UN INCONTRO…CON L’AUTORE DE ” I RACCONTI DI KOLYMA ” DI VARLAM SALAMOV –fonti varie / sotto tutti i links

 

Varlam Šalamov

I racconti della Kolyma

Traduzione di Marco Binni
Biblioteca Adelphi, 298
1995, pp. 631
isbn: 9788845911132
Temi: Letterature slave
€ 30,00

 

RISVOLTO

Vi sono libri che sembrano rifiutare ogni presentazione editoriale: parlano, anzi gridano, da soli. Sono anche libri che sembrano sottrarsi a un giudizio estetico: ci portano all’inferno, come guide impeccabili, e lì ci abbandonano a noi stessi. Ma Šalamov era soprattutto scrittore, e a lui dobbiamo il prodigio di una discesa all’Ade raccontata con voce spassionata e quasi impartecipe, con un candore e una rassegnazione che stridono con l’inimmaginabile brutalità delle cose descritte. E questo incontro diventa, sulla pagina, sconvolgente. Sono racconti spesso molto brevi, dedicati a un qualche «caso» della vita quotidiana nella funesta regione dei lager della Kolyma: un’occasione di abbrutimento, depravazione, assurdità, barbarie, abiezione, pietà, solidarietà, coraggio, lotta per la sopravvivenza, resa, morte; una qualsiasi delle occasioni che hanno segnato il destino di milioni di esseri umani (decine di milioni: non conosceremo mai il loro numero) nella Russia sovietica. Come scrisse Michail Geller, presentando la prima edizione in Occidente di questi Racconti, la Kolyma «non era un inferno. Era un’industria sovietica, una fabbrica che dava al paese oro, carbone, stagno, uranio, nutrendo la terra di cadaveri. Era una gigantesca impresa schiavista che si distingueva da tutte quelle conosciute della storia per il fatto che la forza-lavoro fornita dagli schiavi era assolutamente gratuita. Un cavallo alla Kolyma costava infinitamente di più di uno schiavo-detenuto. Una vanga costava di più». Nulla riscatta l’orrore di questo macabro mondo – neanche la natura, che con la sua asprezza sembra allearsi con gli aguzzini per facilitarne il compito, una natura maligna che ruba le ultime briciole di umanità. Eppure a quella natura Šalamov sa dare anima in subitanei, velocissimi squarci visionari, e la cosa crudele che circonda i prigionieri prende vita e testimonia di una lotta tra forze primordiali in cui l’uomo è soltanto timida comparsa. Ognuno, dopo aver letto questo libro, sperimenterà la morbosa ossessione del pane che ispira le cronache dei campi di concentramento. Ma si chiederà anche perplesso da dove, da chi venga a Šalamov quella tenera ironia che a tratti illumina l’universo torturante che gli diede in sorte la storia.
I racconti della Kolyma apparvero per la prima volta in volume nel 1978 in Occidente e nel 1992 in Russia.

 

 

 

nota da wikipedia ::  KOLYMA

 

 

Колыма.jpg

Колыма

Mappa del fiume

Mappa del fiume

Il bacino del fiume

Il bacino del fiume

La Kolyma è un fiume della Russia siberiana nordorientaletributario del mare della Siberia Orientale.

Il bacino del Kolyma ha un clima continentale estremo, dove si raggiungono temperature minime invernali fra le più basse dell’emisfero settentrionale del pianeta; a causa di ciò, il fiume è sigillato dal ghiaccio per la maggior parte dell’anno (mediamente, da ottobre a maggiogiugno). Gran parte del bacino del fiume è inoltre interessato da permafrost.

L’intero bacino è ricco di risorse minerarie (in particolare metallifere).

