arene, arene senza fine” (Lorca). E’ chiaramente “la mancanza di forma”, di qualunque colore sia, che ti annienta. In quella figura del sogno, che sono proprio io, lo so, lo vedo, leggo una spossatezza che non ho mai vissuto, neanche quando rimanevo letteralmente paralizzata a letto dalla depressione e passavo il mio tempo ad invocare papà e mamma, morti da tempo, se mai avessero potuto darmi uno sguardo. Anche una distratta occhiata, anelavo, qualcuno che mi testimoniasse che c’ero ancora. Che forse esistevo. Perché, questa, che sento alla notte, nel sogno, è una stanchezza mortale che impregna tutto intorno il grande spazio che mi circonda, un chiarore leggero, forse un calore, ma impercettibile, che si espande nel mondo, pur circoscritto, cui appartengo. Sento un torpore che mi precipita in un bianco- bianco – sterminato. Mi dissolvo in una pietra che sprofonda, di gesso, anche lui bianco, un’inerzia di eternità, un sudario, forse, se mai sapessi cosa è un sudario, comunque sia, bianco, e di un bianco così abbagliante (gelato) da inondare, con un raggio pallidissimo, questo luogo mai visto, quasi completamente al buio. Qui, però, io mi sento raccolta dentro mani gentili, leggere e protettive, che mi danno l’immagine di “affidarmi tranquilla”: estranea sensazione felice mai potuta provare. Mia madre mi raccontava, e ri-raccontava negli anni, un curioso aneddoto che ogni volta la lasciava stupefatta e incredula: un fatto, non un sogno. Ci trovavamo d’estate su un prato, mi diceva, con – oltre a mia madre – mia sorella e due conoscenti del posto. Eravamo ad Ormea, frazione di Nava, seicento metri circa, dove tutte le estati accompagnavamo i miei nonni materni a sentire un po’ di fresco alla sera. Lei stava parlando e mi vedeva lì a pochi passi seduta sul prato. Dovevo avere – è sempre lei che racconta- due anni. Non mi vede alzarmi, andare dietro ad un cespuglio, fare la pipì, e subito tornare tra loro che, nel frattempo, avevano notato la mia assenza. Quello che la lasciava quasi instupidita, era non poter capire come mai non mi fossi rivolta a lei. Forse l’avevo anche offesa nel suo ruolo di madre. Non si rendeva conto che, nelle sue lunghe assenze da casa per lavoro, anche la domenica, semplicemente mi ero abituata a non rivolgermi a nessuno, neanche alla ragazza che stava con noi e che vedevo sempre così indaffarata tra pulizie, mangiare e fidanzati che le facevano piangere. La mia analista in Brasile, quando le raccontavo che la ragazza al mattino mi metteva sul seggiolone in cucina, e che io stavo lì tranquilla senza piangere tutto il giorno, anche quando la ragazza si spostava a fare le camere o altro, mi comunicava, con assoluta certezza, sua beninteso, che ero stata una bambina autistica. Questa rappresentazione di me stessa bambina, sempre ripetuta e arricchita nei vari anni di analisi, non mi entrava in testa, nonostante i tanti dubbi che mi assalivano, anche se capivo che lei sola era l’esperta. Non solo, ma la mia leggera angoscia al sentirmi descrivere così, veniva da lei interpretata non come possibile umiliazione o ingiustizia che dovevo subire, ma come una prova: non solo che il fatto fosse realmente accaduto, ma che, inoltre, era stato tenuto nascosto nella mia testolina, per non impazzire del tutto, ossia sfasciarmi senza possibile recupero. E non solo: affinché mai potesse venire alla coscienza, l’avevo ricoperto di un racconto completamente inventato per far apparire il mio comportamento (di stare buona sul seggiolone per ore) del tutto ovvio date le circostanze. Qui, il cerchio dell’interpretazione era perfetto in sé e poteva chiudersi brillantemente come fosse accaduto tutto così. Ma a me non entrava in testa nonostante la straordinaria “autorità” che l’analista aveva su di me. Non mi poteva entrare in testa perché i miei ricordi erano troppo diversi, i miei e anche quelli di mia nonna, che mi descriveva come una bambina attenta al più leggero cambiamento dell’aria e del cielo, delle persone intorno, sensibile ai piccoli mutamenti di voce, addirittura dell’intonazione, curiosa di tutto e sempre piena di “stupore e meraviglia” (del resto lo sono tuttora). Non le ho mai potuto credere: molto presto avevo imparato a fidarmi solo della mia testa e a tenere sempre ben stretti i dati di fatto che possedevo anche se non controbattevo. Me li tenevo in silenzio, stretti