ore 23:45 ho trovato una recensione di “UNA DONNA SPEZZATA” DI SIMONE DE BEAUVOIR ///Tre protagoniste femminili colte nel momento di una crisi

Chopin: Polonaise No.6 in A flat major Op.53 “Heroic”


http://www.youtube.com/watch?v=FbtPlHs-HvU

 

 

 

 

(Parigi9 gennaio 1908 – Parigi14 aprile 1986), è stata un’insegnantescrittricesaggistafilosofafemminista francese.

 

 

 

 

“Una donna spezzata”, tre storie narrate da Simone De Beauvoir
Tre protagoniste femminili colte nel momento di una crisi  


di LAURA LILLI

Le donne sono tre, ma il titolo ne indica una soltanto: Una donna spezzata. Eppure non si tratta di tre capitoli di una stessa vita. Si tratta di tre personaggi diversissimi tra loro: una casalinga, una celebre studiosa di letteratura francese, una madre abbandonata a se stessa e alla sua solitudine durante la notte di capodanno. Perché dunque una sola donna spezzata?

Una ragione c’è, e costituisce buona parte dell’incantesimo di questo che forse potremmo definire a sua volta un romanzo “spezzato”. E’ il libro in cui a Simone de Beauvoir è meglio riuscita la sintesi tra narrativa e saggistica, tra il racconto e l’ideologia che gli sta dietro. Che, anche se mai enunciata apertamente in queste pagine, somiglia molto a quella della “stanza tutta per sé” di Virginia Woolf: le donne devono sforzarsi di crearsi uno spazio proprio, che non le faccia ritrovare sole e, peggio, non crei nuove solitudini. “Donne non si nasce, lo si diventa” è forse la sua frase più famosa. E le va riconosciuto che nella sua vita (1908-1986) si mostrò capace di diventare, come amava dire, “madre di se stessa”.

Per inciso, il libro più importante di Simone de Beauvoir rimane certamente il ponderoso saggio Le deuxième sexe, del 1949, – tradotto in Italia dal Saggiatore nel 1961 – col quale il femminismo occidentale ha fatto la sua prima apparizione sulla scena culturale del Novecento in termini non queruli o rabbiosamente rivendicativi, ma filosofici, antropologico-culturali e logicamente incontrovertibili. Infatti fece centro. Non a caso suscitò un’incontenibile ondata di furore tra gli intellettuali francesi ufficiali, cioè maschi. François Mauriac scrisse a un collaboratore di Les temps modernes, la rivista che Simone dirigeva allora col suo compagno Jean-Paul Sartre, “ora la so lunga sulla vagina della tua direttrice”. Albert Camus, col quale lei e Sartre erano stati grandi amici fino al ’52, quando Sartre si riavvicinò al Pcf, le rimproverò, seriamente di “avere ridicolizzato il maschio francese”. Professori furiosi scagliarono il libro in fondo all’aula (lo ricordò la stessa Simone in un’intervista del ’76). Molti altri dissero che il libro glielo aveva scritto il suo compagno, chiamandola “la grande Sartreuse” o “notre dame de Sartre” (il gioco di parole si riferisce alla cattedrale di Chartres). Il partito comunista francese la gratificò di “lesbica” e “piccolo borghese”: difficile stabilire quale epiteto, per quei tempi fosse il più sanguinoso.

Ma torniamo a Una donna spezzata, libro leggibilissimo, che anzi qua e là ti cattura come una telenovela perché, come avviene soprattutto nel primo e più lungo racconto – quello che dà il titolo al volume – non disdegna di affrontare temi che a quell’epoca venivano altezzosamente considerati minori, “roba di donne”, e restavano confinati nei ghetti rosa delle piccole poste di settimanali femminili. In Italia, solo Alba de Cespedes osava far questo. Vendeva molto ed era tradottissima, ma i critici nostrani la snobbavano, considerandola appunto un’autrice “rosa”. Al tempo stesso, la scrittura di Una donna spezzata è un autentico esercizio di stile, che cambia col cambiare dei temi. Dal tono dimesso, quotidiano del primo racconto passa, nell’ultimo, a un monologo di tipo joyciano, anche se la cartesiana de Beauvoir non è disposta a rinunciare a una leggibilità immediata, che non richieda ai lettori di dover tornare e ritornare sui suoi paragrafi, e non forzi sulla loro lunghezza, sulla punteggiatura, su ellissi o giochi di parole eccessivamente criptici. Al di là dello stile, in ogni pagina del libro si legge, in filigrana, quel contenuto che allora si chiamava messaggio (il libro è del 1967, e la traduzione italiana, fatta da Bruno Fonzi per Einaudi, è del ’69).

Quello che le tre protagoniste dei racconti hanno in comune, e che le rende in certo senso “una”, è di essere colte in un momento di crisi e al tempo stesso di verità, decisivo per la propria vita. Che dopo quel momento sarà diversa. La casalinga scopre che il marito non solo la tradisce, ma è fortemente tentato di lasciarla. Fa di tutto per evitarlo, ma ogni sua mossa peggiora la situazione: finché la vita, che fino ad allora non l’aveva mai veramente messa alla prova, riparata com’era dal suo uomo, non le si capovolge sotto gli occhi, irreparabilmente, giorno per giorno. Le amiche non le sembrano più affidabili, l’amore delle figlie le si sgretola in mano, rivelandosi qua e là per odio o almeno sopportazione. Insomma, tutto quello che le sembrava giusto di colpo le pare sbagliato: sente di camminare su sabbie mobili, non si fida più di se stessa, anzi sente di perdere la propria identità (il rimprovero sottinteso dell’autrice è che non ne avesse mai avuta una, ma avesse vissuto di una vita riflessa come certe edere che si arrampicano sui pini). Finché si ritrova sola, e in preda alla paura.

