TAIPEI, LA CAPITALE DI TAIWAN
limes online — 1° agosto 2019
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A CHI SERVE TAIWAN
Pubblicato in: GERARCHIA DELLE ONDE – n°7 – 2019
FESTE A TAIPEI, FORSE L’ULTIMO DELL’ANNO
Carta di Laura Canali
VISTA AEREA DI TAIPEI
LE TWIN TOWERS DI TAIPEI
LE TWIN TOWERS DI TAIPEI
UNA FOTO DI TAIPEI NEL 2019
L’isola che Pechino considera ribelle è la massima area di frizione fra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese. Lo status quo non durerà in eterno. In caso di guerra, i taiwanesi non avrebbero scampo. Geografia e storia dello stretto e dei suoi arcipelaghi.
di
1. Qualche commentatore ha voluto leggere nel discorso di Xi Jinping del 2 gennaio scorso in occasione della commemorazione del 40° anniversario del Messaggio ai compatrioti di Taiwan i segnali preoccupanti di una svolta di Pechino nei rapporti con quella che considera sua «provincia ribelle» 2. Il leader cinese avrebbe dichiarato la volontà della Repubblica Popolare Cinese (Rpc) di sottomettere la Repubblica di Cina (nome ufficiale anche se negletto di Taiwan), imporle il modello «un paese due sistemi», aggirarne il governo e dialogare direttamente con i partiti taiwanesi, minacciare l’isola con la forza, mettere a repentaglio la stabilità regionale. La Repubblica Popolare Cinese farebbe leva sulla propria potenzialità globale per minare la democrazia a Taipei e alla fine annettere l’isola.
Taiwan sarebbe il banco di prova dello sharp power cinese da applicare a molti altri paesi seminando divisioni all’interno, corrodendone il sistema democratico e minando la fiducia del pubblico nel governo. Peccato che questa vulgata sulla Cina tenga più conto dell’ideologia che dei fatti e che prescinda da alcuni parametri che invece sono fondamentali nella vicenda di Taiwan: geografia, storia, politica e guerra.
2. Se «la geografia è destino», quella di Taiwan è fato ineluttabile: appartenere alla «frattaglia» del continente asiatico. Geologicamente fa parte della cintura di isole, isolotti e scogli affioranti formatisi come rimasugli dello scontro tra la placca oceanica del Pacifico e la piattaforma continentale asiatica. Scontro ancora in atto che ha provocato l’innalzamento del continente asiatico e la formazione, fra l’altro, della catena montuosa dell’Himalaya. Sono territori vulcanici, altamente sismici che si frappongono fra il continente e l’Oceano Pacifico creando diversi mari interni. In Estremo Oriente la condizione di Taiwan è condivisa da isole e arcipelaghi più famosi, come le Curili, le isole del Giappone, Hong Kong, Macao e Hainan e da altre meno conosciute come le isole Kyūshū, Senkaku, Spratly. Dal punto di vista antropologico, sulle isole maggiori si sono formate comunità nel corso delle migrazioni e dei trasferimenti preistorici dal continente e verso il continente.
Il fato di queste popolazioni autoctone è stato l’isolamento che ne ha cristallizzato lo sviluppo. E il destino successivo è stato l’asservimento a comunità e civiltà più evolute, assetate di risorse e in grado di superare bracci di mare sempre più ampi e perfino gli oceani. Questo è accaduto per gli ainu delle Curili e del Giappone, soggiogati da altre genti provenienti dal continente che formeranno i nuclei giapponesi, per gli aborigeni australiani e per quelli di Taiwan ormai ridotti a reperti antropologici. A prescindere dalla popolazione, la capacità di superare i mari, di portare la guerra sul mare e di proiettare potenza attraverso il mare ha reso le isole importanti punti di rifornimento e basi di appoggio commerciale e militare. Dal punto di vista geopolitico, le isole sono state considerate dalle potenze continentali come elementi marginali del loro potere e semmai come avamposti per espansioni ulteriori verso altre terre continentali.
In Asia, la Cina non ha mai avuto una visione politico-strategica diversa dalla dimensione continentale. E anche questo era destino: il cuore della Cina è tra i grandi fiumi. Gli spazi immensi da conquistare o da sottrarre ai barbari sono stati solo terrestri. E da tali spazi provenivano i barbari che hanno conquistato e governato la Cina a più riprese e per lunghi periodi. A tali spazi e a causa della nostalgia di tali spazi sono poi tornati i barbari. Anche le fasce costiere erano marginalizzate, ma creavano ricchezza e i popoli costieri, favoriti dalla mobilità sul mare, sviluppavano scambi e commerci con popolazioni diverse acquisendo una capacità di comprensione e duttilità maggiori e abbandonando molti scrupoli e tabù della terra per adottare quelli del mare.
Taiwan è uno degli spazi in cui si spostarono i cinesi della costa meridionale e in particolare le popolazioni di etnia hakka del Fujian che parlavano una lingua simile a quella degli aborigeni. Erano pescatori, commercianti e cacciatori specialmente di cervi. L’isola non era visibile dalla costa, ma era conosciuta dalle leggende e sollecitava le memorie ancestrali, le fantasie e le superstizioni legate a tutto ciò che sta «oltre».
