Il Venerdì

 

 

Sciascia, lo scrittore che volle farsi immortale

 

 

Sciascia, lo scrittore che volle farsi immortale

 

 

L’eterno trasformismo. La nascita dell’antipolitica. Il cambio di editori. Una meditazione sull’ars moriendi. L’uscita dei “saggi sparsi” rivela gli aspetti più nascosti dello scrittore siciliano

di Piero Melati

 

04 febbraio 2016

 

 

ROMA.

 

Zolfo. Piombo. Inchiostro. Di queste tre elementi è fatta l’immaginaria città di Regalpetra. Del primo elemento, scrive Leonardo Sciascia nel 1975, a proposito della sua nativa Racalmuto: «Tutto ne era circonfuso, imbevuto, segnato». L’aria, l’acqua, le strade: «Scricchiolava vetrino sotto i piedi». Ci si friggeva anche il pesce, nello zolfo. Per circa due secoli la Sicilia ne ebbe il monopolio. Era il petrolio dell’epoca. Nel 1834 l’isola contava 196 miniere. Per oltre un secolo, ci morivano i carusi. A salvarli, più che la legge, fu l’avvento dell’energia elettrica. Il secondo elemento di cui è fatta Regalpetra è il piombo. Quando Sciascia nacque (1921) Racalmuto era il Far West: «Una lite per confini o trazzere fa presto a passare dal perito catastale a quello balistico». Poi c’era la mafia. E infine, ricorda il biografo di Sciascia, Matteo Collura, «le campagne erano un brulicare di doppiette», per via della caccia. Lo stesso Sciascia era stato uno sniper: «Con un fuciletto ad aria compressa, a dieci metri, colpivo la capocchia di uno spillo». L’inchiostro, infine. «Ne ricordo anche il sapore. Forse qualche volta l’ho bevuto». Ed è l’inchiostro della scrittura ad aver trasformato la Racalmuto reale in Regalpetra la fantastica, ad aver trasmutato il piombo in zolfo, e poi lo zolfo in oro.

Le parrocchie di Regalpetra, l’esordio che nel 1956 trasformò un comune insegnante in Sciascia, compie sessant’anni. A undici dalla pubblicazione lui spiegò: «È stato detto che nelle Parrocchie sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E l’ho detto anch’io. Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno». Sciascia, dunque, ha scritto un solo libro, sempre dedicato a quel «gomitolo di vicoli» che dista 16 miglia dal mar africano e 68 da Palermo, che ricapitola tutto l’universo. Lo scrittore, nel ‘79, aggiungerà: «La Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani, ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo».

Un anno prima Sciascia aveva ultimato un saggio. Lo aveva titolato Fine del carabiniere a cavallo. Il saggio apre il volume di scritti sparsi che Adelphi (con questo stesso titolo) va a pubblicare. Il curatore dell’opera, Paolo Squillacioti, avverte: «Raccogliere tutto Sciascia è molto difficile. Sono infatti quasi 1.400 gli scritti dispersi». Eppure serviranno tutti per conoscere quell’unica storia che Sciascia per tutta la vita scrisse ed ampliò. In un illuminante ritratto di Alberto Savinio, contenuto in questa raccolta, lo scrittore sottolinea: «Sono riuscito a mettere insieme tutti i suoi libri. Ma tutti i suoi libri non fanno “tutto Savinio”: bisognerà raccogliere tutti i saggi, gli articoli e rendersi conto che si tratta, dopo Pirandello, del più grande scrittore italiano di questo secolo».

Ribaltare luoghi comuni, spazzare via pregiudizi: questo, per lo scrittore siciliano, significa pubblicare l’opera omnia di un «irregolare». Per credere, sfogliate questo ultimo Sciascia adelphiano. In apparenza parla di letteratura, in realtà riscrive la storia. La prima immagine (i carabinieri a cavallo che caricano le folle) è per lui la metafora dell’italianissimo «richiamo all’ordine». Verrà poi Vittorini e il suo Conversazioni in Sicilia a spazzare via quel simbolo e riavvicinare le nostre lettere alla realtà.

