REPUBBLICA DEL 28-12-2018
https://rep.repubblica.it/pwa/longform/2018/12/28/news/dimenticare_escobar-215289437/
Federico Varese firma il suo ‘Vite di mafia’ (foto Valerio Pazzi)
Copie di ‘Vite di mafia’ presentati a Palazzo San Crispino di Ferrara, 17 novembre 2017 (foto Valerio Pazzi)
Colombia, dimenticare Escobar
LongreadSuperotto
I guerriglieri delle Farc hanno fatto la pace ma la produzione di cocaina continua a crescere. E i rapporti di forza di “Narcos” si sono invertiti: ora sono i clan messicani a gestire le piantagioni. Viaggio nelle città colombiane, tra killer pentiti e studenti che sognano un futuro diverso
Alessandro Leogrande (Taranto, 1977 – Roma, 2017 )
Dedicato a Alessandro Leogrande, autore de “La Frontiera”
Arrivo a Bogotá il 13 novembre per partecipare ad una conferenza. Come sempre per i miei viaggi, il convegno è una scusa, uno stratagemma per poter visitare un paese che mi affascina da anni. Mi lascio alle spalle i dibattiti sulla Brexit e la tranquilla vita accademica (vivo e lavoro a Oxford) per cercare di capire come è cambiata la Colombia di oggi.
Prima di partire leggo tutto il possibile.
Sembra che il Paese sia profondamente trasformato: rispetto agli anni Novanta il tasso di omicidi è calato, l’accordo di pace con il movimento dei guerriglieri marxisti delle Farc regge e il turismo cresce.
Nell’estate del 2018 è stato eletto un presidente quarantenne, Iván Duque, pragmatico e fotogenico. Pablo Escobar è ormai una icona pop, i suoi uomini scrivono libri e conducono programmi televisivi. Esiste addirittura un tour per visitare i luoghi dove visse – e morì – il famoso narcotrafficante. La serie televisiva di Netflix Narcos ha fatto il resto. Dobbiamo dunque credere che la Colombia sia diventato un paese in pace con se stesso, dove la fiction televisiva ha addomesticato la realtà e fatto scomparire i conflitti?
Mentre mi avvio verso l’Università del Rosario, la più antica e prestigiosa del Paese (qui hanno studiato 28 futuri presidenti), mi rendo conto che l’intera città è bloccata da una grande manifestazione. Un corteo di studenti sta per partire dal centro. D’istinto, decido di unirmi a loro. Il clima è festoso, si canta, ci si tiene per mano. Un ragazzo mi spiega quali sono le ragioni della protesta: il conservatore Duque, alleato dell’ex presidente Uribe (il quale è sotto inchiesta per corruzione e frode) vuole tagliare i fondi destinati alle università pubbliche e aumentare l’Iva sui beni di prima necessità.
Emilio, che studia in un istituto tecnico nella provincia di Antioquia, ha fatto quasi cinquecento chilometri per essere qui oggi. “La Colombia è uno dei Paesi più ineguali al mondo: tre persone posseggono più del 10 per cento del prodotto lordo”, mi dice: “Noi protestiamo contro i tagli alla scuola pubblica, ma anche contro la politica di austerità, i tagli alle tasse per i ricchi e la corruzione imperante. Questo è un Paese dove centinaia di bambini ogni anno muoiono di fame”.
Proprio in questi giorni, il testimone chiave in un caso di corruzione che coinvolge l’azienda di costruzioni brasiliana Odebrecht e diversi politici colombiani, è morto dopo aver ingerito una dose di cianuro. Si indagava su una mazzetta di 27 milioni di dollari e, ora, si indaga anche su un possibile finto suicidio. Mentre converso con Emilio, il corteo è arrivato alle porte delle zone residenziali benestanti. La polizia, in assetto da combattimento, decide di caricare, lanciando lacrimogeni e facendosi largo con gli scudi di plastica. Una ragazza di fianco a me, con le mani alzate, piange. “Questa è la Colombia”, scandisce Emilio, “e io sento una gran rabbia dentro, ma non mi rassegno”. A tutt’oggi molte università sono occupate e le manifestazioni continuano, mentre Duque si rifiuta di incontrare gli studenti. La Chiesa cerca di mediare, ma invano. Io torno sui miei passi, verso il centro.
