CINEMA
Alejandro Iñárritu: “Con la realtà virtuale venite con me tra i migranti”
Il premio Oscar presenta al Festival il suo nuovo lavoro: un documentario che fa vivere allo spettatore l’esperienza della frontiera tra Messico e Stati Uniti
CANNES. SI CHIAMA Carne y arena, carne e sabbia, l’inferno virtuale che racconta la condizione di migrante secondo Alejandro González Iñárritu. Accanto a un muro di metallo, un pezzo di quello vero al confine tra Messico e Usa, una stanzetta fredda, sul pavimento mucchi di scarpe squarciate: ballerine rosa strappate, piccole ciabatte di plastica. “Sono le vere scarpe di migranti morti nel deserto”, racconta il regista Oscar di Birdman e Revenant- Redivivo. Bisogna togliersi le scarpe e le calze, “quando perdi le scarpe nel deserto non hai più possibilità di sopravvivere”. Dura sei minuti e mezzo l’installazione, destinata alla Fondazione Prada a Milano (dal 7 giugno al 15 gennaio) e intercettata da Thierry Frémaux che l’ha voluta a Cannes. Nel grande studio set, venti chilometri dal Palais, cammini sulla sabbia, lo zaino sulle spalle, il “casco” virtuale. Sei nel deserto messicano, il cielo squarciato da un elicottero assordante. Accanto a te c’è una donna, zoppica e cade, c’è un uomo con un neonato al collo, due ragazzi. Hanno paura, sono braccati. Arrivano due camioncini, scendono gli agenti, i fucili puntati: “In ginocchio!”. Un giovane in manette, sulla sabbia, urla la sua storia, come tutti gli altri. Non è come vederli sul grande schermo, sei lì. “L’idea è nata quattro anni fa, ma la tecnologia non era abbastanza avanti. La realtà virtuale non è estensione del cinema o strumento di marketing, ma un mezzo con infinite possibilità. Per me era importante mettere al centro la condizione umana”.
Iñárritu, racconta l’immigrazione fin dai tempi di “Babel” e ” Biutiful”.
“La sento nel profondo, anch’io sono un migrante, anche se di prima classe. E li ho frequentati. L’idea è di Carne y arena è dare alle persone un’esperienza sensoriale per trovare una connessione con quella realtà. E poi c’è la mia interpretazione, quando sul tavolo dei migranti c’è la nave bianca piena di corpi che si sfarina e svanisce in mare. Un omaggio ai migranti che ho incontrato a Catania, al centro per i rifugiati. Le loro storie erano simili a quelle del mio Messico. Il vostro mare è il nostro deserto: alcuni si dissolvono nella sabbia, altri in acqua. Tutti invisibili ai nostri occhi”.
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Cosa ha imparato dai migranti?
“La speranza. Non sono una minaccia ma un’opportunità. Mettono in gioco la vita, i loro figli per poter lavorare. Il Messico è il secondo paese con più vittime l’anno dopo la Siria, più che Iraq e Afghanistan. Non è una migrazione economica: donne e bambini lottano per la vita. C’è un deficit di compassione”.
Siamo nell’era Trump.
“È incredibile la sua capacità di accumulare e capitalizzare l’odio. Ma quando tu chiami povere persone “criminali” e “stupratori” metti le loro vite a rischio perché le trasformi in nemici. L’uso di queste parole è inaccettabile”.
Gli farebbe provare l’esperienza di “Carne y arena”?
“No. Non mi interessa l’opinione di un 70enne che ha contribuito a creare il mondo storto di oggi. Mi interessa che lo vedano i quindicenni: la nostra salvezza è nelle loro mani”.
Che ne è stato del progetto di fare del barcone dei naufraghi recuperato dal mare un’opera in Piazza Duomo?
“L’esperienza in Italia mi ha segnato. A Catania ho assistito a due sbarchi e sono rimasto colpito dalla delicatezza con cui donne e bambini sono stati accolti. Poi sono andato a vedere il barcone recuperato dall’acqua: hanno trovato il dentino di un bimbo di sei anni. E i corpi che non erano più corpi, erano ossa che uscivano dai jeans, le lettere e le foto cucite addosso. Vedere i medici che li pulivano e catalogavano mi ha commosso. La barca è il testamento di qualcosa che non dovremmo permettere che accadesse, mi ricorda i musei dell’Olocausto. Avevo pensato a Piazza Duomo per farne il simbolo degli immigrati morti in tutto il mondo. È una operazione complicata, ma spero ancora che ci riusciremo”.
Cosa pensa di Papa Francesco?
“Ispira grande compassione. C’è chi considera gli Stati Uniti un paese cristiano io non vedo nulla di cristiano in quello che stanno facendo agli immigrati”.
Alcune Ong sono accusate di aumentare le migrazioni.
“È incredibile. Scioccante. Ho amato Fuocoammare di Gianfranco Rosi, straordinario. Non so come si possa accusare i soccorritori, le vittime”.
Quali sono le reazioni di chi ha provato “Carne y arena”?
“C’è chi ha pianto, chi abbracciava il bimbo, chi s’inginocchiava di fronte ai poliziotti. Mentre lavoravo mi ha tormentato un’idea: leggiamo tutti i giorni queste storie sui media, nessuno se ne interessa più. Se avessi fatto solo un film, nessuno sarebbe venuto a vederlo. Per rimettere al centro la realtà ho dovuto costruirne una virtuale”.
Dopo la libertà della realtà virtuale, come sarà tornare al cinema?
“Non so. Uscito dalla dittatura dell’inquadratura ho pensato “Oh mio dio, sono libero”. Ho ancora da imparare, ma ho già in mente progetti più ambiziosi”.