a me, tanto non sarei stata creduta, io ero molto piccola e “prove” non ne avevo. Neanche lei, del resto, ma le sue ipotesi erano già fatti, come ho detto. In seguito, passati anni dalla fine della mia analisi con lei, mettendo insieme tanti pezzetti rimasti nella mia mente, e ricordi anche di mia madre, ho capito che la mia analista si sbagliava, pur in totale buona fede, una fede forse un po’ affrettata nel giudicare una malattia da un unico dato (che stavo buona sul seggiolone). Come tanti, non sapeva che i bambini, anche piccoli, anche piccolissimi, intuiscono tutto delle persone che li accudiscono perché sono in un così intimo contatto con l’inconscio di chi li circonda, da sembrare che lo possano toccare e leggere come noi leggiamo uno scritto. Potete dir loro, ai bambini, tutto quello che volete, capteranno solo il vostro “essere” profondo, magari stridente con le vostre parole e atteggiamenti. Pur così piccola, io capivo che la ragazza che lavorava in casa era molto occupata e che non poteva fare diverso che lasciarmi da sola quando non cucinava o faceva la cucina. Ma vorrei tornare al mio sogno perché, al raccontarlo, mi ci sono affezionata: so che esprime qualcosa dentro di me che è vero oggi e che proprio oggi avrebbe bisogno di essere comunicato ad un altro. Lo racconto a voi, come fosse attraverso un velo, a voi che non mi vedrete mai. Mentre le immagini passano nei miei occhi – io sto dormendo – sono immersa in un silenzio così profondo e lontano che tacita tutto, anche il battere del mio cuore, o almeno lo rende così lento da farmi sentire totalmente riposata, come forse si sentono i piccoli nella pancia della mamma quando non hanno neanche il dolce sforzo di nutrirsi. “Là”, mi sento “accolta”, come in vita non mi è stato possibile (probabilmente mentre lo ero, non lo percepivo: eppure ci sono state poche persone – forse tre, forse due, forse una -che mi “accoglievano” davvero e mi facevano sentire capita, questa cosa che sembra così “impossibile” alle persone che vivono con me da secoli…). Accolta nel sogno … anche se soffro un’angoscia…un’assurda angoscia che non so nominare…  Provo a metterla in parole: sembra un enorme sbadiglio – la bocca spalancata di un gigante su di me – uno sbadiglio a bocca intera di quella luna bassa sulla mia finestra, che sento avvicinarsi lentamente per assorbirmi nella sua luce diafana. Morire di luce chiara e perdermi in una blanda luminosità soffusa… L’ho sempre sognato. Una morte dolcissima che mi accarezza la pelle anche quando son desta. Un tempo, avevo dodici anni, quando la prima depressione mi ha preso tra le sue braccia senza alcun preavviso, sognavo di sciogliermi nelle profondità degli abissi marini, in quella musica di fondali luminosi dove tu stesso diventi puro suono. Allora leggevo “Martin Eden”. Oggi i suggerimenti, o le parole che pronuncio, mi vengono da un’emozione che ho dentro, un nodo scuro inscioglibile, forse una solitudine specifica di chi non può ”accomunarsi” al mondo (tutti gli psicotici la provano). Questa sensazione di isolamento ti volge verso, e a volte chiama, quello svanire  a poco a poco che ti rende leggera, leggerissima, impalpabile come una nuvola: “più leggera di una piuma”, direbbe chi è capace di usare frasi pronte (così tutti lo capiscono subito, mentre per me è più difficile: è quella mania che ho di “dover” far corrispondere una rappresentazione mentale precisa ad una parola, ad ogni parola, senza poter usare le parole di altri: quando lo faccio, immediatamente aggiungo, quasi azzoppandomi di tanto lo faccio di corsa:  “come dice…”). Magari in quel sogno che è anche una veglia, vivo un apprendimento per anticipazione e, insieme, provo una grande serenità che mi fa sperare di perdere, o sciogliere nel vuoto, là, nella serenità senza ricordi, tutti quei secoli di guerre, lotte instancabili senza pause, che mi porto addosso dalla malattia, meglio dall’infanzia, perché “non dimentico”  nulla, o quasi, di tutta la storia, anche se non ci penso mai. I miei nervi sono stati “scritti per sempre”, come succede per qualunque trauma violento, ma succede ancora di più quando la storia di qualcuno è stata segnata da un’infintà di piccoli traumi che hanno riempito lentissimamente una coppa, che-come d’obbligo- al primo fatto casuale, anche di non grande importanza, travasa. A me è successo a trentadue