Bogotá è percorsa da frontiere invisibili, che il corteo degli studenti ha cercato di oltrepassare. Le zone residenziali, il centro, i quartieri poverissimi controllati dalle gang non possono mischiarsi. L’ineguaglianza estrema produce muri virtuali, sanzionati dal potere. A Bogotá riesco a entrare brevemente in uno di questi mondi paralleli. Nel mio caso è il barrio Egitto, a un tiro di schioppo dal centro, non lontano dalla piazza dove è partito il corteo e dove ha sede l’Università.
Due ribelli delle Farc mentre addestrano un nuovo giovane membro all’’uso del fucile d’assalto a Medellín
Se un turista si avventura in questa zona viene derubato oppure rapito. Bisogna negoziare l’ingresso, nel mio caso attraverso un operatore sociale. La mia guida mi viene a prendere in centro. È accompagnato da un ragazzino macilento di circa tredici anni, che è membro della gang. Minuto, scuro in volto, non parla e non mi guarda negli occhi, ma beve costantemente. Non è qui per fare conoscenza, ma portare a termine un compito preciso, scortami nel luogo prestabilito. Insieme raggiungiamo la Chiesa di Nostra Signora d’Egitto. Lì mi aspetta Jaime Roncancio (noto come “El Calabazo” ossia “La Zucca”), seguito da una guardia del corpo. Jaime è il figlio del fondatore della gang che governa Egitto. Mi ripete molte volte: “La mia casa è la tua casa”, ma confesso che sono diffidente e incerto. Ho varcato una frontiera e mi chiedo se sia stata una decisione saggia. Stringo il mio zaino da scolaro. Ci arrampichiamo per la strada principale del barrio, calle 10. Quasi tutte le case hanno uno sgargiante murale dipinto sulla facciata. Sembra di essere parte di uno spettacolo teatrale, come quelli organizzati dai Duchi di Ferrara nel rinascimento.
Jaime mi racconta le storie del quartiere. La prima casa che incontriamo era l'”ufficio” della gang, gli assalti dei rivali cominciavano qui, ed era qui che loro si barricavano per difendere il territorio. Metto un dito nel foro di una pallottola. Nel vicoletto sul lato destro della casa intravedo un minuscolo specchietto incastonato nella finestra all’ultimo piano di un palazzo. “Da lassù possiamo vedere chi si avvicina e prepararci. Anche i bambini che danno due calci al pallone nella piazzetta sono in realtà delle nostre vedette”.
Per molti anni gli abitanti hanno vissuto in stato di guerra, soprattutto contro le forze dell’ordine, che sono disprezzate. Jamie mi indica la stazione di polizia, che sorge isolata in uno spiazzo in lontananza. Mi racconta che già a sette anni i giovani del barrio entravano nella gang e la vita media non superava i diciassette. Nel quartiere c’era solo un uomo di cinquant’anni. L’attività principale era derubare le macchine che passavano per la strada nazionale che delimita Egitto (da qui il nome della gang, “Los Gasolinos”). Puntavano i mitra, chiedevano ai passeggeri di scendere e li derubavano. Il controllo della strada serviva anche a sorvegliare il transito dei carichi di droga. Jamie mima il fracasso delle raffiche, gli sguardi atterriti delle vittime. Una volta si trovarono di fronte ad un uomo che, seduto nel sedile posteriore, si rifiutava di scendere, per nulla intimorito dalle armi puntate contro di lui. Il conducente spiegò che era morto… Jamie ancora se la ride.
Le storie continuano, pillole della sua vita passata. Dopo una lite per la divisione del bottino, ci fu una spaccatura nella gang e suo padre si mise a capo del gruppo degli “scissionisti”. Nella guerra che ne seguì, Jaime perse quattro fratelli e una sorella. Mi fa vedere il punto dove lei fu uccisa, vicino ad un murale di tre metri, l’immagine della Vergine di Guadalupe. La santa ha le mani giunte, lo sguardo rivolto verso il basso, una aureola gialla che incornicia l’intera figura e due rose ai lati del corpo. Questo è il luogo sacro della gang, all’aperto, dove si celebrano i riti religiosi, si benedicono le pallottole, partono i funerali e dove, sotto un altare rudimentale, si pongono gli ex voto.
Oggi vi sono tre gruppi che si contendono l’Egitto, due dei quali hanno fatto una tregua e incoraggiano progetti di sviluppo locale e il turismo solidale, mentre la terza formazione continua ad essere in guerra. Quando raggiungiamo la cima della collina (una zona che si chiama San Bruno), mi colpisce una folata di caldo, denso e nauseabondo per via dell’acqua piovana stagnate. Le case hanno tetti di lamiera, ma solidissime inferriate e cani da guardia che abbaiano forsennati nella mia direzione. Jamie addita una strada: “Vedi, se vai lì non torni vivo”, mi dice, indicando un confine invisibile che separa i due territori.
