DUE LIBRI SULL’ ” INDENTITA’ “– CITATI DA TOMASO MONTANARI ( articolo seguente ) CHE E’ MEGLIO CONOSCERE…

 

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Tomaso Montanari (Firenze1971) è uno storico dell’arteprofessore universitario ed editorialista italiano.

 

 

 

Guasto è il mondo
trad. di F. Galimberti
Edizione: 2016
Collana: Economica Laterza [611]
ISBN: 9788842099819
Argomenti: Attualità politica ed economicaAttualità culturale e di costumeFilosofia politica: storia e saggiSaggistica politica
  • Pagine 188
  • 10,50 Euro

In breve (dell’Editore)

È uno di quei libri semplici, dove non c’è scritto niente che una persona informata già non sappia. Ma nella sua semplicità ha il massimo dei pregi: mette insieme dati conosciuti in modo tale che l’intero quadro di colpo diventa più chiaro. Fra i libri di Judt, questo è il più scopertamente politico; uso l’aggettivo nel doppio senso che può assumere: il saggio contiene una possibile visione del mondo ma anche una requisitoria forte e indignata per come il mondo è stato ‘guastato’. Corrado Augias, “il venerdì di Repubblica”

Tony Judt è rimasto, fino a oggi, completamente fuori dal dibattito italiano. Sulla scia di questo suo libro testamento, l’intero Occidente discute di parole chiave troppo frettolosamente date per morte: il ‘civico’ e il ‘pubblico’. Se ne comincerà a discutere anche in Italia o noi resteremo fermi a cinguettare parole d’ordine da anni Ottanta, roba del tipo ‘privato è bello’ e ‘padroni in casa propria’? Sergio Luzzatto, “Il Sole 24 Ore”

Tony Judt è stato uno studioso pieno di talento e di passione umana. L’opera del suo ultimo tempo ha qualcosa di prodigioso, di nostalgico e commovente. Adriano Sofri, “la Repubblica”

Questo è un libro appassionato, saggio, lucido, capace di guardare in modo approfondito sia al passato che al futuro. È un regalo ai giovani che oggi si sentono smarriti e non per mancanza di obiettivi. La causa della loro inquietudine è il mondo che ricevono in eredità e i pochi mezzi che hanno per trasformarlo. Questo libro, summa degli interessi di una vita intera, è dedicato al loro futuro e a tutti noi che vogliamo farne parte. I ricchi, come i poveri, ci sono sempre stati. Ma rispetto al resto della popolazione i ricchi, oggi, sono più ricchi e più numerosi di qualsiasi altra epoca di cui si abbia memoria. Il privilegio privato è facile da capire e da descrivere. Più complicato è spiegare l’enormità dello squallore pubblico in cui siamo precipitati. La povertà è un’astrazione, perfino per i poveri, ma i sintomi di un impoverimento collettivo sono tutti intorno a noi. Qualcosa che non va c’è, e non è trascurabile. Se una simile, grottesca disuguaglianza persisterà, perderemo qualsiasi senso di fratellanza; e la fratellanza, per quanto fatua come obiettivo politico, è la condizione necessaria della politica stessa. Inculcare il senso di uno scopo comune e di una dipendenza reciproca per molto tempo è stato visto come il pilastro di qualsiasi comunità. Sappiamo da sempre che la disuguaglianza non è solo fastidiosa moralmente: è inefficiente. L’egoismo è scomodo perfino per gli egoisti.
Guasto è il mondo è una sfida politica alla politica: farci carico dei mali della nostra società e immaginare un modo migliore di vivere.

 

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Tony Judt (Londra,  1948 – New York City,  2010) è stato uno storico e accademico britannico, residente negli Stati Uniti[1]. Era specializzato in storia europea.

Nato nel 1948, Tony Judt è cresciuto nell’East End di Londra da una madre figlia di immigrati russi e da un padre belga discendente da una linea di rabbini di origine ebreo-lituana. Fu educato alla Emanuel School, prima di ricevere un Bachelor of Arts nel 1969 e un PhD in storia nel 1972 dall’Università di Cambridge.

 

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Come molti altri nati da genitori ebrei, Judt crebbe in una famiglia secolare, ma fu comunque avviato a una scuola ebraica e introdotto alla cultura Yiddish dei suoi nonni, che Judt dichiara di ricordare ancora con nostalgia. Incoraggiato dai genitori, Judt, entusiasta, si lanciò a capofitto nel mondo della politica israeliana all’età di 15 anni. Aiutò la promozione della migrazione di ebrei britannici in Israele. Nel 1966, avendo vinto una borsa di studio al King’s College di Cambridge, si concesse un anno di pausa prima degli studi universitari andando a lavorare nel kibbutz dell’organizzazione sionista Machanaim. Quando, nel 1967, Nasser espulse dal Sinai le truppe delle Nazioni Unite, e Israele si mobilitò per la guerra, egli, come molti ebrei europei, fece volontariato nel sostituire i membri del kibbutz richiamati per la guerra. Durante e dopo la guerra dei sei giorni, lavorò come autista e traduttore per le forze armate israeliane.

