23 ottobre 2013 ore 22:33 DOPO BLOCCHI VARI in questo periodo E PERICOLI DI “CONTATTI” con i quaderni, DOPO TRE MESI CHIARA PROVA A TORNARE “NEI SUOI STRACCI”…VI TROVO UNA “MIA REALTA'” FORTE CHE RAFFORZA I CONTORNI DEL MIO “IO” IN QUESTO PERIODO UN PO’ SLABBRATI–SE LEGGETE, VE NE SONO IMMENSAMENTE GRATA- SOPRATTUTTO SE “ALMENO UNO” POTRA’ ACCOGLIERMI IN UN ABBRACCIO COME UN SUO SIMILE.

 

nota di chiara: quest’ultima parte del libro, più di altre, è stata stesa- praticamente mettendo in italiano – due malloppi scritti a macchina durante la malattia;  li avevo mostrato al terapeuta, il Prof. Gian Carlo Zapparoli, che li aveva letti riga per riga in cambio di tre milioni di lire . Per me era stato un bisogno taumaturgico e un’illusione che “se il Professore avesse toccato lo scritto” avrebbe mandato via la mia pazzia per sempre. E’ curioso naturalmente: ma è successo! Come il grande De Martino sapeva bene dalle sue ricerche, la mente “funziona” anche così. Anche se non solo così e, poi, oltre alla suggestione c’è il dio “casualità”!

 

 

parti precedenti si trovano in:

I. 8 aprile 2013 ore 18:42 ULTIMA PARTE DEL LIBRO DI CHIARA: UN DELIRIO “A DUE”. parte 13-14

 

II. 11 aprile 2013 ore 06:51 CHIARA, ULTIMA PARTE, n.15/16

 

III. 28 APRILE 2013 ORE 18:24 PARTE 18-19/// UN “DELIRIO A DUE” (CON IL “MIO”  ZAPPAROLI) ANNULLA QUELLA SOLITUDINE DA “PIETRA CHE ROTOLA SU UN MARCIAPIEDE DI SQUALLORE” E MI APRE AL SOGNO DI UNA RIVOLUZIONE CULTURALE PLANETARIA E ALLA PASSIONE DELLA SPERANZA IN UN MONDO “DI PERSONE”, FINI NON MEZZI.

 

IV.  4 MAGGIO 2013 ORE 08:45 ULTIMA PARTE LIBRO CHIARA: UN DELIRIO A DUE E SVILUPPI: PARTE XX- XXIII

 

V. 10 maggio 2013 ore 07:37 ultima parte libro di chiara: dal ricordo del mezzadro. (Parte IV)… “si origina una parte mia in cui sono autogenerata” cap. XXIV-XXVII

 

VI .  10 giugno 2013 ore 07:24 ULTIMA PARTE DEL LIBRO DI CHIARA/ CAP. XVIII-XXX “COME CONSEGUENZA DELL’EPISODIO DEL MEZZADRO CAMBIA IL MODO DI VEDERE MIO PADRE”

 

 

 

 

VII.   UN’IDENTITA’ POSSIBILE-

27 luglio 2013 ore 09:30 VII. un’identita’ possibile e la violenza della fine del delirio //UN ALTRO PEZZO DEL LIBRO DI CHIARA (PRIMA STESURA)

 

 

 

VIII.  Un’identità da strabico, un occhio ad ovest ed uno ad est

(parti XXXV-ILVI)- libro chiara, ultima parte (prima stesura)

10 agosto 2013 ore 16:41 LIBRO CHIARA, ULTIMA PARTE (CAPP. 35-46) —UN’IDENTITA’ DA STRABICO, UN OCCHIO A OVEST ED UNO A EST

 

 

IX   piano piano ci si “addomestica” alla normalità di tutti

(parte XLVI  / XLIX )  -libro chiara, ultima parte (prima stesura)                   (pagg. 86-96 testo originale)

 

 

 

X    un’identità che non potevo guardare negli occhi

 

 

 

Il film “Colazione da Tiffany”, visto alla fine di luglio, mi aveva rimandato l’immagine di una me stessa che conoscevo, ma che facevo di tutto per non vedere.