Alcuni guerriglieri delle ex Farc, incapaci di adattarsi alla vita civile e minacciati dai paramilitari, si sono uniti ai gruppi dissidenti
Ma c’è vita nel quartiere, non solo morte. Ci fermiamo in una piccola piazzetta, dove sono sedute diverse donne con i bambini in braccio: “La sera qui proiettiamo film, soprattutto dell’orrore, quelli preferiti di Jamie”, mi dice una giovane madre. Anch’io organizzo un cineforum nel mio collegio universitario di Oxford e ci mettiamo a discutere degli ultimi film che abbiamo visto e amato. La conversazione va per le lunghe e la donna mi fa cenno di seguirla verso una corte dove si tiene all’aperto un doposcuola per bambini. “La gran parte di loro sono orfani oppure hanno il padre in prigione”, spiega. Non ho il coraggio di chiederle se si riferisse al suo compagno, a suo marito. È ora di salutarsi.
Jamie mi scorta fino a casa sua, dove mi offre la chicha, un miscuglio alcolico a base di mais che bevo con rispettoso entusiasmo e segreto disgusto. È felice di mostrarmi la vista di Bogotá dalla sua casa fatta di lamiere e compensato. L’intero edificio sembra fluttuare in un limbo, esistere precario su palafitte. L’acqua del bagno proviene da una cisterna che intravedo all’esterno. La tensione si scioglie e mi sento a mio agio, sicuro. Jamie è sveglio, simpatico e parla del suo mondo con passione e amore. Ha poco più di trent’anni, ma ne dimostra cinquanta. Potrebbe essere uno di noi, ma è nato in una condizione e in un luogo diverso dal nostro. È riuscito a liberarsi dall’assuefazione ad una droga a buon mercato ma potentissima che circola nel barrio, il bazuco, composta da scarti della cocaina, polvere di mattoni, acetone e persino ossa umane. Ha passato diversi anni in prigione e mi mostra le otto cicatrici da arma da fuoco che ha sul corpo, il riaffiorare di episodi di una vita. Ma dice di essersi lasciato alle spalle quel passato. Oggi è orgoglioso del campo da calcetto che ha contributo a costruire. In mio onore, mi canta una canzone. Cerco di riprendere le sue mosse col cellulare. Quando ci congediamo, mi dice: “Tu hai attraversato una barriera invisibile e sei diventato uno di noi. È facile entrare, ma impossibile uscire”. E ride. Ripenso a quella frase e mi sembra profonda.
Pablo Escobar nacque nel 1949 in una cittadina a cinquanta chilometri da Medellín, durante una guerra civile che fece duecentomila morti, scatenata dall’uccisione del candidato liberale alla Presidenza. Quando il bestiame del padre si ammalò e morì, la famiglia perse tutto e si trasferì a Medellín. “Eravamo gente povera,” ha scritto il fratello nella sua autobiografia. Mi lascio alle spalle Jamie e le storie di Egitto per volare a Medellín. Voglio vedere i luoghi dove è cresciuto Escobar, scoprire cosa ne è stato del suo impero, dei suoi uomini, delle rotte che ha inaugurato, dei politici che ha corrotto.
Un combattente delle Farc nel nuovo campo allestito da gruppi dissidenti nella giungla
L’uomo è ricordato soprattutto per aver razionalizzato il sistema di produzione e distribuzione della cocaina negli anni ottanta. Addirittura creò un coordinamento cittadino tra gang, quello che divenne noto col nome di Oficina (“L’Ufficio”). Composto da un Direttorio, era una struttura indipendente che funzionava come un ufficio reclami per narcotrafficanti, cui rivolgersi per il recupero crediti, per sanzionare patti informali, per servizi di sicurezza e per coordinare le tangenti alla polizia. Secondo il folklore, quando Pablo usciva di casa la mattina diceva alla moglie, “vado in ufficio”. Da qui nacque il nome di Oficina.
