IL FATTO QUOTIDIANO DEL 30 LUGLIO 2018
CORSO MONFORTE A MILANO
Grazie Milano, ricordi le vittime di via Palestro tra scippi e luna rossa
Almeno trecento persone alla commemorazione di chi morì nel 1993 per la bomba della Trattativa Stato-mafia
Scena prima. “Prendetelooo, mi ha rubato i soldi”. Nella Milano svuotata, via Borgogna, dietro piazza San Babila, l’urlo disperato giunge da lontano. In quel momento mi arriva a un metro un “bolide” biondo ed elegante. Mi viene in mente che potrebbe essere lui, che potrei sgambettarlo, ma non vedo null’altro e dietro l’angolo c’è la fermata di un autobus che non arriva mai. Che stia correndo a prenderlo? Mi frega il pregiudizio. È vestito bene, non sembra un ladro. Frazioni di secondo, giusto per vedere che dell’autobus non c’è ombra. È già lontano quando sopraggiunge un uomo sui sessanta. Affannato e disperato.
“Prendetelo, aiuto, ha preso i soldi quel bastardo”. Potrebbe finire così, in genere finisce così. Con il ladro che si dilegua. E la vittima che sacramenta. Invece il finale è diverso. A cento metri, al semaforo di corso Monforte, un signore capisce e va verso l’atleta che fila come un’auto. Un passante lo affianca. Il fuggitivo è costretto a spostarsi di marciapiede, solo che in quel momento arriva un autobus e gli si mette di traverso in curva, e lui devia a sinistra. Ora accelero per vedere, va verso San Babila mentre il poveretto arriva di nuovo con il suo urlo. Qualcuno dice “i carabinieri”, io dico “i tassisti”, perché c’è lì un loro lungo posteggio, ma i tassisti li vede anche il ladro, che si getta a sinistra (direbbe Totò: porta male), in via Cino del Duca, finendo in uno slargo dove le urla arrivano di rimbalzo. Tra i tavolini di un bar e un capannello, in una decina fermano il corridore e lo immobilizzano. Lo tengono fermo. Tra loro ci dev’essere un esperto di queste situazioni, perché lo spinge contro un’auto mettendogli la faccia sul tetto e intimando a tutti “non toccatelo”. Rimangono tutti lì a tenerlo addosso all’auto per consegnarlo a chi arriverà, con un paio che continuano a dire “non facciamogli del male”. Una donna dotata di qualche funzione pubblica (ma non sembra una vigilessa) chiama la polizia locale, altri i carabinieri e la polizia. Tanti si affacciano dalle finestre, dai negozi, sui balconi degli uffici, perché in effetti è stata una scena da film d’azione. Guardo lo scippatore, che ha una busta o un rotolo in mano. La vittima arriva, lo riconosce, ha un epiteto tutto per lui, ma poi non infierisce, non sobilla. L’altro non si divincola. Straniero: può essere inglese, scandinavo o dei paesi dell’est. Di certo non è un disperato. Chissà, forse qualcuno gli ha detto che in Italia si può scippare impunemente. Specie in una città svuotata. Specie a Milano, dove ognuno si fa gli affari suoi.
Invece in tanti non si sono fatti gli affari loro. Dalle finestre non un urlo contro di lui, e nemmeno dalla strada. Non una richiesta di pena di morte. Nessuna maledizione contro gli stranieri. Quando arrivano i vigili con le manette nessuno applaude. Penso di avere assistito a una delle scene più civili che si possano immaginare. Solidarietà tra persone che non si conoscono, il primato della legge, perfino l’habeas corpus popolare. E di aver visto franare un po’ di pregiudizi. Gli scippi fatti dai marocchini o dai nomadi. O la richiesta di sicurezza come voglia di linciaggio. Così me ne vado, sotto l’afa di mezzogiorno, soddisfatto della mia città.
Scena seconda. Nove ore dopo. Milano celebra i 25 anni della strage di via Palestro. Una delle bombe mafiose del ’93, la Trattativa. Morirono in cinque, quella sera, davanti al Padiglione d’arte contemporanea. Tre vigili del fuoco, un vigile urbano, un cittadino marocchino steso su una panchina lì davanti. All’ingresso del Padiglione c’è la lapide, dove solo da poco è stata indicata la matrice mafiosa della strage. Terzo appuntamento di questo anniversario speciale. All’inizio solo piccoli gruppi. Ragazze che si smanacciano le gambe nude a caccia di zanzare, signori maturi con marsupio e pantaloni al ginocchio, donne anziane, magliette di Libera. Una bandiera tricolore. Non siamo più di cinquanta. Ci si guarda intorno. Così pochi? Milano non ricorda? Ma è ovvio, sono tutti al planetario qui accanto, a vedere la luna rossa. Certo, la luna rossa, ci si consola. E invece a un certo punto si contano almeno trecento persone commosse, nella Milano da week end in fuga, al terzo appuntamento della giornata, luna rossa o no. Applausi ai colleghi di allora, all’attrice, al prete che sposò una delle vittime poco prima che morisse. Al “silenzio” suonato dai vigili del fuoco. Due ore in piedi, tutti insieme. La luna rosseggia. Me ne vado. E di nuovo sono soddisfatto della mia città. Perché non dirlo?