Apricot Lane Farms — LINK DEL LORO FACEBOOK
REPUBBLICA DEL 13 AGOSTO 2019
Il frutteto di Apricot Lane Farms di John e Molly Chester, a Moorpark, in California
il venerdì Natura
La fattoria del futuro torna al passato
In un documentario la storia di una coppia che, in sette anni, ha reso di nuovo vitale un suolo inaridito dall’agricoltura intensiva. Usando, per esempio, le capre contro le lumache
Quando, nell’estate 2018, gli incendi che stavano devastando la California circondarono la loro tenuta a nord di Los Angeles, John e Molly Chester pensarono che fosse la fine del loro sogno: una fattoria come quelle dei film, un Eden di piante, alberi e animali per cui, sette anni prima, avevano mollato la vita in città.
Poi, per fortuna, il vento cambiò direzione e la fattoria si è salvata, come mostra l’adrenalinico inizio di La fattoria dei nostri sogni, il documentario (in sala in Italia il 5 settembre) girato dallo stesso John, ex filmmaker diventato agricoltore.
«Da ragazza Molly ha avuto problemi di salute e, durante gli studi per diventare chef, ha approfondito il legame tra i nutrienti nel cibo e, appunto, la salute» spiega John. «Così ci siamo messi in testa di creare una fattoria dove il cibo fosse prodotto in maniera tradizionale e dunque ricco di nutrienti o, per dirla al modo di Molly, dove miliardi di microrganismi preservassero la salute del suolo, proprio come il microbioma nel nostro intestino fa con la nostra».
Il film documenta così la fatica per trasformare 80 ettari di terreno a Moorpark, reso inservibile
«da oltre settant’anni di agricoltura estrattiva», nel suolo vitale e fertile di Apricot Lane Farms.
Dopo aver ripristinato una grande vasca di irrigazione abbandonata,
i Chester hanno creato un’enorme compostiera in cui migliaia di lombrichi hanno prodotto materiale organico che, sciolto in acqua, è divenuto tè di compost ed è stato spruzzato ovunque.
A digiuno di tecniche agricole, la coppia si è rivolta al guru dell’agricoltura biodinamica Alan York – morto di cancro durante le riprese del documentario –
che già aveva dispensato i suoi consigli a viticoltori californiani, cileni e argentini, oltre che a Sting per la sua tenuta toscana.
L’agricoltura biodinamica ha una sua filosofia con aspetti esoterici che lasciano perplessi molti, ma nel documentario l’esoterismo non entra.
«Non volevamo fare una lezione sull’agricoltura biodinamica» spiega John, «la nostra certificazione biodinamica Demeter serve solo a far capire che adottiamo principi di biomimesi, imitando i processi biologici che la Terra mette in atto da 4,5 miliardi di anni, e di mutualismo, cioè sfruttiamo le relazioni di scambio tra vegetali o animali che portano benefici a entrambi.
IL GATTO DELLA FATTORIA
Alan ci ha insegnato a prendere ogni decisione seguendo due principi: riportare la biodiversità nel terreno e consentirgli di rigenerarsi, perché, come diceva lui, non c’è vita senza le piante».
Dopo aver spruzzato il fertilizzante naturale, i Chester hanno piantato colture di copertura, cioè erbe di diverse varietà (leguminose, graminacee, ecc.), che coprono la terra nuda proteggendola dalla perdita di nutrienti,
e oltre 250 specie di piante e alberi da frutta, tra cui porri, avocado, limoni, pesche, prugne, fragole, ciliegie, albicocche e così via, in modo da ottenere la maggior biodiversità possibile.
Inoltre, seguendo i consigli di York, Apricot Lane Farms ospita mucche, pecore, galline, oche, maiali.
«La presenza sul terreno degli animali» dice John «da millenni permette la trasformazione del foraggio nel letame, pieno di microrganismi, e dunque averli è stato indispensabile per rendere fertile il suolo».
