LINKIESTA DEL 28 APRILE 2018
Benedetti Michelangeli nel 1959–
Nasce a Brescia nel 1920 e muore a Lugano nel 1995–È uno dei più grandi interpreti del pianoforte del XX secolo, al pari di altri celebrati pianisti quali Gilels, Richter e Horowitz. Per via dell’unicità del suo tocco, delle iridescenze timbriche e della sua raffinatezza interpretativa, è da molti considerato il più importante pianista italiano accanto a Ferruccio Busoni.
Benedetti Michelangeli, se sei un genio tutti ti odieranno (e avranno ragione)
I devoti e gli odiatori del pianista bresciano. Glenn Gould non lo nominava mai (ricambiato). Arrau ne scriveva male. Rubinstein lo bocciò. Kleiber lo temeva. Le grandi personalità musicali, e non solo, generano grandi freddezze
Bruno Giurato
arturo benedetti michelangeli suona varie opere di chopin
https://www.youtube.com/watch?v=YdhIa42IJz0&list=RDYdhIa42IJz0
Se questo è il vostro modo di amare, vi prego di odiarmi (Moliere, Misantropo)
C’è il problema del “Nachklappen”, espressione in lingua tedesca per indicare che la mano destra e la sinistra non arrivando perfettamente sincronizzate su un passaggio creano una specie di acciaccatura. Non vuol dire che il pianista non sappia andare a tempo, è un vezzo del musicista romantico/decadente/simbolista, un modo un po’ teatrale di “servire” certi momenti musicali. Ed è anche la critica più frequente che i critici (e alle volte i colleghi) facevano ad Arturo Benedetti Michelangeli. A dirla tutta i tormentoni dei recensori alle esibizioni di ABM erano due: il Nachklappen, e la facilità con cui annullava le esibizioni. Sul secondo “difetto” abbiamo scritto nella puntata precedente: Michelangeli oltre all’egotismo innegabile aveva una concezione quasi di servizio della musica: la non perfetta resa acustica del piano o della sala era per lui uno sgarbo al pubblico più che non presentarsi sul palco.
Resta il problema del “Nachklappen”. Una volta gli domandarono francamente perché usasse questo modo, abbandonato dai pianisti del Novecento. Michelangeli, per una volta, si mise buono, abbassò lo sguardo. Poi guardò l’interlocutore senza un fremito e rispose calmo che lui sentiva la musica dai bassi verso gli acuti, e facendoli affiorare in questo modo aveva la sensazione di porgere il suono al pubblico.
Sta di fatto che Benedetti Michelangeli è sempre stato un pianista non ecumenico. E ha diviso ascoltatori e colleghi in chi lo loda con espressioni che tendono al trasumanar per verba, come se si trattasse di un’insondabile divinità -o un bimbo da salvare dalle mascelle feroci del mondo- e chi lo ha sempre trovato, oltre che antipatico, musicalmente troppo freddo, troppo composto. Oppure, anche, troppo romantico, “antico”: del resto aveva avuto maestri come Paolo Chimeri e Giovanni Anfossi, che provenivano dal sunset boulevard del romanticismo e gli odiatori del Nachklappen sono legione.
Tra le poche cose certe della vita c’è un fatto: quaggiù qualcuno ci odia. Spesso a ragione. E I grandi artisti creano, pure, grandi malanimi
Poi succede a tutti: in caso non ne foste del tutto consapevoli state tranquilli, in questa giornata qualcuno di certo ha parlato male di voi, e molto probabilmente quel qualcuno ha dei buoni motivi, oltre la cattiveria gratuita, per farlo. Sarebbe gnosi da bancarella non rendersene conto. Tra le poche cose certe della vita c’è un fatto: quaggiù qualcuno ci odia. Spesso a ragione.I danni (e le ragioni) dell’umana condizione, del cosiddetto “principio di individuazione” permangono anche passando dalla vita all’arte. Dal gossip alla più alta considerazione tecnica o critica.
I grandi artisti creano, pure, grandi malanimi. Un musicista come ABM, spuntato dal nulla, pianista fatto a 18 anni, con un suo stile, un suo vocabolario, la sua sonorità irraggiungibile, data da una qualche combinazione neuronale abnorme, sembrava messo lì apposta per dividere e per esacerbare la fila degli incazzati. Al primo concorso importante della sua vita (Bruxelles, 1938) l’unico italiano presente in giuria, Carlo Zecchi, gli assegnò uno zero, facendolo precipitare al settimo posto.