BOTERO, LA MORTE DI ESCOBAR (1999)
A differenza dell’immagine che circola in molti resoconti, Escobar non era il boss dei boss. Coordinava il traffico di tanti gruppi che rimanevano indipendenti tra loro e ha creato istituzioni informali per la risoluzione dei conflitti. L’immagine del “Capo supremo” è frutto della politica di repressione americana, che sin dagli anni Ottanta si è fondata sul principio che, una volta arrestato oppure ucciso il grande narcotrafficante, il sistema sarebbe crollato. Quindi bisognava costruire il personaggio da uccidere. Come ha dimostrato la storia colombiana e messicana, questa analisi è errata. Morto un boss se ne fa un altro. Ma c’è un altro aspetto di questa vicenda che viene regolarmente ignorato. Sin da giovane, Escobar voleva cambiare il suo paese, come racconta il fratello e le persone che gli erano più vicine. “Il progetto di Escobar era politico e alla fine è stato sconfitto”, mi conferma Gustavo Duncan, autore del libro “Más que plata o plomo” e professore di scienza politica a Medellín, uno dei maggiori esperti del narcotraffico in America Latina.
BOTERO, LA MORTE DI ESCOBAR–MUSEO DI ANTIOCHIA, COLOMBIA
Gustavo ed io ci incontriamo più volte a Medellín e, durante cene interminabili, ricostruisce per me nei minimi dettagli il mondo del Patrón del Mal. Mi parla con la passione dello studioso che tocca con mano un mondo parallelo al suo. Mi insegna come è importante capire prima di giudicare. Alla fine conclude: “Pablo e i suoi uomini di certo non disdegnavano il denaro, ma volevano soprattutto distruggere il sistema, lanciando un attacco frontale allo stato colombiano”. A suo modo, era un “ribelle primitivo”.
Il villaggio di San Jose de Oriente, in Colombia, vicino a una delle zone create per la transizione dei ribelli Farc alla vita civile
Il centro di Medellín pullula di negozi, bancarelle, borseggiatori e anziani seduti sulle panchine. Non mi sembrano diversi dagli umarell che ancora riempiono la piazza della Cattedrale di Ferrara, la mia città natale. Questo è un luogo dove il turista occidentale è bene che faccia attenzione. Dopo un lungo giro, entro nel Museo di Antiochia, l’imponente costruzione che per un certo periodo è stata la sede del governo regionale ed oggi è il più importante museo della città. L’ultimo piano ospita la collezione di quadri e sculture del pittore Fernando Botero, un figlio di questa terra, che viaggiò a lungo in Italia. Visse per un periodo anche a Viareggio, uno dei luoghi della mia infanzia. Mi fermo di fronte alla tela “La muerte de Pablo Escobar”. Il narcotrafficante è ritratto sanguinante su un tetto di Medellín, nel 1993. Sembra dormire. È un gigante che domina i tetti, mentre un poliziotto timidamente punta il dito verso il morto e una donna ancora più piccola congiunge le mani, a mo’ di preghiera. Le persone normali piangono il morto, mentre le autorità sembrano colte di sorpresa, poiché forze occulte hanno giustiziato il narcotrafficante. Disturba pensare che un criminale, responsabile di migliaia di omicidi e di una campagna terrorista contro i civili, possa essere rimpianto. Ma forse è giunto il momento di leggere la storia recente della Colombia non attraverso la lente del narcotraffico, ma dell’esclusione sociale, delle frontiere invisibili ma molto reali che attraversano questo paese, e dei tentativi di infrangerle.
Dopo diversi sforzi, una mattina presto riesco ad incontrare uno dei pochi luogotenenti di Escobar sopravvissuti. Non è pronto a rilasciare una intervista formale, a rientrare nell’occhio del ciclone della stampa. Ha passato molti anni in prigione e vuole rifarsi una vita. Ci incontriamo in una località che non posso rivelare, in un centro commerciale ancora chiuso. Miracolosamente una porta si apre e riesco ad entrare. Raggiungo un bar dove un cameriere è pronto a servirmi la colazione. Quando arriva il mio interlocutore siamo gli unici clienti. Mi racconta molte cose del suo passato e forse un giorno ne parlerà in pubblico. Per ora mi dà il permesso di riportare queste riflessioni: “Negli anni Ottanta c’era una grande rabbia. Molti giovani che non avevano futuro credettero che ci fossero solo due strade: unirsi alla guerriglia oppure a Pablo”. La rappresentazione cinematografica di Pablo e dei suoi uomini non coglie la voglia di riscatto, l’essere disposti a morire giovani pur di tentare di infrangere un ordine sociale. Quando il suo miglior amico, Gustavo Gavilán, implorò Escobar di smettere di fare la guerra allo stato colombiano, Pablo gli rispose: “Appena smettiamo ci uccidono”. Dopo una buona dose di uova strapazzate e di caffè nero, l’uomo ancora giovane e affabile che mi sta di fronte aggiunge: “Quello che mi manca di più di quel periodo della mia vita è il senso di cameratismo, di vivere e combattere insieme. Oggi non c’è nessuno come Escobar, ma vige un patto di coesistenza. Siamo nella fase della “pacificazione”…”.