Nel saggio La sesta giornata Sciascia fotografa le radici dell’eterno fascismo italiano. La guerra civile in Spagna, dice, ci dette una sveglia. García Lorca ci ricordò la nostra smemoratezza: cosa furono per noi Dante, Alfieri, Foscolo, Carducci. E non fu per caso neppure la fucilazione del poeta spagnolo: «Ogni forma di fascismo si realizza attraverso la collera degli imbecilli». Ma, nonostante le nostre tradizioni letterarie, solo Spagna e Francia avranno «una poetica della Resistenza». L’Italia no. Gli italiani confusero Fascismo e Patria (Croce compreso), scelsero come figura da emulare Don Abbondio e cantarono «la poesia della sesta giornata»: a Milano chiamavano «eroi della sesta giornata» coloro che, passata la tempesta delle Cinque Giornate, solo alla sesta uscirono da casa armati e incoccardati. È il nostro eterno trasformismo.
Infine la provocazione: sono più vicini allo spirito della Resistenza molti giovani dell’esercito di Salò. E ancora, recensendo Marcuse, Sciascia previde che la contestazione in Italia sarebbe finita in anni di piombo. Ancora, vide avanzare a grandi passi l’antipolitica: l’immagine mussoliniana dell’aula «sorda e grigia ha influenzato due generazioni. Anch’io, da deputato, ho provato le stesse sensazioni, osservando una sorda e grigia umanità: di condannati che si considerano eletti».

Incroci maledetti. Quest’anno, al pari del sessantennale di Regalpetra, cade anche il trentennale del Maxiprocesso di Palermo a Cosa Nostra. Ricordiamo tutti le polemiche, mai sopite, che seguirono l’articolo del 10 gennaio dell’87 sui “professionisti dell’antimafia”. Ma la prima freccia contro i giudici di Palermo, documenta il volume Adelphi, venne scoccata già nell’ottobre del 1986, sull’Espresso. Qui Sciascia cita una poesia di Gioachino Belli e sostiene che il poeta vide «in allegoria, in metafora, il dissociarsi e il pentirsi oggi di brigatisti, camorristi e mafiosi».
Ma c’è di più. L’incomprensione tra Sciascia e il pool antimafia di Palermo, nella persona del giudice Giovanni Falcone, risale già al 1982. Quell’anno lo scrittore venne convocato, di notte e in gran segreto, nel bunker dell’ufficio istruzione di Palermo. Nelle intercettazioni relative all’inchiesta su uno dei grandi misteri d’Italia, il falso rapimento in Sicilia di Michele Sindona del 1979, era saltato fuori il nome dello scrittore. Gli intercettati avanzavano una ipotesi: avvicinare Sciascia per spingerlo a un intervento «garantista» in favore di Sindona. Sciascia, seduto faccia a faccia con Falcone, non nascose la sua indignazione per essere stato convocato, e lo trattò ruvidamente. «Come si può anche solo pensare che io abbia a che fare con tali personaggi?» si indignò. Falcone, a sua volta, uscì dall’incontro molto risentito. E nel ‘92 rievocò quelle circostanze all’inviata del palermitano L’Ora e poi di Panorama Bianca Stancanelli (il 25 febbraio Stancanelli uscirà per Marsilio con una inchiesta sul delitto dell’88 del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, un omicidio che proprio Sciascia definì degno del Raccolto rosso di Dashiell Hammett).

Sciascia incrociò spesso i sentieri impervi della storia italiana. Nel 1978 il suo L’affaire Moro per Sellerio fu un bestseller. Tuttavia, nell’84, Sciascia firma un contratto con Bompiani. Vi pubblica i due volumi che raccolsero le sue opere principali e, nell’86, La strega e il capitano, sull’onda del caso Tortora. Ma poi, alla fine di quell’anno, sceglie Adelphi. Perché? Sciascia era un nomade editoriale. Nella sua vita ha pubblicato per Laterza, Einaudi, Sellerio, Bompiani, Adelphi. E amava collaborare con gli editori. «Provava la felicità di fare libri» spiega Giorgio Pinotti, editor in chief di Adelphi «per lui era un prolungamento della scrittura. Del resto, è quel che per anni ha fatto con Sellerio».
Un rapporto quasi ventennale, quello con l’editrice siciliana fondata nel ‘69 da Enzo ed Elvira, iniziato nel ‘70 (quando Sciascia da Caltanissetta si trasferì a Palermo). Sellerio divenne la sua terza casa, dopo l’appartamento palermitano di Villa Sperlinga e il buen retiro di campagna in contrada Noce. Con Sellerio Sciascia pubblica i suoi scritti, lancia la collana “La Memoria” e passa i pomeriggi sul divanetto della stanza di Elvira. Negli anni successivi (Sciascia è nel frattempo deputato radicale) il rapporto si dirada. Donna Elvira dichiarerà: «Prima era sempre da noi, poi ha avuto la parentesi politica, la casa editrice nel frattempo aumentava, e si è un po’ allontanato, dice che qui si confonde, troppi telefoni che squillano, troppa gente. Prima eravamo una specie di salotto».