 

Il fiume Kolyma attraversa una delle regioni più fredde e inospitali della Siberia. Negli anni dello Stalinismo tale regione era sede di uno dei più importanti e conosciuti (almeno a partire dall’apertura degli archivi da parte di Nikita Chruščёv) campi di lavoro (Gulag), essenzialmente costruiti per lo sfruttamento delle abbondanti risorse minerarie (soprattutto l’oro). Tra gli internati, molti intellettuali e personaggi noti, come Aleksandra Sokolovskaja, prima moglie di Trotskij e lo scrittore Varlam Tichonovič Šalamov, che descrisse la sua drammatica esperienza nel libro I racconti di Kolyma. Nella Kolyma, secondo le cifre riportate dallo Storico Robert Conquest, specialista occidentale dell’età del Terrore, dagli anni trenta ai primi cinquanta morirono circa tre milioni di deportati. ( da : Il grande terrore. Le purghe di Stalin negli anni Trenta, Collezione Le Scie, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1970. ) . Alle durissime condizioni di vita dei deportati si riferisce l’espressione entrata nel parlare corrente: “Nel Kolyma era peggio”.

 

 

 

 L'immagine può contenere: 1 persona

Varlam Tichonovič Šalamov — DAL FACEBOOK A SUO NOME–IL LINK IN VERDE

Risultati immagini per VARLAM SALAMOV

FOTO DA INTERNET

 

 

Risultati immagini per VARLAM SALAMOV

 

Risultati immagini per VARLAM SALAMOV
Risultati immagini per VARLAM SALAMOV
Risultati immagini per VARLAM SALAMOV
Risultati immagini per VARLAM SALAMOV
Risultati immagini per VARLAM SALAMOV

VARLAM SALAMOV

 

 

Immagine correlata

 

Risultati immagini per VARLAM SALAMOVRisultati immagini per VARLAM SALAMOV

 

Varlam Tichonovič Šalamov  (Vologda18 giugno 1907 – Mosca17 gennaio 1982) è stato uno scrittorepoeta e giornalista sovietico. Prigioniero politico per lunghi anni, sopravvisse all’esperienza del gulag.

 

Risultati immagini per VOLOGDA RUSSIA ? CARTINA

VOLOGDA E’ IN QUELLA PARTE OCCIDENTALE DELLA RUSSIA NELLE VICINANZE DI LENINGRADO

 

 

Risultati immagini per vologda russia

 

VOLOGDA, UN’IMMAGINE DELLA CITTA’ DOVE E’ NATO LO SCRITTORE VARLAM SALOMOV

 

 

 

Figlio di un prete ortodosso e di un’insegnante, si diploma al ginnasio nel 1923. Dopo due anni di lavoro, viene ammesso nel 1926 all’Università Statale di Mosca, nel dipartimento di Diritto Sovietico, dove, durante gli studi, si unisce ad un gruppo trockista. Viene arrestato il 19 febbraio 1929 e condannato a tre anni di lavori forzati nella città di Višera, sugli Urali settentrionali; l’accusa è quella di aver distribuito le Lettere al Congresso del Partito, note anche come Testamento di Lenin, in cui vengono sollevate critiche all’operato di Stalin, nonché di aver partecipato ad un picchetto dimostrativo per il decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre con lo slogan “Abbasso Stalin!”.

Rilasciato nel 1931, lavora nella città di Berezniki fino all’anno seguente, quando rientra a Mosca e riprende a dedicarsi alla scrittura. Nel 1936 vede la luce il suo primo racconto Le tre morti del Dottor Austino.

Il 12 gennaio 1937, durante le grandi purghe, è nuovamente arrestato per “attività trockiste contro-rivoluzionarie” e mandato ai lavori forzati per cinque anni nella Kolyma, tristemente nota come “la terra della morte bianca”. Nel 1943 gli viene inflitta una seconda pena, stavolta per dieci anni, per “agitazione antisovietica”. Tra le accuse, l’aver definito Ivan Bunin “un classico scrittore russo”.

Nel lungo periodo di prigionia lavora dapprima nelle miniere d’oro, quindi in quelle di carbone. Le condizioni di vita dei forzati sono rese ancora più penose dal clima della regione; Šalamov si ammala di tifo e più volte è posto in regime punitivo, sia per reati d’opinione sia per tentativi di fuga.