La famiglia e gli amici del leader del movimento contadino Holmes Niscue, ucciso da killer sconosciuti, seppelliscono la sua bara sulle montagne vicino a Pradera, Colombia
Con buona pace della teoria americana del “boss dei boss”, la morte di Escobar non ha posto fine all’economia criminale colombiana. Ha prodotto una trasformazione che cerco di capire. A Medellín, dove vivono due milioni e mezzo di abitanti, oggi operano quasi trecento gang, dette combos. Sono radicate nei quartieri e operano in maniera autonoma: vendono droga, controllano la prostituzione, il gioco d’azzardo, la produzione illegale di alcol e impongono il pizzo agli imprenditori legali. “I combos offrono dei servizi sociali”, mi racconta Santiago mentre sorseggiamo un ottimo cappuccino in un bar di Comuna 13. Santiago, noto come col nome di Doc, è un artista Hip Hop nato nel quartiere di Comuna 13, un agglomerato di 135 mila persone, un’altra delle zone no go di questo paese. Il quartiere confina con una arteria cruciale per il trasporto della droga verso la costa. Negli anni ottanta e novanta parti del quartiere erano controllate dai guerriglieri marxisti delle Farc e dal 2002 fino al 2012 il governo lanciò diverse offensive per espellerli. Furono commessi abusi dei diritti umani e centinaia di persone sparirono nel nulla. L’esercito venne affiancato dai paramilitari di destra dell’Auc per portare a termine queste operazioni. “Molte persone innocenti furono uccise in quel periodo”, dichiara Santiago, che non ha vent’anni e parla un inglese perfetto, imparato sui libri e ascoltando musica. Il progetto di cui è parte si chiama “Casa Kolacho”: attraverso l’Hip pop cerca di dare ai giovani un modello alternativo di vita. Ma nel quartiere si continua a morire: tra gennaio e agosto del 2018 vi sono stati 53 omicidi in comuna 13, un aumento del 76 percento rispetto allo stesso periodo l’anno precedente. Gli omicidi in città sono cresciuti del 20 percento rispetto al 2017 (in tutto il Paese sono saliti del 7 percento). L’equilibrio è fragile. Siamo seduti su un vulcano che può esplodere in ogni momento.
Ben presto scopro che l’Oficina, l’istituzione informale creata negli anni ottanta da Escobar, esiste ancora. Dopo la morte di Pablo, i nuovi leader (a partire da Diego Murillo Bejarano) si sono alleati con gli apparati dello Stato e hanno assicurato il loro appoggio alla campagna contro i miliziani di sinistra, appoggiando tra l’altro le incursioni dell’esercito in Comuna 13. Oggi L’Oficina continua a coordinare l’attività di combos (i gruppi subordinati), li usa per reclutare personale per i lavori più delicati, e soprattutto per assicurarsi che la droga passi indisturbata attraverso i quartieri come comuna 13 e le arterie principali, oppure venga spacciata sul mercato locale, che è in crescita. L’Oficina traghetta i proventi della droga nell’economia legale. I combos depositano una parte dei profitti nelle casse di questa struttura e ricevano in cambio protezione e servizi. Chiunque nel barrio può rivolgersi a L’Oficina. Se una persona ha un credito con qualcuno che vive in un altro quartiere, La Oficina è disposta a occuparsi del caso, ed eseguire una “sentenza”. Mi viene alla mente quanto disse Henry Hill della mafia italo-americana nel film “Quei bravi ragazzi”: “È come un dipartimento di polizia per chi non può rivolgersi alla polizia”.
La vista panoramica da una collina di Jardin, un villaggio sulle montagne delle Ande
Eppure qualcosa di fondamentale è cambiato dagli anni di Escobar. Non solo è fallito il suo tentativo sovversivo. È anche venuta meno la minaccia del movimento rivoluzionario delle Farc. Nel 2016, è stato firmato un accordo di pace, poi ratificato dal parlamento, che ha permesso la smobilitazione di circa 13 mila combattenti. I guerriglieri si sono ritirati dalla giungla, ad esempio dalla regione andina del Cauca, dove le condizioni climatiche sono perfette per la produzione di coca e dove vi sono diverse miniere per l’estrazione (illegale) di oro.