Alla fine ho pianto tutte le mie lacrime.

 

Era la me stessa del deficit, come dicono gli specialisti, un cane perduto senza aver mai avuto un collare, prigioniero di se stesso, ma che non può scappare e non ha nessuno, neanche un altro cane che gli tenda la mano, una mano vera, concreta, fatta di carne, non le solite mani fatte di parole.

 

La depressione che sentivo era una depressione buona, non quella che di solito mi arrivava dopo la mania, era un contatto con la realtà doloroso, ma che non mi faceva precipitare negli abissi.

 

Dovevo accettare di avere uno stigma, questo non si poteva cancellare, era la mia storia, ce l’avevo impresso nella carne, ogni tanto fiorivo una primavera in più, come dicevano della famiglia di mia madre.

 

Mentre io, al lavoro, dove ero stata presentata come un “paziente guarito”, volevo dimostrare di essere sana come gli altri.

 

Quando invece, anche senza crisi, ero sempre una persona molto più fragile.

 

 

Il sogno grandissimo che alberga nel cuore di un malato mentale è di essere sano di mente… magari a ottant’anni…magari a cento…ma diventare come gli altri.

 

E’ questa la solitudine che pesa.

E’ essere fuori dal mondo degli altri.

 

 

Inoltre, il mio infantilismo non mi permetteva nel lavoro di darmi un obiettivo intermedio, pianificare i miei sforzi e risparmiarmi, acquisire un fiato lungo.

 

Sono sempre rimasta una bambina incollata ai vetri di una vetrina che non può vedere in prospettiva, che non ha idea di futuro.

 

Inoltre il lavoro era troppo vicino alla fine della terapia, il mio transfert (legame col terapeuta di tipo “amoroso” come per un maestro, un’autorità che amiamo. genitori e modelli in genere) era ancora troppo alto, mi obbligava a tagliare, comprimere dei sentimenti e questo mi consumava energia per tenerli sepolti.

Era stato scelto male il momento del distacco.

 

Ero entusiasta di quella Chiara che vedevo apparire, una persona capace di lavorare…e l’entusiasmo non aiuta a prendere le misure.

 

 

 

XI   una mente troppo stanca di tanto lavoro

 

 

Quando il delirio se n’ è va rimane una grande labilità, la mia mente era molto stanca di tanto lavoro.

Questo mi portava spesso a piangere, anche se normalmente non piango mai.

 

Il delirio mi stava ancora vicino, stava con me anche se non mi recava alcun disturbo.

 

La percezione della realtà era più brillosa come se il mondo fosse rinato in primavera, bagnato di rugiada.

 

I processi della mente per riacquistare una sua normalità sono molto graduali e lenti.

Il delirio se ne va per piccoli territori e in ognuno bisogna passare.

 

La mente è sfinita e può fare solo un piccolo lavoro per volta.

 

Era come se avessi tagliato un cordone di ferro con cui mi ero tirato il mondo addosso, l’avevo tagliato quella notte in cui avevo pensato di suicidarmi e non l’avevo fatto.

 

Poi dovevo spostare il mondo al suo posto, la grossa spinta l’avevo data in una volta sola, un lavoro durato due giorni.

 

Poi ero rimasta un po’ qui e un po’ là.

 

In seguito il delirio non c’era più, ma rimaneva a mano come quando ero andata alla clinica per l’esame del litio.

 

 

 

 

XII             una ginnastica mentale pesante

 

Andando alla spiaggia, dovevo ogni volta spingere di nuovo il mondo indietro perché minacciava di ingoiarmi di nuovo.

 

E’ come una ginnastica pesante e bisogna farsi i muscoli per tenerlo là.

Fisso là.

 

Questa ginnastica consisteva nel fatto che se, per esempio, sentivo della gente parlare in spiaggia, ed era di nuovo “tutto giusto”, proprio come nel delirio, si incastrava tutto di nuovo, dovevo ripetermi continuamente:

“ not me”.

