per chi è più addentro al diritto, alla sua storia e al dibattito attuale, sotto un articolo su Cesare Beccaria di Vincenzo Ferrone
La lezione di Cesare Beccaria nell’Italia del caso Cucchi
di GUIDO MELIS (NOTIZIE SOTTO)
Duecentocinquanta anni fa, anonimamente, veniva stampato a Livorno “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. Ne possiedo una vecchia edizione: quella pubblicata nel 1945 da Le Monnier, con la prefazione di Piero Calamandrei. Dire prefazione è riduttivo, però. Perché il grande giurista italiano, tra la fine del 1943 e la fine del 1944 (gli anni tremendi della repressione più feroce) stese quasi 130 intensissime pagine. «Una lettura consolatrice e edificante», scrisse, «nella quale si trovan risposte a domande angosciose», le domande di quel tempo feroce: «pietà l’è morta», diceva una canzone partigiana. C’era, nelle pagine di quel «librino smilzo», pagine quasi scabre ma intensamente vere, il profilo interiore di un uomo «segretamente disgustato dalla tirannia sotto cui fu condannato a vivere»; si avvertiva una «scontrosità solitaria» verso l’ottusità del potere e l’ingiustizia: «Anche noi – dice il prefatore con sincerità autobiografica – abbiamo provato, come lui, questo desiderio di cercar scampo nella solitudine, questo senso di asfissia con cui la mancanza di libertà avvelena anche le più piccole gioie dello spirito: par che non esista più neanche la consolazione della musica, quando perfino i programmi dei concerti sono dettati dall’autorità». Ragazzo schivo. Il libro era piccolo di dimensioni, ma in compenso grandissimo, anzi gigantesco per il messaggio che trasmetteva. Diviso in brevi paragrafi, «senza ostentazione di erudizione e senza apparato di note – così ancora Calamandrei –, era «una specie di pamphlet scritto tutto d’un fiato», quasi di getto, buttato giù in poco più di un anno da un ragazzo di appena 25 anni. Un ragazzo, nonostante la laurea in legge, «negato agli studi giuridici»; considerato da chi lo frequentava «di natura indolente e schiva»; dedito anzi «a oziare fantasticando». Colpito, però, e in qualche modo forse anche segnato per sempre dalla lettura delle “Lettres persanes” di Montesquieu. Collaboratore de “Il Caffè”, celeberrimo periodico dei fratelli Verri: uno dei quali, Pietro, lo avrebbe incoraggiato a occuparsi di delitti e di pene, e cioè delle aberranti pratiche dei sistemi giudiziari all’epoca vigenti in Europa. Rivoluzione francese. Il «librino», appena pubblicato, avrebbe subito riscosso uno straordinario, duraturo successo (al punto che nel 1807 erano già uscite una trentina di edizioni italiane e molte in francese, in tedesco e in altre lingue): segno che sapeva parlare ai contemporanei e che, nell’imminenza dello sconvolgimento epocale della Rivoluzione francese, anticipava una denuncia che in molti sentivano ormai necessaria. Sarebbe nato da quel «librino» il grande movimento di opinione illuministica contro la tortura, per la revisione delle pene disumane, per la riforma delle carceri, infine per l’abolizione della pena di morte (come accadde nel 1786 in Toscana ad opera del granduca Pietro Leopoldo, e con motivazioni che sembrano tratte di peso dal Beccaria). Nel 1789 la Dichiarazione dei diritti della grande Rivoluzione avrebbe riecheggiato le idee e a tratti persino le parole di Beccaria. La fortuna di quel libro, da allora, non venne mai meno. E viene subito da domandarsi perché. Perché, cioè, in ogni epoca successiva, compresa la nostra, Beccaria è apparso ed oggi ci appare tanto attuale? Intanto perché il movimento di civilizzazione del diritto penale nato dal suo pensiero ha avuto, certamente, ricadute virtuose in tutto il mondo, ma non sempre e dappertutto. Spesso ha incontrato ostacoli, ha avuto nemici implacabili, si è dovuto scontrare con resistenze riottose. Il mestiere di giudice. Un libro appena pubblicato dal Mulino (“Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano”) raccoglie tre dense lezioni tenute l’anno scorso in Italia da uno dei più preparati giudici degli Stati Uniti, l’italoamericano (nato in Italia dovette riparare bambino oltre oceano per fuggire la persecuzione razziale) Guido Calabresi. L’ultima parte è dedicata alla sopravvivenza negli Stati Uniti della pena di morte. In quel paese molti stati (diciassette) l’hanno abolita, ma trentaquattro ancora la praticano. Grazie a due sentenze degli anni Duemila l’esecuzione capitale è vietata per i minorati mentali e per i minori. Ma l’ordinamento federale la tollera e la Corte suprema non sente ancora di doverla abrogare in nome della Costituzione. «Il nostro Paese è nato dalla violenza», registra sconsolatamente Calabresi. Oggi nel mondo, secondo dati di Amnesty International, la pena di morte vige ancora in quaranta stati. Molti la mantengono anche per i reati comuni. In sette stati vi si ricorre solo per reati commessi in situazioni d’eccezione, ad esempio in tempo di guerra. Cento sono gli Stati che l’hanno abolita. Allarmanti anche le statistiche relative alle torture: tra il 2009 e il 2014 sono denunciate torture in centoquarantuno paesi. Nel solo 2014 in settantanove. Le condanne della Ue. Di tortura, del resto, ci intendiamo anche noi in Italia, stando allo scandaloso episodio (ma è stato solo un episodio isolato?) del martirio di Stefano Cucchi? E chi ha visitato le carceri italiane, come a me è capitato di fare più volte tra il 2008 e il 2013, può testimoniare quanto giustificate siano le condanne dell’Europa al nostro sistema di custodia e quanto disumane restino le condizioni di una popolazione carceraria tre volte superiore a quanto consentirebbero le strutture, ristretta in celle anguste e inadatte, sottoposta a continue angherie sancite da norme ottuse. Attuale, dunque Beccaria, attualissimo. La sua voce limpida parla ancora ai contemporanei: riproponendo alle nostre coscienze il principio irrinunciabile di una giustizia che non può essere vedetta ma giusta espiazione e redenzione del reo.