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Lo spazio reinventato ad alta quota
In cima al mondo. «La costruzione delle Alpi, 1917-2017» di Antonio De Rossi, per Donzelli indaga quell’inestimabile patrimonio che sono le nostre vette, laboratorio di architetture moderne, ma anche di operazioni sbagliate
Le Alpi formano il più esteso spazio naturale al centro del continente europeo. Un’area di circa 191mila kmq. abitata da quattordici milioni di persone, che come recita la «Convenzione delle Alpi» (il trattato internazionale al quale aderiscono gli otto Stati sui quali insiste l’arco alpino) compone un territorio la cui «varietà culturale non ha eguali» per numero di gruppi linguistici, livello di biodiversità con le sue decine di migliaia di specie animali (molte a rischio di estinzione) e vegetali, ma in particolare per le straordinarie stratificazioni materiali date dal costante e radicale agire dell’uomo nella sua millenaria presenza.
L’AGRICOLTURA DI MONTAGNA e l’allevamento prima, il turismo e la produzione dell’energia idroelettrica dopo, hanno modificato nel corso del tempo il paesaggio alpino al punto che per tutelarlo è ormai inderogabile il rispetto delle misure individuate dalla «Convenzione» nel tentativo di arrestare il progressivo degrado al quale va incontro. I cambiamenti più consistenti sono accaduti nel secolo scorso. La modernità ha impresso un ritmo accelerato all’ambiente alpino attraverso una quantità di indirizzi, fatti e attori, dentro i quali non è facile orientarsi e che per alcuni aspetti resta un campo ancora inesplorato.
Antonio De Rossi con il suo saggio La costruzione delle Alpi, 1917-2017 (Donzelli, pp. 655, euro 42) ha ordinato con scrupolo per noi il vastissimo materiale riguardante questo affascinante tema concludendo un excursus storico iniziato con il precedente volume (La costruzione delle Alpi, immagini e scenari del pittoresco alpino 1773-1914). Dalla lettura dei due saggi si comprende bene il cambio di modello tra i due secoli. Rispetto all’Ottocento, il moderno alpino si apre iconograficamente con gli acquarelli di Bruno Taut dell’Alpine Architekture (1919) – primavera aurorale di un mondo nuovo – e si chiude con «colonie e alberghi abbandonati, skilift e seggiovie in disuso, stazioni che sembrano ghost town», in altre parole con il «fallimento» dell’idea positivista di progresso.
Nei decenni recenti al suo posto si sono aperti «percorsi meno eroici», in ogni caso più responsabili dei nostri limiti e consapevoli che l’habitat naturale potrà continuare a far vivere le nostre passioni solo a determinate condizioni. L’assunzione di questo nuovo paradigma» per De Rossi ha una data d’inizio e fa riferimento all’emblematico episodio risalente agli inizi degli anni Settanta: l’opposizione dei valligiani di Cervières alla costruzione di una mega stazione invernale.
Nello stesso decennio, con il «discorso di Vallouise» (1977) del presidente Giscard d’Estaing, si dà atto che lo spopolamento della montagna non si contrasta con il solo turismo, ma con «attività diversificate» e compatibili nelle quali il sostegno all’agricoltura e all’artigianato ricoprono un ruolo fondamentale. «L’attenzione per l’ambiente e la natura, per le tradizioni e le specificità locali rappresenta una novità e una precisa linea di tendenza – scrive De Rossi – fondante quel paradigma di patrimonializzazione della Alpi che vige ancora oggi».
PRIMA, PERÒ, di arrivare ai tempi presenti con i postmoderni centri di Valmorel (Bezancon-Diener-Guirard, 1976) o di Grangesises (Trisciuoglio, 1977-86) nei quali domina l’imitazione stilistica, fino all’«urbanizzazione dolce» di Laurent Chappins, il racconto storico di De Rossi è rivolto a ricostruire le vicende del modernismo alpino che – in particolare nella parte occidentale (Francia, Italia, Svizzera) – testimonia la capacità avuta nel ridisegnare immagini, concetti e valori della montagna.