 

 

Così era per tutto, paesaggio per paesaggio, situazione per situazione.

 

Dovevo fare un continuo lavoro di discriminazione tra me e l’esterno.

 

Separare da me la gente e lasciarla là fuori in uno spazio che non era il mio.

 

A volte, mi dicevo ancora: ma potrebbe essere.

 

A volte, mentre piangevo, mi dicevo: “ Ce la vorrei una telecamera nascosta, mi terrebbe compagnia”. Tanto ero sola.

 

Ogni tanto, se scrivevo i miei quaderni, mi veniva l’idea che tutto era teletrasmesso al mio terapeuta.

 

A volte si ripresentava anche l’immagine dell’équipe americana.

 

Anche il mio terapeuta doveva abbandonarmi, diventare l’altro e stare nel mondo esterno in uno spazio e in un tempo cui non avevo accesso.

 

 

 

Oltre alla ginnastica di spostare le immagini del mondo fuori di me, la mia terapia consisteva nel guardare tranquillamente il mondo esterno, una terapia cui ero allenata perché la facevo da molti anni.

 

Lasciavo che le sue immagini entrassero dentro di me, occupassero uno spazio mentale giusto che mi faceva star bene.

Sentire i suoni, i rumori e accettare che a poco a poco queste figure luminose, era estate e c’erano le rondini , si sostituissero alle immagini del mio mondo interno ancora confuse e fosche.

 

A volte, alla fine di questo lavoro, scoppiavo a piangere e mi dicevo: “Qualcuno mi è morto dentro” e non sapevo chi.

 

Invece, a volte, ringraziavo il Signore di essere ancora viva.

 

 

Mi dicevo anche : “ Perché, invece di lavorare tanto, non tenti di dimenticare?”

Passavo il tempo a scrivere sui miei quaderni.

Ma non potevo, dovevo finire questo lavoro della mia mente.

 

 

A volte il delirio rimaneva fermo nell’aria davanti a me: era lì, ci credevo, poi mi “svegliavo”, e non ci credevo più.

 

E andavo avanti con questo tormento.

 

Ne parlavo con Mario e mi faceva bene, mi faceva meglio dell’Haldol.

 

 

 

XIII   ero la bimba del terapeuta

 

 

Ho sognato, un sogno piccolo, lo studio del mio terapeuta, uno studio grande come un salotto, che non avevo mai visto, io ero un po’ addormentata su un piccolo tavolino vicino ai divani e sentivo il terapeuta nell’altra stanza sgridare una bambina.

 

Quando è venuto vicino a me ha detto: “ E’ un gran lavoro!”, ma io ho fatto finta di continuare a dormire.

Forse perché mi aveva abbandonato andando in ferie.

 

Ho inteso: “ E’ un lavoraccio uscire dal delirio”.

Quella bambina ero io, mi sgridava perché non ero stata capace di non impazzire.

Ma era proprio lui ad essere così aguzzino? Lui o ero io. Era stato lui a “covare” – per lunghi anni- insieme a me “una coscienza morale protettiva” per calmare (calmierare>) quella parte urlante che solo esigeva, senza avere  il tempo e la voglia di apprendere la capacità del gran passo di montagna.

 

 

Nell’altro, ero davanti ad un quadro con una palma dipinta, dicevo ad un pittore, una pittrice e uno scultore che mentre, per i disegni sul tronco il simbolismo non si discuteva, il ramo della palma, che si apriva ad arco, aveva un simbolismo mobile e relativo: poteva essere un elemento femminile rispetto al tronco, ma rispetto alle foglie poteva essere inteso come elemento maschile.

Mentre parlo, lo scultore si allontana come uno che deve stare a sentire cose trite e ritrite.

Il mio terapeuta, scultore di menti era arcistufo?

 

Questo tipo di lettura di simboli era presente in tutto il delirio.

 

 

Ho svegliato Mario e gli ho detto: “ Io non voglio più vederti come figlio, devo poter tirar fuori l’aggressività che ho verso di te, altrimenti non esco da questo delirio.”