anni. Ma le minacce di travasare sono state infinite, per dire “incontabili”. Adesso questo sistema nervoso così scarabocchiato è il mio e mi ci trovo bene. Le lotte di cui parlo sono quelle che ho attraversato  nei ricoveri e nei deliri, e, in forme diverse, molto diverse, da bambina, da pre-adolescente, da adolescente… Ogni tappa è un anello della collana che ho poi indossato indelebilmnete… senza mai potermi guardare nello specchio! Vedevo un mostro, anche fisicamente: da sessanta ero arrivata a 106 chili! Inamovibili. Zapparoli, l’analista, mi diceva:  “appena stai bene, torni come prima”. E così è stato. Nella mia testa vedo trenta-quaranta-cinquant’anni di lotte violentissime e diverse una dall’altra, di esperienze “indicibili” letteralmente, anche se provo a raccontarle – è il bisogno di servire a qualcosa dopo tanto dolore inutile – accontentandomi però del “pressapoco”, come del resto, è caratteristica di ogni cosa umana. Il mio è più che un pressapoco, dati i miei mezzi. Solo un poeta e un poeta grande potrebbe descrivere questi mondi così lontani dalla luce del sole e dalla sua logica, mondi che a tutti i “normali”, ma-attenzione-soprattutto al malcapitato pazzo- appaiono stralunari. E, quando è “capito”… questo “più o meno” descritto mondo… questa comprensione, come mi succedeva con il Professore Zapparoli  alla lettura dei mie testi, ci dà la stessa felicità della perfezione cui lungamente abbiamo teso nell’adolescenza. So da molto tempo che sono vecchissima e che ho vissuto, mio malgrado, per secoli e secoli, che mi hanno trasformato in uno di quei  bellissimi scogli, ognuno un quadro astratto di colori diversi, tutti tenui, con finissimi disegni bianchi, su cui ho camminato per ore, ieri, a S. Stefano al mare, a fianco del porto di Aregai. Anche lo psichiatra ha capito, quando gliel’ho detto poco tempo fa; gli ho detto che sono “troppo stanca”. Mi ha chiesto: “ha avuto vari ricoveri, deliri…?”. “Sì”. E lui “ha capito”, ha capito che ho bisogno di riposare. Questi pesi antichi e nuovi me li porto addosso anche di giorno, ma solo quando qualcuno mi grida e mi maltratta, cosa che, per la mia eccessiva sensibilità, tipica degli psicotici, anche se non solo, può essere anche la mancanza di un sorriso, la mancanza di gentilezza, una maleducazione. Un semplice ”scrostati”, come dice mia figlia nel suo linguaggio, ma non parlando a me. Vi racconto adesso una piccola storia che serve a mostrami nei miei affetti determinanti: succede che i bambini piccoli, quando sono sazi di cibo e di carezze, si addormentano. Allora la persona che li ha allattati o ha dato loro il biberon, può sparire nel nulla senza che i piccoli ne risentano. . . fino a quando si risvegliano e vogliono la nuova poppata e le nuove carezze. In quel momento, di nuovo la mamma adorata esiste… per scomparire subito dopo, finita la sua funzione. Nella mia vita ho recitato quasi sempre la parte di questa mamma, pur “adorata”, dal momento che questo tipo di relazione si instaura anche tra adulti. Per tanti, adulti e anche vecchi, una persona compare e scompare in relazione al “bisogno” (in tutti i sensi, anche elevati) che sentono di lei. A questa mamma di adulti-vecchi, il destino non è stato amico. Negli anni ha dovuto fabbricarsi una sicurezza che è quasi inumana e una sicurezza nella totale solitudine (al punto che a tratti la fanno sparire dal mondo dei vivi) che, forse, se non fosse stata psicotica (chiusa in un giardino agli altri inaccessibile) non potrebbe sopportarla. Lei è già stata in prigione: di se stessa e dell’incomprensione assoluta degli altri che travisavano in mille modi il suo comportamento, non riuscendo a capirla. Questa prigione l’ha allenata a quell’aria rarefatta in cui si respira con molto autocontrollo, che è questa solitudine particolare di cui vi parlo. Tutti siamo soli, nasciamo soli e moriamo soli. Ma non è precisamente questa solitudine che cerco di comunicarvi, mi accorgo, senza riuscirvi. E di nuovo torna il Professor Zapparoli che lui la capiva! Curare psicotici era il suo lavoro. Ho visto altre persone, per quello che ho potuto osservare dalla mia piccola tana, visto e “interpretato” solo da me, lo sottolineo, persone adulte o addirittura di età, che reagiscono come i bambini piccoli: anche a loro l’immagine della persona, cui si aggrappano per sopravvivere in questo mondo grande ed