Le Farc oggi appoggiano la democrazia e hanno fondato un partito politico con lo stesso acronimo, la Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común, il quale ha ottenuto lo 0,38 % alle elezioni del 2018. Gli ex miliziani cercano di inserirsi nel mondo del lavoro, come contadini, insegnanti o guide turistiche, mentre una piccola minoranza rifiuta di deporre le armi e continua a trafficare in droga. Nelle zone che erano controllate dalla guerriglia sono avvenuti alcuni degli scontri più violenti degli ultimi due anni. Si combatte per il controllo della produzione e delle rotte per l’esportazione. Chi si mette in mezzo, come molti leader locali che appartengono in gran parte alle comunità Afro-colombiana, viene fatto fuori. Dall’inizio del 2016 sono stati assassinati 311 attivisti, difensori dei diritti umani e sindacalisti, secondo i dati dell’ufficio per i diritti umani.
Centoventitré di quegli omicidi sono avvenuti nel 2018. “Le Farc hanno lasciato questi territori ma altri gruppi sono arrivati al loro posto”, conferma Eduin Capaz, il coordinatore del Consiglio delle popolazioni indigene della regione. “L’unica differenza è che non hanno una ideologia politica”. Il gruppo più organizzato che da queste parti ha preso il posto delle Farc sono le Forze di Auto-difesa Gaitanista della Colombia (Agc), discendenti dirette dei paramilitari nazionalisti degli anni Novanta che combattevano contro Escobar quando si chiamavano Auc. Secondo i patti, le Auc si sarebbero dovute sciogliere, ma hanno solo cambiato nome.
Nonostante la smobilitazione delle Farc, la produzione di droga oggi è ai suoi massimi storici. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato nel settembre del 2018, 171 mila ettari sono coltivati a coca, un aumento del 17 percento rispetto all’anno scorso, il dato più alto mai registrato nella storia della Colombia. Le coltivazioni sono più produttive di un terzo rispetto al 2012. “Il rendimento per ettaro è cresciuto in maniera esponenziale”, mi dice Jeremy McDermott, il co-direttore di InSightCrime, una fondazione che monitora la criminalità organizzata in America Latina.
Una vecchia jeep Willys, un veicolo molto comune nella zona, carico di passeggeri e provviste, a Jardin
Il mio albergo è nella zona più prestigiosa di Medellín. Il roof garden ha una vista panoramica impagabile sulla città e sembra un crocevia per americani che lavorano per il governo, la Dea oppure l’Fbi. I funzionari Usa sono qui in forze per preparare la visita di Donald Trump, che sarebbe dovuta avvenire entro il 2018, ma che la Casa Bianca ha annullato all’ultimo momento. Sono molti preoccupati per l’aumento della produzione di droga e si sono dati una risposta: i messicani. Un rapporto riservato dell’intelligence colombiana (pubblicato sulla rivista messicana “Proceso”) ha stimato che i narcos messicani sono coinvolti direttamente nella coltivazione di quasi 100.000 ettari di campi di coca in Colombia, più della metà del totale. I messicani comprano oggi “almeno i due terzi” del prodotto. Secondo le stime dell’intelligence, vi sarebbero non meno di 1.500 messicani che operano direttamente in Colombia.
Due americani che incontro nel mio hotel suggeriscono cifre ancora più alte. Perché i cartelli messicani hanno deciso di entrare direttamente nella gestione della produzione e del trasporto, invece di aspettare l’arrivo della coca in Messico, come ai tempi di Escobar? La spiegazione che si danno gli analisti che incontro a Bogotá e Medellín è che i colombiani non erano più in grado di assicurare il flusso della coca, la qualità era peggiorata e i narcos messicani hanno visto con preoccupazione il processo di pace che ha portato alla smobilitazione delle Farc. I conflitti nella giungla e gli arresti di alcuni leader de l’Oficina avevano rallentato il business. Così hanno deciso di intervenire. Il Direttore del reparto della polizia colombiana che combatte il narcotraffico, Fabian Laurence Cárdenas, ha dichiarato che “i messicani non vogliono più passare attraverso intermediari, ma controllare direttamente la produzione. Ad un certo si sono preoccupati perché la qualità non era più quella di un tempo e hanno smesso di fidarsi”. E così il cartello di Sinaloa, il cartello di Jalisco-Nuova Generazione e gli Zetas hanno messo radici in Colombia. Gli indizi non mancano.