 

Il delirio si manteneva anche per i conflitti che avevo con le persone a me vicine e con il mio terapeuta.

 

Lui, , “Lui”, dovevo lasciarlo, abbandonarlo a se stesso e rinunciare al lavoro, anche se mi sembrava una cosa peggiore della morte.

 

Gli ero stata troppo vicina, incollata, e mi ero ingoiata anche la sua pazzia.

 

 

 

 

In tutta la vita non avevo potuto mantenere una professione per più di tre anni… sempre sopraggiungeva una crisi o di mania o di depressione.

 

Questo aveva lasciato un gran buco nella mia identità e aveva aumentato la mia vergogna di non essere come gli altri.

 

Lavorare presso il mio terapeuta, un lavoro che mi piaceva moltissimo, mi aveva dato il sogno di un riscatto anche davanti a mia figlia. Non solo di una vita.

 

Essergli vicino, lavorare per lui, mi era sembrata una garanzia e si era invece rivelato un gran pasticcio.

 

 

 

XIV   mio padre, il mistero e il dolore della mia vita

 

 

Tutta la vita avevo cercato nella terapia di restaurare la figura di mio padre, di riformarmi dentro un’immagine di padre autorevole cui potermi appoggiare e sentirmi protetta.

 

Avevo bisogno di spostare il mio interesse da una madre forte, bellissima e inaccessibile, ad un padre amorevole, ma dignitoso, convinto del suo ruolo di padre e di uomo.

Questa figura non ero riuscita a costruirla.

 

Erano sorte, al suo posto, innumerevoli confusioni, perché puntualmente, nella terapia, risorgeva una Chiara bambina innamoratissima del suo papà buono e generoso.

Che mi faceva i disegni e scherzava con me.

Un papà identificato con un mezzadro.

 

Non era semplice contenere, nella terapia, quest’immagine, perché non si era evoluta, ma bloccata ai primi anni.

La figura di mio padre era così forte e così meravigliosa perché era una figura combinata di madre e padre.

 

A lui, infatti, nel mio straordinario bisogno di affetto, mi ero rivolta di fronte ad una madre che io percepivo fredda e scostante, sempre distratta dagli affari.

 

Solo molto tardi ho potuto capire che avevo una bocca troppo grande sul mondo, che le persone mi apparivano troppo distanti perché i miei desideri erano sempre eccessivi.

 

Ero stata una bambina straordinariamente ammirata, ma poi tutto era sparito, come un teatrino sbaraccato dove ero  stata la primadonna.

Era cominciato tutto all’asilo dove facevamo teatro e io ero la più brava, sempre applauditissima al saggio finale.

 

Questa immagine era andata avanti per un po’, poi non c’era stata più.

 

Non so ricostruire quando questo fosse successo, forse semplicemente crescendo e perdendo quei vezzi che fanno i bambini straordinariamente amati.

 

Tutto era sparito improvvisamente, o così mi sembrava, e quell’immagine adorata era finita laggiù sotto i piedi, scivolata via su un pavimento qualsiasi.

Mi aveva lasciato dentro un vuoto incolmabile.

 

 

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1 risposta a 23 ottobre 2013 ore 22:33 DOPO BLOCCHI VARI in questo periodo E PERICOLI DI “CONTATTI” con i quaderni, DOPO TRE MESI CHIARA PROVA A TORNARE “NEI SUOI STRACCI”…VI TROVO UNA “MIA REALTA'” FORTE CHE RAFFORZA I CONTORNI DEL MIO “IO” IN QUESTO PERIODO UN PO’ SLABBRATI–SE LEGGETE, VE NE SONO IMMENSAMENTE GRATA- SOPRATTUTTO SE “ALMENO UNO” POTRA’ ACCOGLIERMI IN UN ABBRACCIO COME UN SUO SIMILE.

  1. nemo scrive:

    Straordinaria capacità di analizzare ogni ‘piega’ della tua vita passata, cara Chiara. Il dramma che hai attraversato ( e superato ) mi prende emotivamente.

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