Nel 1946 è ridotto allo stremo[2]. La sua vita viene salvata dal medico-prigioniero A. M. Pantjuchov che, correndo qualche rischio, riesce a prenderlo come proprio assistente presso l’ospedale del campo. Dopo un corso inizierà a lavorare stabilmente come infermiere negli ospedali e cantieri forestali del Dal’stroj, Direzione centrale dei cantieri dell’Estremo Nord. Questa nuova sistemazione gli consente di sopravvivere e, successivamente, di riprendere a scrivere. Rilasciato nel 1951, continua a lavorare ed a scrivere nello stesso ospedale. Nel 1952 spedisce alcune sue poesie a Boris Pasternak, che le apprezza pubblicamente. Al termine della prigionia la sua famiglia non esiste più: la figlia, ormai adulta, rifiuta di riconoscerlo.

Nel novembre 1953 – otto mesi dopo la morte di Stalin[3] – Šalamov ottiene il permesso di lasciare Magadan e si trasferisce nel villaggio di Turkmen, nell’Oblast’ di Kalinin (oggi Oblast’ di Tver), non lontano da Mosca. Inizia a lavorare alla raccolta di racconti ispirati alla vita di forzato, I racconti di Kolyma, che completerà nel 1973.

Dopo la morte di Stalin, numerosi zek[4] vengono rilasciati e riabilitati, altri avranno giustizia solo post mortem. Nel 1956 anche Šalamov consegue la riabilitazione ufficiale e, nel 1957, può tornare nella capitale sovietica, dove trova un impiego come corrispondente della rivista letteraria “Moskva“. Le sue condizioni di salute, nel frattempo, dopo la lunga e dura prigionia, sono peggiorate tanto che, ormai invalido, gli viene assegnata una pensione.

Per un peggioramento delle condizioni di salute, Šalamov visse gli ultimi tre anni della sua esistenza in una casa di riposo per scrittori anziani e disabili a Tušino in precarie condizioni economiche, dato che dalla pubblicazione estera della sua più importante opera non aveva guadagnato un solo rublo; tornato a Mosca, muore nel 1982 ed è sepolto nel cimitero di Kuncevo.

 

 

 

 

Varlam Salamov, il cronista che entrò nel gulag sovietico da bolscevico e ne uscì testimone dell’abisso

 

  

 

salamovNel 1999 fu pubblicata, per la prima volta in Italia, l’opera monumentale di Varlam Salamov, I racconti della Kolyma, sull’inferno dei gulag sovietici. Fu un caso letterario. Quindici anni fa – e ancora oggi – il paragone fra i gulag e i lager è per alcuni inammissibile: la casa editrice Einaudi si rifiutò di pubblicare l’introduzione del polacco Gustaw Herling, reo di aver messo sullo stesso piano i «gemelli totalitari», nazismo e comunismo sovietico. «Eppure, chiunque abbia letto i racconti di Salamov confermerebbe l’esattezza del paragone», nota l’esperto filologo e russofilo Vittorio Strada a Tempi. Per farsene un’idea basta scorrere i pannelli della piccola mostra sullo scrittore russo, in questi giorni, all’Università Statale di Milano. Scrive Herling: «Nei campi sovietici non c’erano i forni crematori, non si mandava la gente nelle camere a gas: il risultato era però il medesimo, anche se si uccideva lentamente, attraverso la fame, il lavoro massacrante e il clima». Cambiava l’obiettivo. In Siberia, «si voleva sfruttare al massimo il lavoro dei prigionieri».

È da questa esperienza quasi ventennale come schiavo del regime comunista che Salamov trasse il bisogno di raccontare, spiega Strada, «non solo ponendosi con Solzenicyn, Grossman e Pasternak, fra gli autori russi che hanno concluso il periodo della letteratura sovietica, ma dando al suo contributo artistico un’eredità più universale». «Mentre Solzenicyn ebbe un ruolo storico decisivo contro il sistema, e il suo Arcipelago Gulag ebbe una diapason amplissima, Salamov fu inizialmente lasciato ai margini, perché si era concentrato sulla forza della testimonianza diretta, sulla disperazione e sull’abisso», afferma Strada.

