SOTTOLINEATURA DI CHIARA
Israele: il blog di Ann Harrison
(27 novembre)
- Ospedale Soroka, nella città di Be’er Sheva
Era l’alba del 21 novembre quando siamo arrivati in Israele per iniziare la nostra indagine sui razzi partiti da Gaza, che alla fine dell’ultima ondata di violenza ha causato tra gli israeliani sei morti (di cui quattro civili), almeno 40 feriti e oltre 300 ricoverati per lo shock.
In cielo c’erano ancora scie di vapore, lasciate forze dai missili “Iron Dome” usati per intercettare i razzi lanciati dai gruppi armati palestinesi che, stavolta, sono arrivati più a nord, fino a Tel Aviv.
Una delle stanze del nostro appartamento è la mamad, il vano obbligatorio che per legge tutte le nuove costruzioni devono avere: serve come rifugio antiaereo, è privo di cemento e le pareti sono rinforzate.
Dormire in questo ambiente claustrofobico mi ha fatto tornare in mente la costante paura degli attacchi dei razzi con cui gli israeliani convivono da quando, nel 1991, l’Iraq lanciò contro Israele i missili “scud”, durante la prima Guerra del golfo.
L’utilità della mamad l’abbiamo verificata quando abbiamo visto le rovine degli ultimi piani di un palazzo di Rishon LeZion, colpito da un razzo partito da Gaza il 20 novembre. Se i suoi abitanti non fossero stati nella mamad, sarebbero rimasti sicuramente uccisi. Ovviamente, gli abitanti di Gaza e molte persone che vivono nelle vecchie costruzioni in Israele non hanno alcun accesso a rifugi del genere.
Kfir Rosen, uno dei feriti nell’attacco del 20 novembre, aveva deciso di non rifugiarsi nella mamad quando iniziarono a suonare le sirene: “L’allarme era cessato e non era successo niente, neanche si era mosso l’Iron Dome. Improvvisamente c’è stata una grande esplosione e si è sollevata una cortina di cenere e polvere da sparo che mi ha riempito la gola. Dal piano di sopra sono crollati mattoni: uno ha preso la mia spalla destra e un altro sul lato destro del bacino. Un altro pezzo è rimbalzato su un braccio e un frammento incandescente mi ha bruciato il collo. Ho sceso di corsa le scale e ho visto una distruzione di massa. Il parcheggio era pieno di carcasse di autovetture. Mio fratello a sua volta era rimasto ferito, meno gravemente di me, ma aveva sangue che gli colava dalla testa”.
All’ospedale Soroka, nella città di Be’er Sheva, abbiamo intervistato parecchie persone colpite dagli attacchi indiscriminati coi razzi a partire dal 14 novembre. Nel corso degli otto giorni di conflitto, sono stati oltre 1500.
Un agente di polizia che ha voluto rimanere anonimo ci ha raccontato: “Mio figlio, 16 anni, stava giocando a calcio con suo fratello e gli amici. Alle 20 del 20 novembre, la sirena ha suonato. Sono corsi tutti quanti a ripararsi dietro un muro di cemento ma quando il razzo è atterrato, un frammento ha colpito la gamba di mio figlio, penetrando in profondità nei legamenti. Speriamo che guarisca presto e che possa tornare a giocare a calcio, ma c’è ancora il rischio d’infezione. È molto dura, quando sei solito aiutare le altre persone, accendere la radio, sentire che c’è stato un attacco, arrivare sul posto e scoprire che è tuo figlio che è stato colpito”.
Nayyaf al-Ginawi, un palestinese israeliano della città beduina di Lakiya, ci ha detto: “Stavo guidando, quando un razzo è atterrato lì vicino, mandando in frantumi il finestrino. Una scheggia mi è entrata nella mano destra. Ora dovrò operarmi”.
In un altro centro sanitario abbiamo incontrato Sima Deutsch, 75 anni. Lei e suo marito, un sopravvissuto all’Olocausto, aiutandosi con un ausilio motorio, avevano lasciato l’appartamento per raggiungere l’area sicura del loro edificio, privo di mamad. Ha inciampato nelle rotelle dell’ausilio ed è caduta in terra, fratturandosi il femore: “Così è un inferno. Spero di tornare presto a camminare. Non sono una persona cui piace stare seduta ed è dura non poter far niente. A causa del terrore dei razzi, non potevamo uscire in strada”.
Il numero delle vittime e la dimensione dei danni sono ampiamente inferiori rispetto a Gaza. Ma questi attacchi indiscriminati pongono le vite della popolazione civile sempre a rischio.
Poi c’è stato l’attentato all’autobus di Tel Aviv, il 21 novembre, non rivendicato ma il cui bersaglio erano evidentemente i civili; come gli attacchi indiscriminati coi razzi, si è trattato di una chiara violazione dei diritto internazionale. Amnesty International ha ripetutamente condannato queste azioni.
Tutte le parti coinvolte nel conflitto di Gaza e Israele dovranno porre la protezione dei civili ben in cima alle loro priorità in caso di ripresa delle ostilità. Osservatori internazionali su entrambi i lati potrebbero fare molto per prevenire future violazioni e contribuire all’accertamento delle responsabilità per qualsiasi cosa dovesse accadere.
Ho lasciato Israele con le parole di Yonathan Gher, direttore di Amnesty International Israele: “La prima domanda che mi ha fatto il mio piccolo figlio è stata come venivano sparati i razzi verso Tel Aviv, dove viviamo. Facile rispondere. La seconda domanda è stata: ‘perché?’ Anch’io ho una domanda: Perché un bambino di qualunque parte del mondo deve fare una domanda del genere?”
Ann Harrison è la vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International
Vista da noi, che ne siamo abbastanza distanti, la situazione di Israele e Palestina sembra l’esemplificazione di quanto gli uomini possano farsi del male e, dati i luoghi, una condanna biblica. Ma come è possibile che l’ONU non possa imporre una tregua, anche impegnando un corpo di pace che tenga lontani i due contendenti; come è possibile che in Israele prevalga quasi sempre l’ala più estrema, quella che permette i nuovi insediamenti, che sarebbe impegnata a bloccare? Come possono, i rispettivi governi, pensare che i loro popoli vivano o sopravvivano in quel modo?