GIORGIO CUSCITO, HONG KONG OGGI, IERI, DOMANI –LIMES ONLINE – 8 OTTOBRE 2019–Pubblicato in: HONG KONG, UNA CINA IN BILICO – n°9 – 2019

 

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il territorio di Hong Kong da wikipedia

 

LIMES ONLINE – 8 OTTOBRE 2019

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HONG KONG OGGI, IERI, DOMANI

Pubblicato in: HONG KONG, UNA CINA IN BILICO – n°9 – 2019

Hong Kong and the New Territories, Standard-Vacuum Oil Company, 1958 (David Rumsey Collection)

Hong Kong and the New Territories, Standard-Vacuum Oil Company, 1958 (David Rumsey Collection).

Villaggio di pescatori, poi colonia britannica, oggi la regione tramite tra la Cina e il mondo può far poco per sfuggire alla piena integrazione nella Repubblica Popolare. Il futuro della formula ‘un paese, due sistemi’ sfuma se Xi non ottiene pacificamente Taiwan.

di Giorgio Cuscito

 

Hong Kong può protestare, ma il suo futuro è nelle mani di Pechino. Le manifestazioni iniziate nel marzo 2019 e proseguite fino ad oggi sono il più recente sintomo del malessere dell’ex colonia britannica. Oggi il Porto Profumato (questo significa Hong Kong) è meno speciale di quanto non fosse ventidue anni fa, quando il Regno Unito lo cedette alla Repubblica Popolare Cinese (Rpc) nel 1997.  Rimase sotto la corona britannica dal 1841 al 1997.


Il principio «un paese, due sistemi» (yiguo, liangzhi), che dal 1997 garantisce la semiautonomia della regione da Pechino, sta perdendo valore. Gli hongkonghesi si oppongono con fatica al processo d’integrazione della regione attuato dal presidente cinese Xi Jinping.


Il suo obiettivo è smorzare le pretese democratiche di una parte della popolazione di Hong Kong e preservarne al contempo il ruolo di piattaforma economica globale. Sperando (forse invano) che il modello hongkonghese possa in futuro applicarsi all’unificazione pacifica tra la Cina continentale e Taiwan. Il controllo dell’isola di Formosa è conditio sine qua non del «risorgimento della nazione» cinese, obiettivo che il Partito comunista vorrebbe raggiungere prima del 2049, centenario della Rpc. Ammesso che Pechino riesca a preservare il controllo delle altre aree storicamente più turbolente dell’Impero del Centro: Xinjiang, Tibet e appunto Hong Kong.


La posta in palio

Collocata sul versante orientale del delta del Fiume delle Perle, Hong Kong è oggi una Regione ad amministrazione speciale della Rpc (Hksar). Questa comprende l’omonima isola, la penisola di Kowloon 1 e i Nuovi Territori, che confinano con il Guangdong.

Tra il XIX e il XX secolo, la posizione strategica lungo le rotte commerciali in Asia e il peculiare status economico e politico hanno consentito a Hong Kong di diventare uno dei primi porti al mondo e una piattaforma finanziaria di rilevanza globale.


La famigerata proposta di legge sull’estradizione che la chief executive (la governatrice della regione) Carrie Lam ha proposto a marzo, sospeso a giugno e cancellato a settembre avrebbe permesso alle autorità regionali di estradare criminali fuggitivi verso la Cina continentale, Taiwan e Macao. Gli hongkonghesi hanno interpretato la mossa come l’ennesimo escamotage di Pechino per interferire negli affari della regione. In particolare, il provvedimento avrebbe consentito al potere centrale di sottoporre alla legge della Rpc chi nell’ex colonia britannica protesta contro il Partito comunista.


La manovra ha preoccupato anche il mondo degli affari hongkonghese, poiché avrebbe esteso al Porto Profumato la campagna anticorruzione lanciata da Xi nel 2013. Le ricchezze occultate qui dai rivali politici del presidente e da imprenditori cinesi corrotti non sarebbero sfuggite al braccio della Commissione per l’ispezione disciplinare.


Indipendentisti e moderati pro-democrazia, cristiani ed esponenti del mondo degli affari,colletti bianchi e operai si sono schierati contro Lam. Le proteste si sono intensificate durante l’estate. Gli organizzatori hanno stimato due milioni di persone per strada il 16 giugno. Gli episodi di violenza si sono poi moltiplicati. Non solo tra poliziotti e manifestanti pro-democrazia, ma anche tra questi ultimi e i sostenitori di Pechino. Un agente della polizia locale ha sparato a un attivista da distanza ravvicinata il 1° ottobre. Intanto, nella capitale si svolgevano i festeggiamenti per il 70° anniversario della fondazione della Repubblica Popolare. La già forte identità hongkonghese si è rafforzata 2, ma la protesta resta priva di capi e di una strategia di lungo periodo.