Ma durante il dopoguerra, il convincimento di Judt nell’avventura sionista iniziò a vacillare. “Mi accompagnava questa fantasia idealistica di voler creare un paese socialista e comunitario attraverso il lavoro” ha detto Judt[2]. Il problema di questa visione, come ora iniziava a credere, era il suo essere “notevolmente inconsapevole della gente che era stata espulsa dal paese, a soffrire in campi per rifugiati per rendere possibile questa fantasia.”

 

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Nel 2008 gli fu diagnosticata una sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Da ottobre 2009 è rimasto paralizzato dal collo in giù, una condizione che non gli ha impedito di tenere una conferenza pubblica di due ore[3][4]

Negli ultimi anni si è dedicato alla scrittura di quattro articoli per la New York Review of Books, dedicati alla sua condizione di malato di SLA[5].

È morto nella sua casa di New York il 6 agosto 2010.

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fotografia di Lisa Carpenter–TheGuardian

 

 

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Identità e violenza

Amartya K. Sen

Traduttore:F. Galimberti
Editore:Laterza
Edizione: 5
Anno edizione: 2008
Formato: Tascabile
In commercio dal: 20 marzo 2008
Pagine: XVII-219 p.euro 10,00

Descrizione dell’editore

Nel 1944 a Dhaka, nel Bengala che ancora faceva parte dell’India, un bambino di 11 anni vide arrivare nel giardino di casa un uomo gravemente ferito che implorava un sorso d’acqua. Colpevole solo d’essere musulmano, era stato linciato per strada da alcuni indù. Amartya Sen, il bambino della mia storia, non ha mai dimenticato quell’episodio. Da allora il futuro premio Nobel per l’economia ha imparato a diffidare di quelle categorie collettive – religione, razza, nazione, lingua – che hanno la pretesa di definire in maniera irrevocabile che cosa sia un individuo e di vedere in questa “minimizzazione dell’essere umano” – come lui la chiama – un seme di brutalità e di violenza. “E l’uomo dov’era?” dice un verso del Canto Generale di Neruda. È la domanda che sembra porsi Amartya Sen in ciascuna delle pagine di questo libro. (Mario Vargas Llosa)

 

Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale

http://www.juragentium.org/books/it/identita.htm

 

 

RECENSIONE  DI  RITA MITA

 

L’attuale tendenza teorico-politica a unificare le divisioni esistenti nel mondo “in un sistema di classificazione spacciato per dominante” (p. X), finalizzato a distinguere le persone sulla base di un criterio unico come la religione, la comunità, la cultura, la nazione, o ancora la civiltà, ha come inevitabile esito, secondo l’economista e filosofo Amartya Sen, la messa in discussione della nostra stessa comune appartenenza al genere umano. Proprio per questa ragione, nelle considerazioni che l’A. presenta in questo saggio, tradotto dall’originale Identity and Violence. The Illusion of Destiny (2006), che riprende i contenuti delle sei lezioni su “The Future of Identity” tenute all’Università di Boston tra il 2001 e il 2002, la questione dell’identità diviene centrale. Con una straordinaria semplicità discorsiva e soprattutto con una grande ricchezza di considerazioni di carattere filosofico, storico, politico, sociale ed economico, Sen mostra l’intrinseca complessità e problematicità del concetto di identità, mettendo in guardia da grossolane e pericolose semplificazioni.

Nei primi tre capitoli del libro l’autore svolge un’accurata analisi del concetto di identità. Quest’ultima è valutata sia come “una fonte di ricchezza e calore”, sia come una fonte di “violenza e terrore” (p. 5). Il concetto di identità è per Sen plurale e inclusivo, poiché tante sono le affiliazioni e le collettività cui una persona appartiene simultaneamente: cittadinanza, residenza, origine geografica, genere, politica, professione, credo religioso, abitudine alimentare, interessi sportivi, gusti musicali, impegni sociali, ecc. Nessuna di tali associazioni, tuttavia, può essere considerata come la nostra unica identità, se non a rischio di creare e cristallizzare divisioni, spesso abilmente strumentalizzate per alimentare relazioni conflittuali, rispondenti a precise logiche di potere. Scrive Sen: “I conflitti vengono così reinterpretati e nobilitati in termini storici, attribuendo loro qualcosa di più grande della meschineria della politica contemporanea” (p. 44).