Ma il più grande odiatore resta Beniamino Dal Fabbro. Lo scrittore e critico che già dagli anni 30 frequentava l’intellettualità di Milano (ed è autore del libro “Il crepuscolo del pianoforte”) era uno stroncatore apocalittico di Benedetti Michelangeli. Ad esempio scriveva: “Questo pianista è senza storia, non sa riferire gli autori: gli manca ogni istinto, ogni concetto di stile. Il Benedetti Michelangeli non sa dar altro, sempre e implacabilmente, che del Benedetti Michelangeli, ossia una superficiale degustazione di suoni pianistici, un grazioso arsenale di formulette foniche, un grazioso bazar, applicati tali e quali in ogni musica, da piccolo bazar provinciale di lustrini decadentistici”.
E la cosa singolare è che anche le critiche ingenerose hanno una loro vena di ragione.È vero, la formazione di ABM si era svolta in provincia, a contatto con una cultura decadentista. E in particolare con Anfossi, l’insegnante di piano delle ragazze della Milano bene di allora, Michelangeli aveva appreso sfumature perfino salottiere. Amava le “formulette foniche” dei carillon, e ne aveva una collezione. Oltre a eseguire in modo stupefacente le composizioni più difficili, amava opere scritte dai compositori per i bambini, come la Boite a joujoux, la Scatola dei giocattoli di Debussy.
Poi, però, alle prese con uno strano ibrido come la Berceuse di Chopin, che mischia il genere della ninnananna con quello delle variazioni, Michelangeli, fa qualcosa di inaudito, e per qualcuno poco comprensibile. Si veda la registrazione del 1962. Trasforma la tonalità pastello del brano chopiniana con rubati eccessivi, dilata passaggi, si fa sfuggire, secondo alcuni, la delicatezza lirica della composizione. Si inventa un piccolo mostro, che alcuni ancora non capiscono né vogliono capire.
Altro capitolo non pacificato riguarda il rapporto di Arturo Benedetti Michelangeli con i colleghi pianisti. Sviatoslav Richter nel suo Scritti e conversazioni tratta Michelangeli da robottino del pianoforte. I due avevano stili opposti, certo, ma qui si gira intorno a un’antipatia profonda, non solo estetica: “Come sempre impeccabile. Il testo esatto. Totale perfezione della tecnica. Tutto il resto glaciale. Beethoven: il Trio della Marcia Funebre è così formale e secco che lo si direbbe un numero comico”, oppure, sulle Variazioni di Brahms su un tema di Paganini: “La sua interpretazione sarà anche una buona esecuzione ma non mi convince: suona senza pathos. La musica avrebbe bisogno di qualcosa di più elevato”.
Claudio Arrau fa il nome di Michelangeli senza farlo: “Questo stupido perfezionismo, tanto apprezzato dalla gente. L’altro giorno un giovane pianista, uno dei miei primi allievi, è andato al concerto di qualcuno del quale non faccio il nome. Ho chiesto come fosse andata, perché di solito non apprezzo il meticoloso pianista che lui era andato a sentire. “Non diceva nulla, ma era perfetto, preciso, non una nota sbagliata in tutta la serata.” È una cosa tanto importante?”.
Con Vladimir Horowitz c’era un meraviglioso evitamento. Se capitava che si trovassero insieme, per esempio al festival di Salisburgo ad assistere a qualche concerto, i manager facevano in modo di assegnare loro posti, o palchi, distantissimi.
Buchi neri sono i rapporti con altri due giganti. Glenn Gould e Arthur Rubinstein.Con il secondo, immenso interprete chopiniano anche lui, ma in modo del tutto diverso da ABM, nonostante qualche fotografia che li ritrae insieme, pare non ci fossero. Rubinstein, che faceva parte della giuria del famoso concorso di Bruxelles del 1938, scrisse nella sua biografia due righe glaciali: “Arturo Benedetti Michelangeli, il famoso artista italiano, offrì allora un’esecuzione insoddisfacente, sebbene mostrasse già di possedere una tecnica impeccabile”. Del resto vari conoscenti di Michelangeli raccontano che quest’ultimo non parlasse mai del pianista polacco naturalizzato statunitense.
Quanto al rapporto con Glenn Gould i due facevano di tutto per ignorarsi a vicenda.Erano molto diversi già a partire dalla posizione sul piano. Gould con lo sgabello basso, i contorcimenti, l’espressione del viso che segue la musica, la tendenza a cantare. Michelangeli con un’impostazione perfetta, le mani che cadono dall’alto sulla tastiera, impercettibili oscillazioni dei baffi che indicavano qualche momento di pathos. I due si assomigliavano per il carattere ferocemente bizzarro. Racconta lo psicologo Peter Matussek in suo studio famoso su Gould che una volta il pianista chiede 300.000 dollari di danni alla Steinway perché un tecnico osò salutarlo battendogli una mano sulla spalla.