La cancellazione del progetto di legge ha indotto la componente più moderata a cessare le proteste. Le dimensioni delle manifestazioni si sono ridotte, ma gli scontri tra le autorità e le frange più giovani e radicali sono proseguiti. Queste ultime chiedono le dimissioni della governatrice, un’inchiesta indipendente sull’operato della polizia, l’amnistia per gli arrestati, il ritiro del termine «rivoltosi» per definire i manifestanti e, soprattutto, il suffragio universale per la selezione del capo dell’esecutivo con l’aggiunta, il 2 ottobre, della richiesta di dissolvere la polizia locale.


Joshua Wong, giovane leader di Demosisto (partito hongkonghese per l’autodeterminazione),ha cercato di catalizzare l’attenzione internazionale recandosi in Germania e negli Usa: una manna per Washington, ansiosa di alimentare l’instabilità interna all’Impero del Centro; un affronto per Pechino, già convinta dell’interferenza a stelle e strisce nelle questioni hongkonghesi.


La democrazia «genuina» (leggi: occidentale) pare per il Porto profumato una chimera. La Basic Law, la mini-costituzione regionale basata sullo Stato di diritto, prevede la preservazione del sistema politico ed economico d’impronta britannica fino al 2047. Data entro la quale il documento stabilisce l’indipendenza dell’esecutivo, del legislativo e del giudiziario. Inoltre, fissa come «obiettivo ultimo» il suffragio universale per l’elezione del capo del governo regionale.


Tale assetto, frutto dell’intenso negoziato sino-britannico, ha permesso a Pechino di assicurarsi nel corso degli anni il consenso dell’élite economica hongkonghese, dei magnati locali, dei liberi professionisti, dei proprietari terrieri e delle categorie lavorative che beneficiano del mantenimento dello status quo. Infatti, l’articolato sistema elettorale assegna a questi settori un ruolo decisivo nel processo decisionale e produce un esecutivo fedele a Pechino. Il governo cinese non intende permettere a Hong Kong di diventare «genuinamente» democratica. Un simile cambiamento potrebbe indurre gli abitanti della Cina continentale a pretendere lo stesso trattamento. Alimentando così l’instabilità interna e mettendo in discussione la sovranità del Partito comunista.


Hong Kong dipende dalla Repubblica Popolare più di quanto vorrebbe ammettere. La regione non dispone di grandi risorse naturali e si affida alla Cina continentale per l’approvvigionamento di acqua potabile, suini, bovini e farina. Inoltre, un quarto dell’energia elettrica consumata dalla Hksar proviene dalla centrale nucleare di Daya, nel Guangdong.


L’economia della Hksar rappresenta oggi solo il 2,7% di quella della Rpc, mentre nel 1997 era pari al 18,4%. Hong Kong è ancora il settimo scalo marittimo al mondo per gestione di container, ma altri approdi cinesi lo precedono: Shanghai (primo), Shenzhen (terzo), Ningbo (quarto) e Guangzhou (quinto) 3. A ciò si aggiunga che negli ultimi anni il tasso di crescita del pil di Hong Kong è rallentato.


Nel 2018 è stato pari al 3% e alla fine di quest’anno potrebbe oscillare tra l’1 e lo 0%. Inoltre, nella Hksar vivono 7,5 milioni di persone. Si tratta di uno degli spazi urbani più densamente popolati del pianeta: quasi 7 mila persone per chilometro quadrato 4. I prezzi delle case sono esorbitanti e il mercato immobiliare è a rischio bolla. Questi dati economici non sono alla base delle recenti proteste, ma incidono sul benessere della popolazione. Non a caso il governo regionale ha annunciato ad agosto un pacchetto di misure di sostegno da 2,44 miliardi di dollari.


Hong Kong è anche strettamente sorvegliata dalla guarnigione dell’Esercito popolare di liberazione (Epl), stipata accanto al complesso governativo della Regione. Dei diplomatici contattati da Reuters affermano che, durante la rotazione annuale delle truppe qui stanziate svoltasi a fine agosto, il numero di soldati potrebbe essere raddoppiato rispetto alle 6 mila unità precedentemente stimate 5.  La Hksar si trova al centro del Comando del Teatro meridionale dell’Epl, incaricato di presidiare i confini con Vietnam e Myanmar, pattugliare il conteso Mar Cinese Meridionale e sostenere il Teatro orientale in caso di conflitto nello Stretto di Taiwan. Per l’esperto di geopolitica cinese Zhang Wenmu, la conquista di Formosa consentirebbe di metterla in connessione con l’isola di Hainan e il delta del Fiume delle Perle per creare uno «scudo» strategico a protezione della ricca costa meridionale 6.