Uomo dalle «molteplici vite» – conciatore di pelli, studente di diritto, letterato e prigioniero – Salamov descrive l’annichilimento umano nel sistema concentrazionario sovietico nella regione gelida, tetra della Kolyma, agli estremi confini della Siberia, con freddezza e precisione. Nella Kolyma, allora non c’erano strade, non c’era la ferrovia. Soltanto la taiga e migliaia di uomini condannati alla fame, al gelo, al lavoro, in una sconfinata distesa di larici e pini, dove dopo le epurazioni, dalla Rivoluzione di Ottobre, nel 1919, fino al 1970, «fare il socialismo» equivaleva alla rieducazione attraverso il lavoro forzato. Il gulag, però, non restituì un’umanità migliore, sottolinea l’autore russo. Fu invece «una grande prova per le forze morali dell’uomo, per la comune moralità umana, e il novantanove per cento degli uomini non resisteva a questa prova».

Non si scrive per guarire il dolore
Non voleva “fare letteratura”, Salamov, ma raccontare la vita dei gulag. «C’è una profondissima non verità nel fatto che il dolore umano divenga oggetto dell’arte, che il sangue vivo, il tormento, il dolore appaiano sotto forma di quadro, poesia, romanzo. Questo è un falso, sempre», afferma in un’intervista degli anni Settanta. «Peggio ancora è che scrivere significhi per l’artista allontanarsi dal dolore, alleviare il dolore, il proprio dolore, dentro. Anche questo è male».

Quando la sua opera vide la luce nel 1973, Solzenicyn volle chiedergli un contributo per Arcipelago Gulag. Lui accettò, inizialmente. Per capire come contribuì al lavoro, ci si può limitare a una domanda a margine del testo inoltrata a Solzenicyn. Parlando dei detenuti del gulag, alle prese con un gatto, Salamov si chiedeva: «E perché non lo ammazzano per mangiarselo?». Solzenicyn, accolse l’obiezione e corresse. Questo accadeva nel gulag, scrive Salamov. Lo racconta in Giorno di riposo. Qui, alcuni criminali offrono a un pope internato alcuni avanzi di un piatto di carne di montone. Il pope mangia, e quando scopre che in realtà sono i resti di un cucciolo di cane allevato dalla baracca, vomita. Eppure, afferma, «la carne era buona. Non peggio di quella di montone».

lavori-forzati-gulag-mar-baltico«Ho cambiato idea sulla vita come bene, felicità. La Kolyma mi ha insegnato tutt’altro», afferma Salamov ne I taccuini curati da Irina Sirotiskaja. «Il principio della mia epoca e della mia personale esistenza, di tutta la mia vita ciò che ho tratto dalla mia personale esperienza, la regola che ne ho desunto può essere espresso in poche parole. Prima di tutto bisogna restituire lo schiaffo e solo in un secondo tempo l’elemosina. Ricordare il male prima del bene. Ricordare tutto il bene ricevuto per cent’anni e tutto il male per duecento».

Una visione tetra del mondo, che però è in contrasto con l’esigenza di scrivere, spiega Strada. «Nei suoi racconti – afferma il filologo – la potenza letteraria di Salamov ha una fisionomia autonoma, che insieme allo stile, al destino personale, difficile e arduo dell’autore, creano una visione esistenziale di insieme cruda ma non nichilistica».

«Salamov d’altronde parla dell’abisso dell’uomo nel mondo concentrazionario. Del destino personale degli uomini schiacciati dalla storia. Un tema che appartiene alla grande letteratura russa», spiega ancora Strada. «Nel periodo sovietico, è emblematica la metafora della Ruota Rossa di Solzenicyn, il romanzo in cui la Rivoluzione viene descritta come un meccanismo che schiaccia le esistenze degli uomini». «Anche in Salamov – afferma Strada – come in Solzenicyn, emerge però la resistenza dell’uomo alla violenza della storia, sulla quale lo scrittore può sempre dire una parola per non essere schiacciato fino in fondo».