Molto spesso chi si somiglia non si piglia, e i due rimasero più che rivali, inesistenti l’uno per l’altro.
Non c’era amore da parte dei grandi pianisti per Arturo Benedetti Michelangeli, e probabilmente lui non ne aveva per loro. Gli stessi Maurizio Pollini, e Martha Argerich non parlano volentieri e in modo disteso di quello che è considerato il loro maestro. Benedetti Michelangeli è un maestro, sì, ma un maestro scomodo, con cui è difficile fare i conti. Più un evento musicale o un masso erratico che un caposcuola. C’è la sensazione che da quasi tutti i colleghi fosse percepito come ingombrante. E perturbante.
C’è la sensazione che da quasi tutti i colleghi fosse percepito come ingombrante. E perturbante
Il direttore d’orchestra Carlos Kleiber, genio “chiuso” e in fondo fragile, al momento della collaborazione si trovò in difficoltà, tra l’altro perché Michelengeli gli ricordava il padre, il direttore d’orchestra Erich Kleiber, la cui ombra Carlos aveva passato tutta la vita ad inseguire. Michelangeli non faceva nulla per favorire il rapporto: parlava pochissimo, comunicava con l’orchestra -non col direttore ma con gli orchestrali direttamente- tramite impercettibile mimica facciale. Il progetto fu abbandonato. Come il progetto della grande reunion con Herbert Von Karajan. I due avevano registrato insieme a Berlino alla fine della guerra, ma i nastri della registrazione erano spariti dopo il ‘45, finendo, sosteneva ABM, in qualche archivio a Mosca. Nel 1977 alcuni produttori della Deutsche Grammophon cominciarono a pensare a un progetto che commercialmente sarebbe stato il colpo del secolo. Ma i due erano molto diversi. Karajan era già quasi un capo di Stato, e forse Michelangeli non aveva attrazione per la vague stilistica presa da Karajan. Fatto sta che lo stesso ABM non disse mai sì. E se anche l’avesse detto ci sarebbe stato un ulteriore problema: far digerire a Karajan che l’orchestra suonasse come voleva Michelangeli.
Ancora una volta, a parte pochissimi amici come Sergiu Celibidache, Michelangeli confermava la sua poca disponibilità a legarsi. Ma resta l’ultima critica. Il fatto che con gli anni il suo repertorio, molto vasto all’inizio, si sia andato restringendo sempre più. Fedeltà ai propri totem musicali, cercati, trovati e venerati come abbiamo scritto nella prima puntata, o semplice senno, come sosteneva l’altro giorno Enzo Restagno in un bell’intervento al Festival Pianistico di Brescia e Bergamo: più si va avanti con l’età più ci si accorge che le cose importanti sono poche, e molto profonde da attraversare. In fondo, forse, uno Chopin più vero e potente libera dal fatto che quaggiù qualcuno ci odia. A ragione.
Altro capitolo non pacificato riguarda il rapporto di Arturo Benedetti Michelangeli con i colleghi pianisti. Sviatoslav Richter nel suo Scritti e conversazioni tratta Michelangeli da robottino del pianoforte. I due avevano stili opposti, certo, ma qui si gira intorno a un’antipatia profonda, non solo estetica: “Come sempre impeccabile. Il testo esatto. Totale perfezione della tecnica. Tutto il resto glaciale. Beethoven: il Trio della Marcia Funebre è così formale e secco che lo si direbbe un numero comico”, oppure, sulle Variazioni di Brahms su un tema di Paganini: “La sua interpretazione sarà anche una buona esecuzione ma non mi convince: suona senza pathos. La musica avrebbe bisogno di qualcosa di più elevato”.
Claudio Arrau fa il nome di Michelangeli senza farlo: “Questo stupido perfezionismo, tanto apprezzato dalla gente. L’altro giorno un giovane pianista, uno dei miei primi allievi, è andato al concerto di qualcuno del quale non faccio il nome. Ho chiesto come fosse andata, perché di solito non apprezzo il meticoloso pianista che lui era andato a sentire. “Non diceva nulla, ma era perfetto, preciso, non una nota sbagliata in tutta la serata.” È una cosa tanto importante?”.