Tali dinamiche consentono a Pechino di forzare il principio «un paese, due sistemi» fino a un certo punto. Nei primi otto mesi del 2019, Hong Kong ha rappresentato il 70% degli investimenti diretti esteri nella Cina continentale. Evidentemente, i paesi stranieri considerano ancora il Porto Profumato il miglior canale per condurre operazioni economiche nella Repubblica Popolare. L’eccessiva ingerenza di Pechino potrebbe mettere a rischio la stabilità regionale e la fiducia degli investitori stranieri.


Le esercitazioni antiterrorismo della Polizia armata del Popolo (Pap, la polizia paramilitare) nella vicina Shenzhen sono servite a dimostrare che l’intervento del­la Pap o dell’Epl non sono esclusi qualora le forze di polizia perdano il controllo della regione. Tuttavia, Pechino considera l’uso della forza l’ultima opzione. Questa infatti danneggerebbe la sua immagine all’estero, potrebbe innescare ritorsioni da parte degli Stati Uniti e soprattutto precluderebbe la già remota possibilità di unificare Taiwan alla Cina continentale in maniera pacifica.


La strategia di Pechino per preservare la stabilità della regione, spegnerne le aspirazioni democratiche e rendere appetibile il suo modello ai taiwanesi prevede due operazioni. La prima consiste nella graduale integrazione di Hong Kong nella cosiddetta Area della Grande Baia allargata, comprendente anche Macao e nove città del Guangdong (Guangzhou, Shenzhen, Zhuhai, Dongguan, Huizhou, Zhongshan, Foshan, Zhaoqing e Jiangmen). La Grande Baia dovrebbe diventare un enorme agglomerato urbano in cui far fluire capitale umano, risorse e servizi. Si stima che la produzione nel 2030 sarà pari a 3,6 miliardi dollari. Shenzhen dovrebbe diventare «un’area pilota di dimostrazione del socialismo con caratteristiche cinesi», in cui promuovere l’internazionalizzazione dello yuan e la connessione finanziaria della Grande Baia. Pechino ha reso noto il piano di sviluppo della città durante le proteste hongkonghesi, probabilmente per mettere sotto pressione la sua élite economica. Negli ultimi anni, l’integrazione logistica è stata incrementata tramite il ponte lungo 55 chilometri tra le due ex colonie e Zhuhai e dalla linea ferroviaria ad alta velocità Guangzhou-Shenzhen-Hong Kong. Nel 2020, Airbus lancerà anche un servizio di trasporto via elicottero prenotabile tramite smartphone che coprirà l’intera area.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


La seconda operazione promossa dal governo centrale consiste nel garantire a Hong Kong il ruolo di «superconnettore» tra Repubblica Popolare e resto del mondo lungo le nuove vie della seta, sommo progetto geopolitico di Xi. In particolare, la metropoli potrebbe restare uno snodo legale internazionale e una piattaforma comprensiva per servizi, finanziamenti, investimenti e risoluzioni delle dispute. In tale ambito, rileva il lancio del bond connect, che dal 2017 consente agli acquirenti stranieri di investire in bond cinesi usando Hong Kong come tramite. Nello stesso anno, la Hksar è entrata a far parte dell’Asia Infrastructure Investment Bank (Aiib), organizzazione basata a Pechino ideata per investire nelle infrastrutture in Oriente.


L’autonomia del Porto Profumato si assottiglia. Del resto, prima il Regno Unito in epoca coloniale e poi la Repubblica Popolare non hanno mai voluto permettergli di plasmare davvero il proprio destino. Ciò infatti non è mai accaduto nella sua lunga storia.


Da villaggio di pescatori a colonia britannica

Tra la dinastia Qin (221-206 a.C) e quella Ming (1368-1644), Hong Kong è abitata in maniera sparsa da pescatori e agricoltori e le sue acque sono solcate dai pirati. L’isola è allora irrilevante nelle strategie cinesi. Con l’avvento dei Qing, il flusso migratorio dal Nord dell’Impero del Centro aumenta e i pescherecci approdano di frequente nel Porto Profumato. Nel XVI secolo, i Ming concedono al Portogallo lo sviluppo di un avamposto a Macao. In breve tempo, la penisola diventa punto d’approdo per i flussi commerciali europei e per i missionari cristiani, come il gesuita Matteo Ricci.


