30/8/2018
POLITICA
Intervista/ 1
Cacciari
“Serve un partito federale e transnazionale Con leader dal basso”
CLAUDIA MORGOGLIONE,
ROMA
Rifondare un partito non liquido ma di massa, non centralista ma radicato nei territori, non affascinato dai capitani d’industria ma attento ai bisogni dei nuovi lavoratori, sempre più precari e proletarizzati. E poi, ragiona Massimo Cacciari, prepararsi a una battaglia non solo italiana: «Alle prossime elezioni europee le forze progressiste, dal Pd a Macron, devono presentarsi unite, con nome e simboli comuni. È l’ultima occasione per opporsi a Salvini e ai suoi amici».
Il filosofo risponde così all’intervento di Walter Veltroni, apparso ieri su Repubblica, al suo appello a ripartire da una nuova sinistra centrata su due pilastri, popolo e sogno: «Ma io di sogni davvero non ne posso più – attacca – ciò che conta è non ripetere gli errori della classe dirigente di cui Veltroni organicamente ha fatto parte».
Quali errori, professor Cacciari?
«La sinistra italiana ed europea li ha compiuti già dagli anni Settanta e Ottanta. Da un lato, ci furono grandi trasformazioni sociali, cambiamenti nel lavoro che fecero smottare la base della sinistra, senza che i suoi leader ne prevedessero le conseguenze.
Dall’altro, la questione istituzionale: in quegli anni la sinistra non affrontò le riforme, chiudendosi nel conservatorismo e rifiutando chi, come i sindaci del Nord, chiedeva una svolta in senso federale. Un atteggiamento che accomuna Veltroni a D’Alema e Prodi».
Risultato?
«Il non comprendere né le trasformazioni sociali né la necessità di aprire una fase costituente dopo la caduta del Muro di Berlino portò a un terzo errore: la subalternità culturale ai modelli globalistici, l’esaltazione di Tony Blair, l’Unione europea come unione monetaria. Ora tutti parlano di disuguaglianze: che però non derivano dallo Spirito Santo, ma dalla logica finanziaria della globalizzazione. Che va accettata, ma anche analizzata nelle sue contraddizioni. E poi il quarto errore, sull’organizzazione del partito: compagno Veltroni, non ricordi che già agli inizi del Pd ci fu chi disse che il modello doveva essere federalista? Invece si scelse di continuare col centralismo».
Come rimediare adesso?
«Ricostruendo dalle fondamenta un partito con un radicamento territoriale, con gruppi dirigenti che emergano dal basso, dalle località. Che valorizzi chi nel suo ufficio, ospedale, giornale, scuola, sindacato rappresenta quel luogo. Il contrario di quanto ha fatto il Pd, che scelse le cooptazioni. Ci vuole discontinuità netta: un partito non liquido ma di massa».
Crede che una sinistra rifondata possa riallacciarsi alla sua base storica, al mondo del lavoro? Parlare al dipendente Amazon o ai rider del cibo?
«Certo. Anche se è stato ridotto sul piano quantitativo e qualitativo, il lavoro dipendente oggi si è massificato, perché anche tanti autonomi in realtà sono lavoratori dipendenti. È da qui che dobbiamo ripartire, dal lavoro dipendente che si sta proletarizzando. Non dal partito di Marchionne».
Ma almeno è d’accordo con Veltroni sulla Lega e i suoi amici europei come destra estrema?
«Sì. Salvini è un politico di razza. Sa benissimo che l’Europa è un punto di non ritorno: lui vuole svuotarla.
Cerca ungheresi e polacchi non per fare l’internazionale sovranista, che è una contraddizione in termini. Il suo disegno è lo stesso che ha qui con Forza Italia: divorare i moderati europei, il partito popolare».
Cosa fare per contrastarlo?
«La vera sfida saranno le prossime elezioni europee: occorre uno sforzo dei progressisti per presentarsi alle urne come forza europeista transnazionale, con la sinistra italiana che si allea a leader come Macron e Tsipras, andando insieme alle urne con una sigla tipo “Giovane Europa”. Ammettendo che quella attuale non è l’Europa dei popoli, ma che l’Europa è necessaria. È tutto ciò che abbiamo. Se ci presentiamo come Pd è la catastrofe: recuperare la sua immagine è impossibile».
Nel frattempo il dibattito pubblico è monopolizzato da Salvini. Qualche giorno fa lei in tv, con un linguaggio colorito, ha detto che non indignarsi su casi come la Diciotti è una vergogna.
«Vero. Ma non basta incavolarsi, bisogna ragionare. Gli italiani sono un popolo europeo con una guerra molto lontana alle spalle, non in grado di affrontare le crisi di questi anni in cui, come in ogni fase di irregolarità storica, si scatenano le passioni. Pensare che l’uomo sia buono per natura è fare cattiva letteratura. Io credo, con Hobbes, Machiavelli, Spinoza, che l’uomo è di per sé cattivo:captivus, in senso etimologico. Prigioniero della più forte delle passioni, l’egoismo. Ci vogliono grandi uomini politici, e politica in grande stile, per rassicurarlo. Parleremo anche di questo, al Festival della Politica che abbiamo organizzato a Mestre, dal 6 al 9 settembre».
Sul futuro, però, lei non è pessimista.
«No, come ho detto, si può ancora rimediare. Ma bisogna farlo subito».
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Vivace e seria questa intervista: mette un po’ da parte, giustamente, i sogni di Veltroni, che rischiano, al di là delle intenzioni, di diventare aria fritta.