La paura era qualcosa di molto femminile, di cui Simone de Beauvoir a sua volta aveva avuto paura fin da giovane, e di cui fin da giovane aveva deciso di liberarsi. Perché “femminile”? Perché la sottile ma inestricabile congiura maschile, filosofica prima che pratica, in cui nel Secondo sesso aveva dimostrato che le donne sono avviluppate come la mosca nella tela del ragno, ha provocato col tempo in loro una sorta di “complesso di Cenerentola” (così lo avrebbe chiamato Colette Bowling nel 1985): il desiderio inconscio di essere sempre salvate o protette da qualcuno.

Nel’31, a 23 anni, Simone decise di doversi separare per qualche tempo da Jean-Paul Sartre, dal quale sentiva di dipendere troppo. Lasciarsi andare era una tentazione tranquillizzante, ma avrebbe anche significato rinunciare a se stessa. Doveva imparare a fare a meno per qualche tempo del suo principe azzurro con basco e pipa. Accettò un posto di insegnante in un liceo di Marsiglia, e qui si svolse una sua straordinaria lotta contro la paura. Si avventurava in escursioni rischiose nei due giorni di riposo settimanale. Andava da sola, con scarpe di corda, e camminava ogni volta più lontano, per picchi e canaloni sempre più pericolosi. La insidiavano cani rabbiosi e camionisti resi spavaldi dalla solitudine dei luoghi. Ma doveva “vincere” da sola. Il giorno in cui la prova è più temeraria è quello in cui si trova davanti a una faglia di roccia. Non si può andare indietro, e proseguire implica un salto mortale, o quasi. Esita, poi salta.

Per l’eroina del secondo racconto, L’età della discrezione, il problema cruciale è l’età. Accorgersi di perdere colpi e invecchiare è la goccia che fa traboccare il vaso delle sue certezze, anch’esse, all’inizio, radicatissime. Lei e il marito, scienziato, sono una coppia di intellettuali affermati sia nella carriera sia nell’impegno politico a sinistra. Ma lui è scontento dei propri risultati (“nel mio gruppo tutte le idee nuove vengono dai giovani”, dice), e a lei sembra invece stupidamente arreso alla vecchiaia. Benché avanti negli anni, a lei pare che la loro esistenza veleggi maestosa e sicura di sé e del proprio passato, tuttora protesa verso un luminoso futuro. Fra l’altro, tale esistenza è imbullonata su una solida routine coniugale. Che però sfiorerà la crisi: non per colpa di un’altra donna, ma proprio per l’eccessiva sicurezza della protagonista che, con la sua allergia al dubbio, è di fatto cieca e sorda di fronte al presente e ai suoi mutamenti.

D’un tratto, il figlio per il quale nutriva ambizioni accademiche, accetta una carriera e una moglie che lei disprezza. Per giunta cambia idea politicamente. Il padre lo perdona. Ma lei no. Soffre della propria durezza. Ma ancora non capisce che gli altri esistono, e sono diversi da noi. A mandarla in pezzi è il fallimento del suo nuovo saggio critico, di cui si sentiva sicura e fiera, e che invece viene universalmente stroncato. I più benevoli dicono che si ripete, che “mette a punto” cose già dette. Di colpo le piomba addosso lo spettro della vecchiaia, della sua impotenza – prima di tutto ad avere idee nuove – della sua solitudine, di sciatiche e dentiere. Anche per lei il mondo si capovolge. Ma qui ci sarà un lieto fine.

Questo racconto è in assoluto il più bello dei tre, e potrebbe contenere qualche spunto autobiografico (autobiografica è la maggior parte dei romanzi di Simone de Beauvoir). Nel ’67 la scrittrice aveva 59 anni. I sessant’anni erano alle porte, e a quei tempi non erano pochi. Non a caso tre anni più tardi, nel ’70, pubblicherà un grosso saggio sulla vecchiaia (traduzione italiana Einaudi, La terza età, 1971). Molto più in là, nell’80, anno in cui Jean Paul Sartre muore, lei pubblicherà La Cérémonie des adieux (traduzione italiana Einaudi La cerimonia degli addii, 1983): il diario, qua e là molto impietoso, del rapporto fra il “vecchio” Jean Paul e la “vecchia” Simone appunto nel decennio ’70’-80.

Quanto al terzo racconto, Monologo, esso contiene un segreto: la protagonista, che parla un linguaggio crudo, un po’ da strada e un po’ da poeta maudit, non può impedirsi di svelarlo – a se stessa in primo luogo – mano a mano che la propria storia le sgorga dalle labbra fra una serie di imprecazioni. La sua crisi consiste nello scoprirsi colpevole, nonostante l’exergo, tratto da Flaubert, dica che “lei si vendica col monologo”. La sua, in realtà è una vendetta ma anche una confessione. Ma di che cosa, non lo riveleremo ai lettori.
(30 luglio 2002)   repubblica

 

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