Nei due secoli successivi, i britannici espandono le proprie reti commerciali sul delta del Fiume delle Perle e occupano Hong Kong nel 1841 durante la prima guerra dell’Oppio (1839-42). Lo scontro bellico dà inizio a quello che gli storici cinesi ricordano come il «secolo delle umiliazioni» (terminato nel 1949 con la fondazione della Repubblica Popolare). La cessione di Hong Kong «in maniera perpetua» alla Gran Bretagna è ufficializzata con il trattato di Nanchino (1842), il primo dei cosiddetti «accordi ineguali» imposti dalle potenze straniere al tramontante impero Qing. Con i trattati di Pechino (1860 e 1898) i britannici ottengono la cessione permanente di Kowloon e dell’isola di Stonecutters e poi, per una durata di 99 anni, dei cosiddetti Nuovi Territori e di circa 230 isole periferiche. L’obiettivo di Londra è servirsi dell’area per tutelare militarmente e diplomaticamente i propri interessi commerciali in Cina.


Nei primi anni da colonia, Hong Kong risente delle dispute e dei conflitti in corso nel resto dell’Impero del Centro e diventa rifugio per i cinesi in diverse occasioni: la ribellione Taiping (1851-64), la fine della dinastia Qing, la fondazione della Repubblica da parte di Sun Yat-sen (1912) e la seconda guerra sino-giapponese. A Hong Kong, Sun entra in contatto con la cultura occidentale, la fede cristiana e prende la licenza da dottore presso il College di medicina per cinesi, precursore dell’omologa facoltà dell’Università della regione.


La colonia britannica stenta a diventare un porto di riferimento poiché soffre la competizione degli altri scali marittimi cinesi, aperti forzosamente agli occidentali con il trattato di Nanchino. Le cose cambiano nella seconda metà del XIX secolo, quando nella colonia si rafforza il flusso di mercanti e benestanti cinesi fuggiti durante la rivolta dei Taiping (1851-64). Tale dinamica e la formazione di diaspore dell’Impero del Centro all’estero (Usa inclusi) accrescono la comunità cinese a Hong Kong e attirano nuovi investimenti occidentali. Hong Kong diventa uno snodo commerciale di rilievo tra il Sud-Est asiatico e le Americhe. La colonia britannica si profila multietnica. La convivenza tra inglesi, cinesi, indiani, portoghesi e americani non è agevole. A causa anche del disdegno occidentale verso la cultura dell’Impero del Centro. I britannici usano Hong Kong come punto di accesso al territorio cinese e la pongono in connessione con l’India tramite il regolare commercio di cotone, oppio e trasporto passeggeri. Fino al 1860 la rupia è comunemente usata nella colonia ed è impiegata anche per remunerare le truppe britanniche qui stanziate 7. La creazione delle prime scuole private cinesi e di quelle gestite dai missionari cristiani favorisce gradualmente l’apprendimento della lingua inglese e la diffusione della cultura britannica.


La struttura amministrativa prevede originariamente un governatore scelto dalla Corona britannica, un Consiglio esecutivo e uno legislativo. È l’embrione da cui prenderà vita l’assetto dell’odierna Regione ad amministrazione speciale. Fino al 1880, il terzo ente è quasi completamente privo di rappresentanti cinesi. Il governatore dispone delle più grandi forze di polizia dell’impero britannico e di un’enorme presenza militare, che impone il coprifuoco e un programma di registrazione alla popolazione locale. Gli hongkonghesi assorbono il concetto di Stato di diritto, ma non godono di un sistema politico democratico.


All’inizio del XX secolo, la borghesia cinese si espande e controlla la maggior parte del settore immobiliare hongkonghese. Nel Porto Profumato, l’entusiasmo per il crollo dei Qing dura poco. L’instabilità della Repubblica di Cina e nello specifico della vicina Canton mette in pericolo il benessere della colonia e fa svanire presto l’entusiasmo per la rivoluzione condotta da Sun Yat-sen.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


Hong Kong non è coinvolta direttamente nella prima guerra mondiale, ma le celebrazioni per la vittoria britannica nel 1919 celano il malumore della comunità locale.


Gli imprenditori cantonesi fuggiti nella colonia sono il motore del boom industriale degli anni Trenta. La richiesta di maggiore voce in capitolo da parte dei lavoratori genera diversi scioperi. Durante la seconda guerra sino-giapponese, l’embargo nipponico su Shanghai e gli altri porti cinesi direziona commercio e rifugiati verso Hong Kong. La colonia diventa anche il punto di accesso delle risorse occidentali a supporto della Cina contro gli invasori nipponici. Ciò permette ai nazionalisti e ai comunisti di penetrare nel Porto Profumato. Fino a quando nel 1941 il Giappone bombarda e poi occupa la colonia, che dovrà evacuare alla fine della guerra. I giapponesi rimuovono le statue britanniche, cambiano i nomi alle strade e sostituiscono il calendario gregoriano con il proprio, cadenzato dai cicli imperiali.