Il documentario mostra come aprirsi alla biodiversità abbia significato però anche sottoporsi a una serie di dure prove, che hanno messo a rischio i raccolti e la sopravvivenza delle bestie.
La rinascita dell’ecosistema ha attratto per esempio la fauna selvatica, che era scomparsa: sono arrivati gli uccelli a mangiare le pesche prima che venissero raccolte, le lumache a mangiare le foglie degli alberi,
i roditori a scavare tunnel nel terreno e i coyote a fare razzia di galline.
Strategia anti-coyote
«È stato come aprire un vaso di Pandora nella speranza di riuscire a trovare prima o poi un punto di equilibrio».
John ammette che qualche volta ha vacillato, come quando per scongiurare l’ennesima mattanza del pollame ha imbracciato un fucile e abbattuto un coyote.
«Avrei potuto sterminarli tutti e la tentazione di usare soluzioni radicali è sempre presente, ma ho cercato un’altra strada: ho addestrato un cane a proteggere il pollaio e ho rinforzato la recinzione elettrica,
rendendo la caccia alle galline così improduttiva che i coyote si sono messi a predare geomidi e conigli selvatici».
Il film mostra come, per ogni nuova sfida, i Chester abbiano trovato una soluzione suggerita dalla natura, per esempio usare le capre per debellare un’invasione di lumache.
«Abbiamo anche liberato le galline dietro le mucche, in modo che, razzolando, spargessero meglio il concime e mangiassero le larve delle mosche nel letame:
così, nello stesso tempo, abbiamo ottenuto uova più ricche di nutrienti ed evitato il proliferare delle mosche, che provocavano infezioni agli occhi dei bovini.
CHE BELLA FOTO !
Naturalmente la parte più difficile è superare le criticità per un tempo abbastanza lungo, quello che è necessario per trovare un punto di equilibrio tra i bisogni della fattoria e quelli della natura».
E QUESTA ?
Il ricorso a soluzioni rapide ed efficaci, come l’uso di prodotti chimici, dice John, è alla base del fallimento dell’agricoltura moderna:
«Oggi nessuno investe in un terreno agricolo che non produca risultati entro tre anni.
Noi per fortuna abbiamo trovato un investitore (la cui identità non vuole rivelare, ndr.) interessato a risultati a lungo termine.
Ci sono voluti sette anni, ma alla fine abbiamo aumentato la materia organica del suolo della nostra fattoria del tre per cento.
Basta un aumento dell’uno per consentire a ogni acro (circa quattromila metri quadrati ndr.) di suolo di trattenere tra i 75 mila e i 113 mila litri d’acqua in più, senza contare l’assorbimento di circa 21 tonnellate di anidride carbonica».
Proprio per questa capacità di trattenere l’acqua, come si vede nel documentario, la fattoria ha resistito alla catastrofica siccità che ha colpito la California a partire dal 2012,
mentre altri agricoltori vedevano gran parte del proprio suolo, impoverito da monocolture intensive, trascinato via dalle piogge sempre più rare e catastrofiche.
Il biologico non basta
Neppure la svolta biologica, che ha trasformato l’agricoltura negli ultimi anni, per i Chester è abbastanza:
«I consumatori oggi vanno matti per l’agricoltura biologica, però questa non si rifà al principio secondo cui il terreno deve essere in grado di rigenerarsi» spiega John.
«E se il suolo non è in salute, l’ecosistema non riesce più a regolarsi, perciò scatena fenomeni violenti nel tentativo di ritrovare l’equilibrio.
Ma se due persone sono riuscite a rivitalizzare in sette anni un terreno che, dopo 45 anni di sfruttamento estrattivo, era morto, allora tutto è possibile».
Oggi l’impresa dei Chester impiega venti agricoltori, trenta persone fra addetti ai trasporti, organizzazione dei farmer’s market e guide turistiche per la visita della fattoria, e produce circa 300 tonnellate di cibo che, come sottolineano loro,
«contiene quanti più nutrienti possibili, per essere usato come strumento di prevenzione contro l’insorgenza di varie malattie, come richiede sempre più anche il mercato».