Il figlio di “El Chapo” Guzman, il leader del Cartello di Sinaloa, è stato per diversi mesi a Medellín nel 2016, protetto da una scorta di quindici persone fornita da L’Oficina. Pare fosse alloggiato a El Poblado, il quartiere più prestigioso della città e lì abbia organizzato parecchie feste, tanto da infastidire i vicini. Ma era qui per lavoro. Secondo la rivista “Proceso” e il quotidiano “El Tiempo”, ha aperto diversi i laboratori per la raffinazione della coca nei pressi di Medellín, in grado di produrre fino a 100 chili alla settimana, che vengono imbarcati nel porto colombiano di Buenaventura, con destinazione il Messico. Nella regione di Nariño, dove è concentrato un quarto della produzione illegale, gli inviati di Sinaloa hanno comprato grandi appezzamenti di terreno. Il 16 giugno di quest’anno sedici messicani e un ecuadoregno legati all’organizzazione di “El Chapo” sono stati arrestati nel dipartimento di Nariño con 1.300 chili di cocaina che stavano portando in Messico.
Un deposito di sacchi di caffè a Jardin
Il cartello di Jalisco ha scelto invece di radicarsi a Cali. Un loro uomo, Bernabé Millán Rascón, è stato arrestato il nove ottobre mentre stava salendo su un volo per Città del Messico. Gli Zetas sono presenti nella regione del Cauca e nelle citte colombiane di Suárez and Buenos Aires. Dal 2016, sono stati arrestati in Colombia più di cento messicani coinvolti nel narcotraffico. Secondo quanto ha dichiarato Fabián Laurence Cárdenas a Proceso, alcuni dei messicani che arrivano in Colombia hanno un profilo manageriale mentre altri sono sicari e assassini. Esiste già una task force dei tre paesi – Messico, Usa e Colombia – per affrontare questa emergenza. Gustavo Duncan, il professore di Medellín, segue questo sviluppo con preoccupazione. Teme che i conflitti tra cartelli in Messico si riproducano in Colombia. “Inoltre -aggiunge-è possibile che i messicani diano una mano alle gang locali per accrescere il loro controllo sociale”. Sono già riusciti a garantire un patto di non belligeranza tra alcune cosche a Medellìn, il cosiddetto “Patto del Fucile”. Questa notizia mostra che i messicani stanno diventano i regolatori della criminalità organizzata in Colombia.
La distruzione dell’organizzazione di Pablo Escobar e poi la resa delle Farc non hanno posto fine al narcotraffico, ma aperto le porte a gruppi che hanno l’infrastruttura e le risorse per intervenire direttamente nel processo di produzione di un paese straniero. C’è anche una ironia storica che gli spettatori dell’ultima serie di Netflix Narcos non mancheranno di notare: mentre in passato erano i colombiani a guidare le danze e dare ordini ai cugini messicani, ora sono questi ultimi a dettare legge agli ex padroni.
Ormai il mio viaggio volge al termine. Prima di partire passo una serata nella Università occupata di Cartagena. Per me Cartagena è la città raccontata da Gabriel García Márquez nei suoi libri, i vecchi palazzi slabbrati, le case del piacere dove Gabo passava le notti, le conversazioni dei redattori del quotidiano liberale “El Universal” dove il futuro premio Nobel imparò il mestiere dello scrivere. La città che trovo è un luna-park storico per turisti danarosi che vengono ospitati nelle ville antiche convertite in spa e alberghi di lusso. I visitatori girano la città su carrozze trainate da cavalli moribondi e con lo sguardo ebete si fanno selfie. Qui l’industria del sesso è fiorente. Molte discoteche non sono altro che mercati del corpo, dove la domanda incontra l’offerta.
Un quartiere di Quibdó, agosto 2018. Le uccisioni di attivisti, sindacalisti, leader indigeni e ambientalisti sono in aumento nonostante l’accordo di pace del 2016 tra il governo colombiano e le Farc
Nel 2012 gli agenti del servizio segreto americano fecero un festino con venti prostituite e uno si rifiutò di pagare il conto, dando vita ad una rissa e poi una indagine. Più di recente sono stati arrestati i membri di una gang di israeliani e colombiani che organizzavano party a base di sesso e droga con ragazze minorenni. Nonostante i due milioni di turisti che passano di qui ogni anno, Cartagena è la terza città più povera del Paese e una con le diseguaglianze sociali più drammatiche. In sei anni si sono succeduti dieci sindaci, tutti costretti a dimettersi per indagini nei loro confronti. Prendono decisioni senza la responsabilità di doverle metterle in atto. Ad esempio, per attirare le grandi catene internazionali, il Comune offre incentivi e sconti fiscali, mentre le casse municipali rimangono vuote.