Dopo, la fine della seconda guerra mondiale i britannici riprendono il controllo di Hong Kong. Chiang Kai-shek e i nazionalisti non sono in grado di strappargliela. In più, hanno bisogno dell’appoggio di Londra e degli Usa per ostacolare l’ascesa dei comunisti guidati da Mao Zedong. Nel 1949, il «grande timoniere» fonda sulla Cina continentale la Repubblica Popolare e costringe Chiang a rifugiarsi a Taiwan. Negli anni Cinquanta, le ostilità tra Pechino e Taipei minacciano la stabilità di Hong Kong in più di un’occasione.


Nel 1967, una disputa sulle ore di lavoro si trasforma in vera e propria rivolta da parte dei comunisti locali contro il governo coloniale. Gli hongkonghesi fanno valere i loro diritti. I tumulti, durati sei mesi, e la retorica antimperialista nella Rpc inducono il governo britannico a investire nel miglioramento delle condizioni sociali degli hongkonghesi. La colonia vanta a quel punto una forte rete commerciale, un sistema bancario internazionale, servizi pubblici efficienti e uno sviluppato mercato immobiliare.


Carta di Francesca Canali

Carta di Francesca Canali


Negli anni Settanta, Hong Kong funge da punto di osservazione della Repubblica Popolare verso occidente e da centro d’ingresso (anche clandestino) per i beni che il paese non può produrre e per le rimesse dei cinesi all’estero. La combinazione tra crescita economica, stretti rapporti con la Cina, presenza britannica e imminente restituzione a Pechino alimentano il senso d’identità hongkonghese.


Nel 1972, la Repubblica Popolare deposita una dichiarazione in cui rivendica la sovranità su Hong Kong e Macao presso il Comitato per la decolonizzazione delle Nazioni Unite. È il primo provvedimento ufficiale per porre rimedio alle umiliazioni inflitte dagli occidentali. Sette anni dopo, la diplomazia britannica giunge nel Porto Profumato e il «piccolo timoniere» Deng Xiaoping propone l’adozione della formula «un paese, due sistemi». Obiettivo: riprendere Hong Kong garantendogli un sistema politico ed economico autonomo. Tale assetto collima con il lancio della politica di riforma e apertura da parte di Deng nel 1978. Il boom economico cinese inizia proprio sul delta del Fiume delle Perle. Secondo la narrazione recente di Pechino, sarebbe stato Xi Zhongxun (padre dell’attuale presidente cinese, in precedenza epurato da Mao) a suggerire a Deng lo sviluppo della Zona economica speciale di Shenzhen. Lo scopo è stimolare la crescita e scoraggiare la fuga dei cinesi a Hong Kong. Da quando Xi figlio è diventato il «nucleo» della leadership cinese, i media del regime menzionano spesso il suo genitore, al fine di rimarcare il merito della famiglia nello sviluppo economico nazionale.


Pechino vuole che la restituzione di Hong Kong avvenga in maniera pacifica, per non compromettere la stabilità del centro finanziario e soprattutto servirsi in futuro del modello hongkonghese per riunire Taiwan alla Cina continentale. La premier britannica Margaret Thatcher vorrebbe restituire nel 1997 i Nuovi Territori e preservare il controllo britannico su Hong Kong e Kowloon in cambio del riconoscimento della sovranità cinese sulle due aree. Deng respinge questa proposta e nel 1984 i due leader firmano la dichiarazione congiunta, che definisce la consegna di tutti e tre i territori. Londra vuole condurre una transizione dignitosa ed evitare che appaia tradimento agli occhi degli hongkonghesi. Pechino invece cerca una soluzione per riprendere gradualmente il controllo del Porto Profumato, senza destabilizzarlo.


Deng propone Il principio «un paese, due sistemi» come compromesso. I britannici ottengono il mantenimento del sistema liberal-capitalistico per almeno cinquant’anni dalla restituzione. Il documento prevede anche che il «capo dell’esecutivo sarà nominato dal governo centrale del popolo sulla base delle elezioni o delle consultazioni tenute localmente». È la base per la possibile introduzione del suffragio universale. Lo stesso anno, si tengono le prime elezioni indirette di dodici seggi in collegi elettorali funzionali (cioè a base corporativa) e di altrettanti in collegi distrettuali. I secondi rappresentano solo il 40% del Consiglio legislativo. È il primo cambiamento istituzionale di rilievo dal 1896, quando due membri non ufficiali sono aggiunti al Consiglio esecutivo. La struttura del governo coloniale resta di fatto invariata.