estraneo, sparisce subito dalla loro mente perché confortati, sazi si lasciano prendere da altro, magari da quella nuvola leggera nella quale si perdono volando lassù in alto con lei. I bambini, anche adulti, amano le nuvole e tutto ciò che li fa volare. E’ anche possibile che io abbia bisogno proprio di queste persone, totalmente distratte dagli affetti costanti, perché l’immaginazione li porta via come un aquilone, con il filo ben stretto nella loro mano…è possibile che risponda ad un bisogno mio profondo che non riconosco, può essere, non lo so, forse me lo direte voi, ma tante volte mi domando: “Perché? Cosa avrò mai da espiare per accettare rapporti che mi fanno soffrire più di quanto io riesca a mettere in parole?” Saranno parte della mia malattia: diventare pazzi dà dei sensi di colpa inenarrabili verso l’immagine di se stessi, prima ancora che per le sofferenze che causiamo agli altri. E bisogna allegerirsi espiando espiando per stare dritti e poter vivere. Ma sarà poi così? O sto vaneggiando? Anche questo me lo direte. Questa immagine di me che vi porgo di nascosto, quella mummietta rannicchiata in sé come uno straccetto ben strizzato, uno “strufuiu”, si dice affettuosamente in Liguria, uno stroffinaccino, è una rappresentazione di me così segreta che persino a me si mostra solo nel sogno, o nella veglia, forse per  pudore persino davanti a me stessa. Ma se non hai le parole per dirlo ad un altro, non esisti e questo nodo, dentro di te, marcisce. Tu vuoi che esista perché è la più vera te stessa anche se a tutti segreta. Nel sogno la riconosco subito e sono contenta che mi venga a visitare e ad accogliermi, come solo lei sa fare, per il semplice fatto che è un’altra me stessa… Anche da sveglia, dove mi vedo una persona piena di coraggio per continuare a lottare , per sé e per gli altri, come ho sempre fatto, so molto bene che, in quella parte della mente a noi più lontana, forse inaccessibile, io sono quella cosa lì, quel mucchietto di ossa ed occhi che mi guardano spalancati di stupore. Nel sogno o nella veglia. Adesso, alla fine del racconto, so qual’è il motivo per cui mi sono così affezionata a questo scritto: perché è una carezza vostra e mia, che piano, “doucement”, mi percorre tutta, asciugando ogni lacrima del mio corpo intero, mai versata (non sono, da anni, più capace di piangere, se piango “piango dentro”, se potete capire, un pianto che è solo dolore, senza sollievo, perché non c’è sfogo: è un grumo di lacrime che macera le viscere). E desidererei da te, proprio tu che hai alzato gli occhi in questo istante sul mio velo, se mai fosse possibile, desidererei che qualcuno di voi superasse l’orrore naturale e mi accogliesse in braccio come solo si può accogliere se stessi. Il mio momento,  questa dolcissima meta, che  immagino come una grande rivelazione sul mio essere, un momento di conclusione, non è ancora maturo, come quei fichi profumati sull’albero di questa mattina, un odore che mi inebria, proprio perché non si lasciano cogliere sapendo di non essere pronti. Anch’io non sono pronta ed anch’io non riesco a cogliere quell’attimo di me stessa che è appena passato. Ma si ha bisogno di chiudere il cerchio che racchiude un’intera vita. Eppure mi è difficile porre in parole, per dirvelo, con quanta ardente passione io ami la vita e la bellezza. E ancor più l’amore di tutto. Non solo del bello.

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2 risposte a SENZA TITOLO. SECONDA MODIFICA OGGI 12 MARZO 2012

  1. nemo scrive:

    L’ hai detto: la tua sensibilità è elevatissima, così che non puoi ‘scivolare’ sulle contrarietà che ogni momento della vita ci sono riservate. Essere ‘coriacei’ ( un po’ stupidi, si diceva una volta ) sarebbe una buona ‘difesa’. Un mio collega invitava un altro collega a riflettere su come fosse ‘fortunato nella vita’ perché ‘ u nun capiva in belin ‘. Be’, mi pare che questo ‘filosofo ruspante’ avesse un po’ di ragione. Come fare ? Potrà aiutare il sapere che tutti, tutti, tutti proviamo le stesse incomprensioni, contrarietà, disillusioni, stanchezze, offese, difficoltà, ecc, ecc, ??

  2. nemo scrive:

    Un complimento particolare per i disegni che ‘intestano’ i post : raffinatissimi, ‘colorati’, accattivanti, che arricchiscono il blog. Un ” bravo ! ” meritatissimo per l’ artista.

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