Occorre con l’autore condividere la tesi che la modernità in alta quota assume caratteristiche molto diverse da quella urbana, anche se ne corrisponde alla base la stessa ideologia. «La partecipazione delle grandi masse sociali a una democrazia del consumo e della salute», hanno configurato nelle Alpi un originale modello di costruzione dello spazio. Lo stanno a dimostrare sul lato urbanistico, per citare solo pochi esempi dai diversi che riporta il saggio: Sestriere, «città della neve», i progetti di pianificazione (aménagement) al Col de Vars di Le Corbusier, il piano regolatore olivettiano della Valle d’Aosta e le «stazioni integrate a regia pubblica» francesi a partire dal sito di Courchevel.
CON PAZIENTE ricostruzione storiografica e con metodo sicuro De Rossi, partendo dal dato fisico e spaziale, interpreta i fatti, le intenzioni dei protagonisti, i loro interessi e le finalità in gioco: dalla crisi fin de siècle, con la perdita della facoltosa clientela cosmopolita, agli anni Venti, con le nuove possibilità offerte al consumo turistico dello sci e dell’automobilismo attraverso la costruzione di funivie e strade, proseguendo con il periodo tra le due guerre durante il quale dalla città rimbalzano sulle vette i processi di industrializzazione già dispiegati in pianura.
Il modernismo negli anni Trenta guarda alle Alpi con un grado di attenzione rinvenibile solo con la loro scoperta settecentesca. I temi centrali di questa rinnovata attrazione riguardano il turismo, ma in particolare lo sfruttamento industriale e idroelettrico delle vallate, che combinati insieme mirano a risolvere le cause dello spopolamento e le carenti condizioni economiche delle aree alpine.
Tuttavia, nel decennio della ricostruzione, con i «moti ascensionali e discensionali» causati dal turismo di massa e dall’esodo della gente di montagna attratta dalla fabbrica, si configurano delle nuove trasformazioni dell’ambiente alpino dove la tecnologia e l’«artificializzazione dello spazio d’alta quota» vede nello sky-total la sua rappresentazione estrema.
LA MODERNITÀ produrrà un «territorio a macchia di leopardo: località turistiche, spazi produttivi, infrastrutture, enclave rurali», nell’insieme un paesaggio frantumato in mille episodi sconnessi ben lontano dall’armonia tra arte e natura del pittoresco. Un’incessante opera di «svuotamento» che la cultura urbana compie nei confronti dell’ambiente alpino per meglio «metabolizzarlo» e includerlo come sostiene l’etnografo Bernard Crettaz. In questo contesto l’architettura svolge una funzione essenziale passando dallo Châlet suisse a «prototipi apripista» per il tempo libero, la cura e il benessere.
Il laboratorio alpino che De Rossi illustra non tralascia nulla: dai lussuosi chalet a Megève di Henry-Jacques Le Même agli Sporhotel degli architetti tirolesi (Holzmeister, Baumann, Mazagg), dagli alberghi-torre di Sestriere di Vittorio Bonadè Bottino a quelli di linea «moderno-tradizionalista» di Pier Luigi Magistretti o Mario Cereghini, dagli alberghi «a falda unica» di Ponti alle «lame» di Aloisio fino alle invenzioni meccaniche di Mollino.
L’ELENCO POTREBBE proseguire comprendendo le colonie alpine (Colonia IX Maggio a Bardonecchia di Levi Montalcini), i refuge sperimentali (Perriad-Tournon), ma anche gli «oggetti metafisici» quali dighe, chiuse e ponti – un capolavoro quello di Maillart nel cantone dei Grigioni – e ancora funivie cremagliere, condotte forzate e laghi artificiali che tra natura e tecnica disegnano in maniera radicale il paesaggio delle Alpi: «un caleidoscopico universo d’alta quota». Le ultime pagine del saggio sono dedicate al declino del modernismo alpino che lascia il posto ad «atmosfere ed evocazioni che suscitano organicità e radicamento».
È questa la fase nella quale si inserisce la rivalutazione postmoderna della tradizione (reinventata) che prende le sembianze edulcorate del pastiche architettonico, ossia dello stile rustico internazionale.
Per il prossimo futuro avanza però sulla macroregione alpina una diversa riflessione critica. Le Alpi, viste in tutta la loro complessa realtà storica, ecologica, sociale ed economica, rappresentano un inestimabile patrimonio da valorizzare per il quale si dovranno perseguire progetti di sviluppo sostenibile e condiviso: un’occasione importante per correggere anche molti errori del passato.
Accetto l’abbraccio perché viene dal cuore!
GRAZIE, E’ PROPRIO COSI’!