L’anno successivo, il governo cinese inizia la stesura della Basic Law. La repressione di Piazza Tiananmen a Pechino nel 1989 innesca la solidarietà degli hongkonghesi, che si riuniscono nel celebre Victoria Park. Gli hongkonghesi temono che dopo il 1997 una simile tragedia possa verificarsi anche in casa loro. Ha luogo la prima di una lunga sequenza di manifestazioni contro il governo centrale.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


Nel 1992, Chris Patten diventa governatore di Hong Kong. Il suo compito è negoziare con Pechino i dettagli del sistema politico della futura regione cinese. Nella Repubblica Popolare viene soprannominato «l’ultimo imperialista». Il pacchetto di riforme proposte da Patten prevede misure democratiche destinate ad ampliare il grado di partecipazione della popolazione al sistema elettorale che determina il potere politico. Malgrado l’opposizione delle lobby hongkonghesi e di Pechino, nel 1994 il Consiglio legislativo approva le riforme di Patten. Alle elezioni hongkonghesi, emerge il divario tra il fronte affaristico e filocinese e quello localista, non necessariamente democratico.


Pechino a quel punto costituisce un comitato preparatorio ad hoc, che a sua volta ne crea un altro incaricato di selezionare il capo dell’esecutivo e sostituire il Consiglio legislativo creato da Patten con uno provvisorio. Quest’ultimo rappresenta i principali settori economici della regione, l’ambito religioso e quello dei servizi sociali. L’organo amplierà l’elettorato, ma rovescerà la maggior parte delle riforme volute dal governatore. Il 1° luglio 1996, Tung Chee-hwa è eletto primo chief executivedi Hong Kong e trascorre i mesi successivi a rassicurare il mondo (a cominciare dagli Usa) sul fatto che preserverà le prerogative del Porto Profumato. Soprattutto quelle economiche.


1997: Hong Kong è Cina

A mezzanotte del 1° luglio 1997, Londra restituisce ufficialmente Hong Kong alla Repubblica Popolare e le unità dell’Epl prendono possesso della caserma al posto delle Forze armate britanniche. Una bauhinia (un tipo di fiore) bianca stilizzata su sfondo rosso diventa la bandiera della Regione. Sintesi grafica del principio «un paese, due sistemi». Su ciascuno dei cinque petali appare una stella. Quattro per le classi sociali (operai, contadini, piccola borghesia e capitalisti) e una per il Partito comunista, come sulla bandiera della Rpc.


Dopo la restituzione, Pechino pensa di poter controllare Hong Kong usando la carota economica e il bastone politico. Alla fine degli anni Novanta, la regione è seconda al mondo per pil pro capite dopo il Giappone, settima per quantità di riserve valutarie straniere e terza per esportazioni di indumenti.


Da qui in poi, Pechino si serve di quattro carte per controllare Hong Kong: il legame instaurato con l’élite economica locale; il meccanismo dei collegi elettorali funzionali e del comitato elettivo; il potere del comitato permanente del Congresso nazionale del Partito in qualità di unico interprete della Basic Law; la radicata presenza (ufficiosa ma non ufficiale) del Partito comunista cinese nella regione.


Il Consiglio legislativo è composto da 60 membri, di cui 30 eletti in collegi a base distrettuale e 30 in quelli formati in base all’occupazione professionale. Il sistema fornisce di fatto un potere addizionale a determinate categorie lavorative e prevede il diritto di voto anche per alcuni tipi di persone giuridiche. Valorizzando così il rapporto tra il mondo degli affari locale e Pechino. I membri dell’organo diventano 70 nel 2010, divisi equamente tra collegi funzionali e geografici. Fin quando le élite economiche sono vicine a Pechino e prevalgono nei primi, la fazione pro-democratica non può riformare la Basic Law come vuole. Dal 1998 al 2012, il Comitato elettivo, incaricato di scegliere il capo dell’esecutivo, è composto da 800 membri, per tre quarti scelti da soggetti appartenenti a settori economici (industria, commercio, finanza, professionisti di vario genere) e sociali (lavoro, servizi sociali, religione). La porzione restante è votata da membri del Consiglio legislativo, dei Consigli distrettuali di circoscrizioni territoriali minori e dai rappresentanti di Hong Kong a Pechino.


L’articolo 45 della Basic Law prevede come «obiettivo finale l’elezione a suffragio universale del capo del governo locale tra candidati scelti da un comitato ampiamente rappresentativo, in accordo con le procedure democratiche». Solo nell’allegato 1 si afferma che qualunque emendamento al sistema elettorale potrà essere adottato dopo il 2007, se approvato da due terzi del parlamento locale e ratificato dalla Repubblica Popolare.