Si parla di «una fuga al Nord». Lo scrittore si ritira in campagna. Il cancello della villetta di contrada Noce viene varcato dal «cerchio magico» (i familiari, gli scrittori Bufalino e Consolo, il fotografo Scianna, i professori Nino Buttitta e Natale Tedesco). Riceverà anche Enzo Biagi, offrendogli spaghetti artigianali conditi con pomodori freschi, salsicce, formaggio di capra e fichi d’India. Ma prediligerà la solitudine.
Il 12 luglio dell’86 scrive, da Racalmuto, a Roberto Calasso, il patron di Adelphi, inviandogli la sua «piccola divagazione sul 1913». «Veda lei se è il caso di farne un libretto Adelphi». Quattro mesi dopo 1912+1 sarà in libreria. Si tratta del libro che apre la meditazione sulla morte. Seguiranno Il cavaliere e la morte (contrassegnato dall’incisione di Dürer, che per lui si opponeva al Trionfo della morte di Palermo), Porte aperte e Una storia semplice. Dentro ci sono gli ingredienti tradizionali: intrighi, traffici d’armi, delitti, potenti corrotti. C’è il giallo secondo Simenon (Sciascia e il padre di Maigret moriranno nello stesso anno): comprensione e non persecuzione, vocabolario da ottocento parole, alla Racine. Ma c’è anche la ricerca di una ars moriendi (come sostiene lo sciasciano Giuseppe Traina). Le riflessioni su delitto e giustizia travalicano i confini dell’impegno civile, la Storia diventa il Tempo, la morte non un destino ma (lo lesse così il filosofo Manlio Sgalambro) un «omicidio del cosmo». L’arco dello scrittore è teso allo spasmo. In brevi frasi fa esplodere lo gnommero gaddiano che ha arrovellato l’uomo dai presocratici in poi. Nel frattempo si occupa anche di liberare i libri precedenti, perché Adelphi possa pubblicare l’intera opera (o l’unico libro che essa è).

Ricorda Giorgio Pinotti: «A partire dal biennio 87-88 comincia a svincolare i suoi libri e chiede, addirittura per volontà testamentaria, che vengano radunati da Adelphi». Sciascia si fonde nel catalogo della casa milanese quando, giunto alla fine del sentiero, deve affrontare la morte non letteraria ma concreta (per mieloma micromolecolare, un tumore al midollo osseo che offenderà anche i reni). Nella tetralogia adelphiana non scantona mai nella conversione religiosa e non sposa la «scienza come religione», secondo l’approccio alla malattia di Susan Sontag. Si interroga, piuttosto, come fece Wilhelm Reich, su cosa possa mai «infettarsi» tra corpo e spirito. Batte la strada di Borges, quel «teologo ateo» che (nel ritratto contenuto in questo libro) erge a «segno più alto della contraddizione in cui viviamo». Pinotti rievoca: «Ha del miracoloso che Sciascia si rallegrasse dei nostri libri e di Borges, come fosse già nostro autore. In realtà, noi lo pubblicammo nel ‘97. Ma lui lo associava a noi, per ragioni di congenialità. Per lui era un autore adelphiano a tutti gli effetti».

Sciascia, dunque, si premura di «farsi ereditare», a futura memoria, attraverso quel catalogo che ama, legge e condivide. E la sua opera, effettivamente, non resterà dispersa ma (come sta avvenendo) verrà interamente raccolta, così come lui stesso si era preoccupato di fare per Bompiani con gli scritti di Savinio. C’è il male e c’è la speranza della cura. Questo è, per Sciascia, lo stendhaliano Savinio, che auspicò una «civiltà della conversazione», in luogo di quella che ci vede divisi in «parrocchie e parrocchiette» (su cui Sciascia ironizzò nel suo primo Regalpetra). Inoltre, con Adelphi, appaga l’aspirazione a essere non «scrittore siciliano» (critica sempre mossa ai Verga e ai Pirandello) ma scrittore italiano che conosce bene la Sicilia (come metafora) e autore di portata europea.

Infine, l’epitaffio tombale. «Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». Un haiku di Villiers de l’Isle-Adam, autore ottocentesco, del quale Sciascia conservava una stampina funeraria acquistata a Parigi. A Isle-Adam Borges aveva dedicato il volume 23 della “Biblioteca di Babele”, che curava per Franco Maria Ricci. Il libretto era uscito nell’80, l’anno in cui Sciascia e Borges si conobbero a Roma. Isle-Adam, discendente del primo Gran Maestro dei Cavalieri di Malta, amico di Wagner, frequentatore di Enrico V, era un aristocratico quasi indigente. Borges lo considerava uno specialista in

«orrori morali». Aveva scritto della pietra filosofale, il sogno sapienziale degli alchimisti. Non si esclude che si fosse trattato di un composto chimico derivante da zolfo, piombo e inchiostro. Gli stessi elementi della leggendaria Regalpetra.

(5 febbraio 2016)

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