Tali considerazioni conducono l’A. ad opporsi all’interpretazione dell’identità come fatto puramente naturale del quale ciascuno, semplicemente, farebbe la sua scoperta, ovvero all’idea che l’identità sia una eredità immutabile della comunità in cui si è nati. La posizione dei comunitaristi è per Sen fallimentare, poiché promuove un approccio solitarista al problema dell’identità, che viene interpretata in senso univoco, in funzione della comunità. Ma l’illusione dell’identità unica è anche alla base della tesi dello “scontro di civiltà” fortemente sostenuta da S. Huntington, di fronte alla quale l’A. si chiede non se tale scontro possa verificarsi nella realtà, ma se sia corretto interpretare l’umanità adottando la “civiltà” quale esclusivo criterio di classificazione. Ripercorrendo la storia del progresso culturale dell’umanità, Sen si interroga sulla validità e sulla giustificabilità di questa tesi, ponendo l’accento sulla portata delle diversità culturali interne ad ogni civiltà e sull’estensione e sull’influenza delle interazioni, le quali travalicano i ristretti confini delle cosiddette civiltà. L’alternativa alle divisioni causate da un criterio di classificazione predominante sugli altri, tuttavia, non consiste nel sostenere irrealisticamente che siamo tutti uguali, ma nel sottolineare “la pluralità delle nostre identità” (p. 19), che per Sen s’intrecciano l’una con l’altra e chiamano in causa il ruolo fondamentale della ragione nell’atto della scelta. Ciascuno di noi, infatti, ha la possibilità di scegliere il peso relativo da attribuire alle varie collettività cui appartiene. Esercizio della ragione e scelta libera sono pertanto le coordinate di riferimento di una umanità disincantata, che comprende l’illusione del destino e il pesante prezzo che esso esige.

Tali considerazioni tornano nei capitoli successivi con approfondimenti specifici, nei quali la questione dell’identità è affrontata in riferimento alle affiliazioni religiose, alla cultura, quindi all’ambito politico e sociale. Nel Cap. IV, Sen tratta proprio dell’utilizzo strumentale del credo religioso quale criterio dominante di classificazione, e della settarizzazione dell’idea d’identificazione. Da questi approcci consegue una polarizzazione del mondo in funzione di affiliazioni ritenute esclusive, cui si accompagna un processo malriuscito di politicizzazione che può concretizzarsi nel contributo diretto all’azione terroristica, alla sua propaganda e alla normalizzazione della violenza in nome della religione. L’esito inevitabile è il rafforzamento della voce delle autorità religiose, convocate sempre più spesso quali interlocutori ufficiali in rappresentanza di una comunità o civiltà, e l’impoverimento, in termini di capacità di dialogo e di partecipazione sociale e politica, proprio della società civile.

Con la forza degli esempi storici e attuali e con la sua ampia e peculiare conoscenza di diverse culture, l’A. compie poi una decostruzione della retorica “Occidente contro Antioccidente” (Cap. V), e si oppone alla considerazione dei fattori culturali come inamovibili e prioritari nell’interpretazione dell’identità. La sua critica è diretta ancora una volta a Huntington. Sen si interroga ancora una volta sulla natura, sulle implicazioni e sui meriti del multiculturalismo, alla luce della fondamentale distinzione tra “libertà culturale” e “conservazione culturale” (p. 114). Dal riconoscimento del valore della libertà culturale discende direttamente l’importanza della diversità culturale, che non consiste nella “perpetuazione generalizzata di tutte le pratiche culturali preesistenti presenti in dato momento” (p. 117), in quanto ciò negherebbe l’importanza della scelta libera del singolo a scapito proprio della libertà culturale in nome della quale si celebra la conservazione. A partire da tale distinzione, l’A. intende fare chiarezza sul senso del multiculturalismo, differenziandolo da quello che egli definisce “monoculturalismo plurale” (p. 158). Le implicazioni politiche di questa prospettiva rivelano ovviamente un orientamento contrario a quello della tendenza contemporanea che l’A. non manca di analizzare con specificità, come quando tratta dell’esempio multiculturale della Gran Bretagna e dell’attuale politica del primo ministro inglese, orientata alla creazione di nuove scuole confessionali finanziate dallo Stato e in linea con una logica frammentaria che trasformerà il Paese in una “federazione di comunità” (p. 120).

Per Sen, occorre una maggiore equità intellettuale nell’approccio alla storia globale. E’ questo il primo passo per l’esercizio di una identità globale, che secondo l’A. può riguardare molte realtà e istituzioni a più livelli: dalle Nazioni Unite, alla società civile, alle singole persone, ai gruppi e alle organizzazioni. Lo scontento globale, espresso dai movimenti di protesta in tutto il mondo, può infatti essere considerato come la prova dell’esistenza di un sentimento di identità globale e di un interesse per l’etica globale che l’A. invita a consolidare. E se gli argomenti e le modalità di comunicazione dei dimostranti non sono sempre corretti, molti di questi sollevano tuttavia interrogativi importanti, che divengono agenda del dibattito pubblico e contribuiscono ad alimentarlo. In fondo, sostiene Sen, “è anche così che la democrazia globale muove i primi passi” (p. 187).

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