Il governo cinese vede nel suffragio universale solo un procedimento per stabilire il metodo di selezione dei candidati. Non un modo per assicurare alla regione un sistema democratico in stile occidentale 8. Ciò infatti potrebbe alimentare nella Cina continentale la richiesta di maggiore libertà, che a sua volta potrebbe mettere a rischio la stabilità del paese e quindi la sovranità del Partito comunista cinese (Pcc).


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

Su questi argomenti si confrontano per anni le due fazioni principali del sistema multipartitico hongkonghese: quella pro-democrazia e quella pro-Pechino. I loro principali rappresentanti sono rispettivamente il Democratic Party e la Democratic Alliance for the Betterment and Progress of Hong Kong (Dab).


Pechino opera a Hong Kong tramite l’Ufficio di collegamento del governo centrale del popolo e l’ufficio del Consiglio di Stato per le questioni di Hong Kong e Macao. Il primo gestisce il rapporto tra potere centrale e locale, il rapporto con la guarnigione dell’Epl e facilita i rapporti con le aziende della Repubblica Popolare, gli scambi culturali ed economici. Il secondo organo promuove il rispetto della Basic Law. Il Partito comunista non è ufficialmente presente nella regione. La sua candidatura sarebbe controproducente, poiché lo porrebbe allo stesso livello delle altre forze politiche presenti sul territorio. In maniera ufficiosa, nella regione sono attivi il dipartimento Propaganda e quello del Fronte unito, che diffondono un’immagine positiva del Partito e intrattengono rapporti con la comunità economica e culturale della regione 9.


Nel 2003 Tung, rieletto facilmente l’anno prima, propone di applicare la legge «antisovversione» per impedire ai cittadini di manifestare. Gli hongkonghesi, scossi dalla diffusione della Sars (Sindrome respiratoria acuta grave), scendono in piazza contro la riforma, che alla fine viene ritirata. Si crea un precedente. Per la prima volta la popolazione fa cambiare idea a Pechino.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


Negli anni successivi, si intensifica il dibattito sull’introduzione delle elezioni a suffragio universale del chief executive. Nel 2004 la fazione pro-democrazia ottiene il 60% dei seggi determinati su base geografica, ma solo il 23% di quelli a base professionale. In totale, i partiti pro-Pechino ottengono la maggioranza dei seggi e così sfuma la prima occasione utile di riforma del sistema elettorale. Tung tuttavia dimostra di non essere in grado di gestire i partiti pro-democrazia e si dimette. Lo sostituisce Donald Tsang, che cerca di compiacere questi ultimi. Prima tenta senza successo di espandere il Consiglio legislativo. Poi cerca di sviluppare un percorso per l’introduzione del suffragio universale.


Nel 2007, il Congresso nazionale del popolo della Repubblica Popolare stabilisce che le elezioni a suffragio universale del chief executive si potranno tenere nel 2017, anziché nel 2012. Secondo la proposta di riforma, la popolazione potrà scegliere il capo dell’esecutivo in una rosa di candidati definita da un comitato incaricato di selezionarli. Il problema è che per struttura l’organo è analogo a quello elettivo. Di fatto, Pechino influenza ancora il processo politico. Nel 2012 i seggi del Consiglio legislativo diventano 1.200, lasciando intatta la proporzione e con essa il peso dell’élite economica. Quell’anno, Leung Chun-ying diventa capo del governo locale.


Nel 2014, il Congresso nazionale del popolo della Repubblica Popolare conferma il piano di riforma, ma larga parte degli hongkonghesi ritiene il processo avviato non genuinamente democratico. Il movimento Occupy Central with love and peace dà inizio alla cosiddetta rivoluzione degli ombrelli. I manifestanti bloccano le strade dell’isola di Hong Kong. L’anno dopo il Consiglio esecutivo respinge il progetto di riforma. Nei tre anni successivi, il malcontento locale aumenta. Non solo per il mancato ottenimento del suffragio universale. Contano anche il rallentamento del tasso di crescita dell’economia, l’aumento dei prezzi del mercato immobiliare e la sparizione e la detenzione nella Cina continentale di alcuni dirigenti editoriali e librai hongkonghesi, oltre che del milionario Xiao Jianhua.


