LIMESONLINE.COM / VENEZUELA / 26 FEBBRAIO 2019
Per ora, in Venezuela sta vincendo Maduro
Nicolás Maduro durante un comizio a Caracas, febbraio 2019.
Foto di YURI CORTEZ/AFP/Getty Images.
Il test fallito degli aiuti umanitari dimostra che Guaidó non ha ancora convinto i vertici delle Forze armate. Gli Stati Uniti non vogliono morire per Caracas. [aggiornato il 26/2]
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Sabato 23 febbraio Juan Guaidó non ha potuto celebrare il primo mese dall’autoproclamazione a presidente ad interim del Venezuela.
Nella battaglia al momento solo diplomatica ed economica tra Nicolás Maduro (sostenuto da Cuba, Cina e Russia) e l’opposizione appoggiata dagli Usa, da quasi tutta l’Unione Europea e dalle principali potenze latinoamericane riuninte nel Gruppo di Lima, è il primo a poter cantare vittoria. “Per ora”, come disse in altre circostanze il suo predecessore Hugo Chávez.
E dal primo incontro a Bogotá tra Guaidó e il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence, lunedì, è emerso tutto tranne l’accelerazione invocata dall’attuale leader dell’opposizione. La Casa Bianca ringrazia i venezuelani e i paesi del Gruppo di Lima, scoraggia Maduro dal minacciare la Colombia ma si limita ad aumentare le sanzioni al regime e gli aiuti umanitari alla popolazione, compresa quella emigrata. “Tutte le opzioni sono sul tavolo”, ha ribadito Pence, ma un intervento militare guidato dagli Usa contro Maduro non è alle viste.
Gli aiuti umanitari raccolti dagli Stati Uniti e ammassati la scorsa settimana in Colombia e Brasile al confine con il Venezuela rappresentavano il pretesto ideale per testare la tenuta del regime di Caracas, che non li voleva. Il loro ingresso nel paese, possibile solo con il consenso delle Forze armate venezuelane, avrebbe significato che l’esercito iniziava a voltare le spalle al presidente. Così non è stato: i camion contenenti gli aiuti sono stati rispediti indietro o incendiati, le manifestazioni sono state represse e le diserzioni di soldati sono state appena un centinaio (su oltre 300 mila effettivi).
La reazione di Guaidó,che sabato nel giro di tre quarti d’ora ha invitato via Twitter la comunità internazionale a tenere aperte “tutte le opzioni” (sottintendendo un intervento armato) salvo poi riportare tali opzioni nell’alveo diplomatico, testimonia l’incertezza con cui si è mossa l’opposizione venezuelana in questo mese. Dopo l’iniziale onda d’urto legata al coinvolgimento statunitense (riconoscimento del presidente ad interim e sanzioni petrolifere contro il regime), l’ago della bilancia non si è più mosso in maniera sensibile verso il capo di Stato autoproclamato.
Le difficoltà di Guaidó a far approvare – dal parlamento di cui è presidente – l’amnistia per le Forze armate certo non incoraggiano diserzioni di massa tra i ranghi dell’esercito; i vertici evidentemente non hanno ancora ricevuto rassicurazioni adeguate sull’incolumità personale e delle fortune accumulate in questi anni di (narco)traffici. La Russia sta cercando di schivare le sanzioni ma, al pari della Cina, non ha riconosciuto Juan Guaidó; e ha fornito medicinali e attrezzature, entrati senza problemi nel paese.
L’unica buona notizia di rilievo per Guaidó riguarda Citgo, la sussidiaria statunitense della compagnia petrolifera nazionale PdVsa. L’azienda basata a Houston ha estromesso la dirigenza legata a Maduro e sta riempiendo il consiglio di amministrazione di persone legate all’opposizione venezuelana, se non direttamente agli stessi Stati Uniti.
La Casa Bianca avversa Maduro per motivi ideologici (il socialismo e l’alleanza con Cuba), mentre l’elemento geopolitico che rende il Venezuela bolivariano una potenziale minaccia è la penetrazione russa e soprattutto cinese in un paese dell’emisfero occidentale, peraltro dotato di affaccio sui Caraibi e di enormi riserve di petrolio.
Appurato che la caduta di Maduro rientra negli interessi strategici degli Stati Uniti e che Trump ne avrebbe bisogno entro la campagna presidenziale del 2020, un intervento militare diretto adesso sarebbe prematuro, impopolare (sia in patria sia in America Latina) e rischioso. Qualche mese in più di sanzioni contro il regime e di pressioni su Cina e Russia – alternando concessioni e minacce sugli altri dossier che coinvolgono queste due potenze – può portare a un isolamento insostenibile.
Morire per Caracas non avrebbe senso per Washington, ma ancora meno per Mosca e Pechino. Un loro coinvolgimento militare in Venezuela verrebbe probabilmente reciprocato nei rispettivi giardini di casa (Ucraina e Mar Cinese).
Salvo un’improvvisa retromarcia che però porrebbe alla superpotenza gravi problemi di credibilità, l’offensiva statunitense ha buone probabilità di portare alla fine anticipata del secondo mandato di Maduro, formalmente in scadenza nel 2025. Però, contrariamente alle aspettative dell’opposizione, l’erede di Chávez sta resistendo. Per ora.
+++ UNA NOTA DA LIMES DEL 12 DICEMBRE 2018
I bombardieri russi in Venezuela e le altre notizie di oggi
IL MONDO OGGI
[Il presidente russo Putin (a destra) accoglie l’omologo venezuelano Maduro a Mosca, 5/12/2018. Foto di MAXIM SHEMETOV/AFP/Getty Images]
La rassegna geopolitica del 12 dicembre.
a cura di
VENERUSSIA
Due bombardieri strategici Tu-160 dell’aeronautica russa sono atterrati a Maiquetía, aeroporto internazionale di Caracas.
L’arrivo dei velivoli del Cremlino, che saranno impegnati in esercitazioni congiunte con le Forze armate locali, segue l’incontro della scorsa settimana a Mosca fra i presidenti di Russia e Venezuela, Vladimir Putin e Nicolás Maduro. Nel corso del vertice quest’ultimo si è garantito investimenti russi per 6 miliardi di dollari ripartiti tra settori energetico e minerario.
La mossa dei due rivali Usa ha suscitato le immediate critiche di Washington, che per bocca del segretario di Stato Mike Pompeo ha invitato i cittadini russi e venezuelani ad aprire gli occhi sullo “sperpero di denaro pubblico da parte dei loro governi corrotti”.
Isolata diplomaticamente ed economicamente da Usa e soci, Caracas fa leva su una cerchia di paesi capeggiata da attori extra-regionali quali Cina, Russia e Turchia. Tutti impegnati in un braccio di ferro con la superpotenza a stelle e strisce.
Per mantenere un margine di azione sul piano diplomatico internazionale, dare linfa all’economia – al quinto anno di recessione – e legittimare la narrazione sul nemico esterno e sulla “guerra economica” orchestrata dall’imperialismo Usa in combutta con le destre locali. E sgonfiare la pressione crescente da parte di Washington, che la settimana scorsa ha vagheggiato nuove sanzioni contro il regime di Maduro.
Dopo aver assicurato domenica che gli Usa preparano un golpe nel paese caraibico, le autorità venezuelane hanno difatti salutato l’arrivo – per la prima volta dal 2013 – dei bombardieri russi come segnale della risolutezza di Caracas a “difendere il Venezuela fino all’ultimo centimetro”.
Finora la crisi venezuelana non costituisce una minaccia diretta alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, che continuano però a vigilare sul proprio cortile di casa, oggetto della penetrazione cinese e russa (in misura minore).