L’autore dei Racconti della Kolyma non ha mai negato la sua adesione al bolscevismo. Alla fine dell’esperienza del gulag dice: «Sono stato partecipe di una battaglia persa per l’effettivo rinnovamento della vita». Quella sconfitta lo condannò, come trotzkista, dunque nemico di Stalin, a una vita di miseria e privazioni. Nei campi di concentramento, il credo nell’ideologia comunista si opacizzò e rimase in piedi soltanto la realtà e l’esperienza del gulag. La disperazione.

«La cosa peggiore – afferma nei diari – è quando l’uomo comincia a sentire questo fondo oscuro, e per sempre, come parte della propria vita». Cosa poteva resistere nei gulag? Per l’ateo Salamov, soltanto Dio. «Nei campi di concentramento non ho visto nessuno che avesse più dignità dei credenti. La depravazione invadeva l’anima di tutti; resistevano solo i credenti», dice. Anche lui resistette. Nonostante la disperazione, per poter leggere una recensione delle sue poesie da parte del suo maestro, Boris Pasternak, nel 1952, Salamov percorse più di mille chilometri su una slitta trainata dai cani. Era una stroncatura, ma ne fu felicissimo.

«È a partire dal suo rapporto con Pasternak, rappresentante della letteratura russa, ancora prima della rivoluzione, grande poeta del Novecento, e con un retroterra culturale pre-rivoluzionario, che Salamov deciderà di scrivere del gulag», spiega Strada. Il nucleo dei Racconti della Kolyma emerge così nella corrispondenza con l’autore del Dottor Zivago. In una lettera a Pasternak, Salamov descrive una giornata nel campo di concentramento: «Il giorno lavorativo dura 16 ore. La gente dorme in piedi appoggiandosi sulle vanghe. Non può né sedersi né sdraiarsi – ti fucilerebbero sul posto. Buio biancastro con una tinta di blu della notte invernale, 60 gradi sotto zero. L’orchestra delle trombe d’argento suona le marce davanti alle file di detenuti semimorti. Nella luce gialla delle enormi torce di benzina una guardia legge la lista dei nomi dei detenuti fucilati per non aver raggiunto la norma di produttività».

Il rapporto con Pasternak
Per Salamov, Pasternak è la luce nell’abisso. E da dove provenga questa capacità del Nobel di far sperare un disperato, emerge forse dal resoconto di un incontro tra il grande poeta e Andrej Sinjavskij, sul finire del 1957. Un incontro che offre una risposta alla resistenza del popolo russo all’esperienza totalitaria e all’abisso del gulag. Pasternak, scrive Sinjavskij, «cominciò a parlare di Cristo, che viene a noi da laggiù, dal profondo della storia, come se quelle lontananze fossero il giorno che viviamo, e insieme al giorno si facessero trasparenti e declinassero nella sera, congiungendosi a un domani senza fine. Nelle parole di Pasternak, come mi parve, non v’era neppure l’ombra di un’aspettativa apocalittica. Cristo veniva oggi perché la nuova storia veniva da Cristo e dal Vangelo, compresa la nostra giornata e Cristo era di questa giornata la realtà più naturale e familiare. La storia con il suo passato, il suo presente, il suo futuro, era come un campo, un unico campo, uno spazio che s’apriva ininterrotto allo sguardo. Guardando dalla finestrella i campi e i declivi nevosi Pasternak parlava di Cristo che viene a noi da laggiù. E parlava senza affettazione, né enfasi, senza pompa alcuna, ma con semplicità quotidiana, come se là e laggiù fossero stati gli orti contigui e la fila dei campi biancheggianti che s’allargavano attorno».