Con Vladimir Horowitz c’era un meraviglioso evitamento. Se capitava che si trovassero insieme, per esempio al festival di Salisburgo ad assistere a qualche concerto, i manager facevano in modo di assegnare loro posti, o palchi, distantissimi.
Buchi neri sono i rapporti con altri due giganti. Glenn Gould e Arthur Rubinstein.Con il secondo, immenso interprete chopiniano anche lui, ma in modo del tutto diverso da ABM, nonostante qualche fotografia che li ritrae insieme, pare non ci fossero. Rubinstein, che faceva parte della giuria del famoso concorso di Bruxelles del 1938, scrisse nella sua biografia due righe glaciali: “Arturo Benedetti Michelangeli, il famoso artista italiano, offrì allora un’esecuzione insoddisfacente, sebbene mostrasse già di possedere una tecnica impeccabile”. Del resto vari conoscenti di Michelangeli raccontano che quest’ultimo non parlasse mai del pianista polacco naturalizzato statunitense.
Quanto al rapporto con Glenn Gould i due facevano di tutto per ignorarsi a vicenda.Erano molto diversi già a partire dalla posizione sul piano. Gould con lo sgabello basso, i contorcimenti, l’espressione del viso che segue la musica, la tendenza a cantare. Michelangeli con un’impostazione perfetta, le mani che cadono dall’alto sulla tastiera, impercettibili oscillazioni dei baffi che indicavano qualche momento di pathos. I due si assomigliavano per il carattere ferocemente bizzarro. Racconta lo psicologo Peter Matussek in suo studio famoso su Gould che una volta il pianista chiede 300.000 dollari di danni alla Steinway perché un tecnico osò salutarlo battendogli una mano sulla spalla.
Molto spesso chi si somiglia non si piglia, e i due rimasero più che rivali, inesistenti l’uno per l’altro.
Non c’era amore da parte dei grandi pianisti per Arturo Benedetti Michelangeli, e probabilmente lui non ne aveva per loro. Gli stessi Maurizio Pollini, e Martha Argerich non parlano volentieri e in modo disteso di quello che è considerato il loro maestro. Benedetti Michelangeli è un maestro, sì, ma un maestro scomodo, con cui è difficile fare i conti. Più un evento musicale o un masso erratico che un caposcuola. C’è la sensazione che da quasi tutti i colleghi fosse percepito come ingombrante. E perturbante.
C’è la sensazione che da quasi tutti i colleghi fosse percepito come ingombrante. E perturbante
Il direttore d’orchestra Carlos Kleiber, genio “chiuso” e in fondo fragile, al momento della collaborazione si trovò in difficoltà, tra l’altro perché Michelengeli gli ricordava il padre, il direttore d’orchestra Erich Kleiber, la cui ombra Carlos aveva passato tutta la vita ad inseguire. Michelangeli non faceva nulla per favorire il rapporto: parlava pochissimo, comunicava con l’orchestra -non col direttore ma con gli orchestrali direttamente- tramite impercettibile mimica facciale. Il progetto fu abbandonato. Come il progetto della grande reunion con Herbert Von Karajan. I due avevano registrato insieme a Berlino alla fine della guerra, ma i nastri della registrazione erano spariti dopo il ‘45, finendo, sosteneva ABM, in qualche archivio a Mosca. Nel 1977 alcuni produttori della Deutsche Grammophon cominciarono a pensare a un progetto che commercialmente sarebbe stato il colpo del secolo. Ma i due erano molto diversi. Karajan era già quasi un capo di Stato, e forse Michelangeli non aveva attrazione per la vague stilistica presa da Karajan. Fatto sta che lo stesso ABM non disse mai sì. E se anche l’avesse detto ci sarebbe stato un ulteriore problema: far digerire a Karajan che l’orchestra suonasse come voleva Michelangeli.
Ancora una volta, a parte pochissimi amici come Sergiu Celibidache, Michelangeli confermava la sua poca disponibilità a legarsi. Ma resta l’ultima critica. Il fatto che con gli anni il suo repertorio, molto vasto all’inizio, si sia andato restringendo sempre più. Fedeltà ai propri totem musicali, cercati, trovati e venerati come abbiamo scritto nella prima puntata, o semplice senno, come sosteneva l’altro giorno Enzo Restagno in un bell’intervento al Festival Pianistico di Brescia e Bergamo: più si va avanti con l’età più ci si accorge che le cose importanti sono poche, e molto profonde da attraversare. In fondo, forse, uno Chopin più vero e potente libera dal fatto che quaggiù qualcuno ci odia. A ragione.