Il caldo è divampante durante il giorno e riesco appena a mettere piede fuori dall’albergo. La frescura del tardo pomeriggio mi riconcilia un poco con il luogo e la vita. La mia meta è il Chiostro di Sant’Agostino, la sede storica dell’Università oggi occupata. Quando arrivo, spiego allo studente di guardia che sono un insegnante, che ho partecipato alla manifestazione a Bogotá e volevo capire le loro ragioni. Faccio anche una generosa donazione. Lui ripete che l’Università è occupata e non può entrare nessuno. Sfinito dalla mia insistenza mi dice, con lo sguardo condiscendente di chi ha il futuro davanti a sé: “Va bene! Lei sarà l’unico professore che può entrare qui”.
Mi aggiro per la corte del palazzo. Intravedo un’aula dove si tiene un seminario autogestito, in un’altra una lezione di yoga. Un ragazzo porta un fagotto sotto il braccio. Per un attimo penso sia del cibo, poi capisco che è una amaca che lega a due alberi. Si prepara il letto per la notte. Un giovane leader mi ricorda che le spese militari sono più alte di quelle per l’istruzione in Colombia. Mi racconta anche delle iniziative che hanno organizzato in queste settimane, spettacoli teatrali, danze indigene, cineforum. “Noi vogliamo frenare la privatizzazione del sapere, anche chi è povero deve poter istruirsi, ma vogliamo anche una Colombia diversa. Ad esempio, il turismo non ha ridotto la povertà, basta uscire dal centro e vedere i quartieri della periferia”. Sento parole che ho già ascoltato, principi universali che erano moneta corrente il secolo scorso. Con orgoglio, mi dice che il movimento è cresciuto: si sono aggiunti il maggiore sindacato del paese, il Cut, e gli insegnanti. Mentre mi congedo penso ancora a García Márquez, che fu studente in questo ateneo. Nella sua biografia descrive, oltre agli anni eroici di Cartagena, anche il paese dove è nato, Aracataca/Macondo. Lo definisce un luogo “senza frontiere.” Forse è questo che gli studenti vogliono davvero: una Colombia senza frontiere.
La sagoma di un ribelle delle Farc durante una marcia da uno dei campi dei guerriglieri nella giungla a un villaggio vicino, sulle montagne della Colombia, marzo 2016
Il presidente Duque continua a rifiutarsi di incontrare gli studenti. Mi ricorda Emmanuel Macron, eletto con speranze riformiste, ma che ben presto si rivela essere intransigente e autoritario. Invece di infrangere le barriere sociali che dividono il paese, ne crea di nuove. Tagliare i fondi all’Università serve ad aumentare le diseguaglianze sociali. Quando finalmente incontrerà Trump gli proporrà di intensificare la war on drugs, l’approccio militare al narcotraffico, che consiste nell’arrestare e uccidere i boss, e fumigare le coltivazioni senza preoccuparsi degli effetti sull’ambiente e su chi vive in queste regioni. Il presidente USA troverà un’anima gemella.
Il progetto narco-terrorista di Escobar è fallito, come è fallito il sogno della palingenesi comunista voluto dalle Farc. Sembra che ogni progetto di trasformazione sociale profonda sia destinato a fallire in questo paese. Il pittore Botero può continuare a dipingere le sue immagini più famose, di cittadini perbene con lo sguardo perso nel vuoto, con le decorazioni sul petto e il corpo sull’orlo di scoppiare, ingrassati dai profitti della cocaina. Spero solo che quel quadro venga invaso dai volti degli studenti colombiani e – il mio sogno – da Jaime e dagli abitanti del barrio in cerca di un altro Egitto. Vivere è non rassegnarsi.
L’autore
FEDERICO VARESE, alla presentazione del suo libro ” Vite di mafia” a Ferrara
Federico Varese, nato a Ferrara nel 1965, è Professor of Criminology all’Università di Oxford e direttore dell’Extra-Legal Governance Institute. Si occupa di crimine organizzato, corruzione e analisi delle reti sociali. Il suo primo libro, The Russian Mafia, frutto di un anno di lavoro sul campo a Perm, in Russia, ha vinto il premio della associazione americana di Slavistica come miglior libro dell’anno. Nel suo secondo libro, Mafie in Movimento, ha studiato le condizioni che permettono a gruppi mafiosi di radicarsi in territori non tradizionali. È autore anche di Vita di Mafia, un reportage sulle mafie in diverse parti del mondo.
Collabora con il Times e La Repubblica. Ha scritto per The London Review of Books, The New York Times, The Washington Post, Limes. Ha collaborato anche con lo scrittore John le Carré e con i produttori della serie televisiva McMafia.