Dalla rivoluzione degli ombrelli del 2014 emergono partiti più radicali, come Youngspiration,Hong Kong Indigenous (entrambi localisti) e Demosisto. Quest’ultimo ha tra i suoi rappresentanti Joshua Wong, che negli anni seguenti visita Taiwan e gli Usa e in diverse occasioni viene fermato dalle autorità della Hksar. Ora si pone a simbolo della rivolta hongkonghese, ma non ne è ancora la guida.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


Ammesso e non concesso che Hong Kong sia mai stata immaginata come laboratorio democratico, nell’arco di vent’anni il sistema politico della Rpc non ne trae ispirazione. Anzi opta per la direzione opposta. Xi Jinping accentra il potere decisionale nelle sue mani e guida saldamente lo Stato, il Partito e le Forze armate.


Il 1° luglio 2017, la partecipazione di Xi alle celebrazioni per il ventennale dalla restituzione di Hong Kong e l’approdo della portaerei Liaoning nel Porto Profumato indicano che la regione è unica ma non speciale come in passato e che il suo coinvolgimento nelle attività militari nazionali non è più solo simbolico. Yuan Yuabai e Wei Lian (rispettivamente comandante e commissario politico del Teatro del Comando meridionale) scrivono in un articolo che la guarnigione hongkonghese è anche un presidio politico 10. Il portavoce del ministro degli Esteri cinese Lu Kang rincara la dose e afferma che la dichiarazione congiunta sino-britannica non ha ormai alcun significato pratico.


Durante la cerimonia, Carrie Lam diventa la prima donna a guidare il governo locale a seguito della vittoria elettorale di marzo. Soprattutto, Xi afferma che «qualunque tentativo di mettere in pericolo la sovranità nazionale e la sicurezza, di sfidare il governo centrale e l’autorità della Basic Law e di usare Hong Kong per attuare operazioni di infiltrazione e sabotaggio contro la Cina continentale è un atto che supera la linea rossa ed è assolutamente inammissibile» 11. Tradotto: nessuno provi a separare il Porto Profumato dalla Repubblica Popolare.


Verso il 2047

Difficilmente nuove manifestazioni intaccheranno l’influenza di Pechino sulla regione. Il radicalizzarsi delle proteste legittimerà l’ulteriore uso della forza. Per ora, al governo centrale conviene preservare lo status quo, lasciare alle autorità locali il compito di contenere le violenze e magari offrire piccole concessioni alla popolazione. In attesa che la Grande Baia avvolga Hong Kong.


A meno di inverosimili stravolgimenti in senso democratico del sistema politico cinese, nel medio periodo il grado di autonomia concesso a Hong Kong dipenderà dall’andamento di tre dossier: la crescita economica della Repubblica Popolare, l’unificazione con Taiwan e il duello commerciale, tecnologico e militare con gli Stati Uniti. Soprattutto, qualora Pechino non riuscisse a riprendersi Formosa pacificamente, il principio «un paese, due sistemi» perderebbe la sua valenza strategica. A quel punto, Hong Kong non sarebbe più speciale.


Note:

1. Kowloon in cantonese significa «nove draghi» e allude alle otto montagne circostanti e all’imperatore Bing della dinastia Song.

2. Secondo un sondaggio condotto dall’Università di Hong Kong tra il 17 e il 20 giugno 2019, su 1.015 intervistati, il 53% si è definito «hongkonghese», l’11% «cinese», il 12% «cinese di Hong Kong» e il 23% «hongkonghese in Cina», bit.ly/2KM6QYq

3. «Top 50 world container ports», World Shipping Council, ultima consultazione il 25/9/2019.

4. Statistiche pubblicate su www.gov.hk, (28/5/2019)

5. Cfr. G. Torode, J. Pomfret, D. Lague, «China quietly doubles troop levels in Hong Kong, envoys say», Reuters, 30/9/2019.

6. Cfr. Zhang Wenmu, «Shixian Taiwan yu dalu de tongyi, yue lai yue poqie» («Realizzare l’unificazione di Taiwan e della terraferma è sempre più urgente»), Cwzg.cn, 19/1/2016.

7. Cfr. J.M. Carroll, A concise history of Hong Kong, Lanham, Maryland 2007, Rowman & Littlefield Publishers, p. 3.

8. Cfr. Yan Sheng, «Achieving democracy with HK characteristics», China Daily (Hk edition), 4/6/2014.

9. C. Loh, Underground Front: The Chinese Communist Party in Hong Kong, Hong Kong 2010, Hong Kong University Press.

10. Yuan Yubai, Wei Lian, «Duanzao zhongcheng zhi shi weiwu zhi shi wenming zhi shi jianjue weihu Xianggang changqi fanrong wending» («Forgiare una divisione fedele, possente e civile. Salvaguardare risolutamente la prosperità e la stabilità a lungo termine di Hong Kong»), Qiushi, 15/6/2017.

11. «Xi draws “red line” for handling mainland-HK relations», Xinhua, 1/7/2019.