L’isola ha forma ellittica, con asse maggiore di 395 km orientato in senso nord-ovest/sud-est, e minore di 144 km. Con la costa continentale forma uno stretto di ampiezza massima di 180 km e minima, a nord, di circa 120 km. L’estensione del braccio di mare si aggira sui 350 km. Le acque sono poco profonde, mediamente 70 metri con un massimo di 160 metri. Secondo la pubblicazione Limits of Oceans and Seas (terza edizione del 1953, ancora in vigore) curata dalla International Hydrographic Organization (Iho) lo Stretto di Taiwan è inserito nel Mare Cinese Meridionale. Successivamente è stata proposta una bozza della quarta edizione nella quale lo Stretto viene definito «parte del Nord-Pacifico compresa tra il Mare Cinese Orientale e il Mare Cinese Meridionale». La differenza fra le due definizioni non è da poco. Dando enfasi al «Nord-Pacifico» si avalla la tesi per cui non esistono acque «interne», sicché il dominio, la sicurezza e le regole oceaniche prevalgono sui «mediterranei», sulle acque fra le terre. E questo è un motivo per il quale alcuni paesi con interessi oceanici non hanno accettato e ratificato la Convenzione internazionale sul mare, ritardano gli aggiornamenti dell’Iho e si sono fatti regole proprie o adottato quelle che convengono. Gli Stati Uniti sono in testa alla corta lista di questi paesi. Grazie alla potenza militare e a uno stuolo di avvocati e compiacenti alleati minori impongono le proprie regole. Di fatto lo Stretto di Taiwan (già Formosa) è una zona contesa tra Cina e Taiwan ma vincolata agli interessi esclusivi degli Stati Uniti che si estendono al Giappone e altri paesi dell’area.
La costa continentale sullo stretto è orlata da piccoli arcipelaghi. A nord quelli di Matsu (Mazu), Bingdan Dao, Nanzi Dao, Wu Qiuyu e Xiao Qiuyu e Haitan Dao, a sud l’arcipelago Qinmen e al centro dello Stretto meridionale quello di Penghu. Le principali città cinesi della costa sono Fuzhou, Quanzhou e Xiamen, che comprende l’isola maggiore di Amoy ed è una Zona economica speciale molto attiva. Le isole di Qinmen e Matsu dislocate a pochi chilometri dalla costa cinese sono amministrate da Taiwan e costituiscono gli avamposti militari più prossimi alla Cina mentre Penghu (Pescadores), anch’esso fortemente presidiato da Taiwan, si trova a metà dello Stretto. Taiwan ha anche il controllo delle Isole Pratas (Dong-Sha) e delle Isole Taiping, parte del disputato arcipelago del Mar Cinese Meridionale. Essa avanza anche, come Pechino, pretese sulle isole Senkaku/Diaoyu, considerate proprie dal Giappone.
La costa occidentale di Taiwan che si affaccia sullo Stretto è formata da una pianura alluvionale molto fertile e sembra invitare gli sbarchi da ovest, facilitare l’accesso e offrire buone possibilità di stanziamenti. È quasi priva di isole e ha molti facili approdi. In tale fascia, profonda dai 20 ai 50 chilometri, è concentrata la maggior parte delle città dell’isola, quindi la popolazione urbana (che è oltre l’80% di quella totale). Qui si trovano i presidi militari contraerei, antisbarco e di mezzi corazzati. Questa è la zona in cui è prevista l’eventuale invasione. Nonostante la forte difesa è la più vulnerabile agli attacchi aerei, ai bombardamenti missilistici e agli sbarchi dal mare. Il solo fuoco di preparazione a un eventuale sbarco distruggerebbe la quasi totalità delle infrastrutture industriali e produttive di Taiwan. Taiwan si dice pronta ad affrontare l’invasione ma potrebbe essere sorpresa da qualche manovra cinese non prevista o non adeguatamente considerata. Il resto dell’isola è alto-collinare e montagnoso (la cima più alta è Yushan, quasi 4 mila metri) fino alla costa orientale che si affaccia a strapiombo sul Pacifico e il Mare delle Filippine. Questa costa, naturalmente difficile da violare dal mare, è stata ulteriormente rafforzata da sistemi di difesa in caverna.
Abitata da popolazioni autoctone fin dal paleolitico, Taiwan continua a mostrare prove di una sua radice culturale cinese antecedente alla stessa formazione della Cina. Gli aborigeni di Taiwan, almeno sotto il profilo linguistico, non solo appartengono a un gruppo sviluppato sul continente asiatico ma sono gli originatori di un gruppo linguistico chiamato austronesiano che fino a non molti anni fa si riteneva fosse arrivato sull’isola dalla Malaysia e dagli arcipelaghi indonesiani e che invece oggi si ritiene sia stato originato in Cina e da Taiwan si sia espanso verso le altre isole del Pacifico. Le popolazioni native avevano una struttura tribale che le poneva in perenne conflitto reciproco. In generale si potevano distinguere due gruppi variamente frammentati di tribù della pianura e tribù della montagna.
Il territorio di Taiwan copre circa 30 mila kmq e ospita una popolazione di oltre 23 milioni di abitanti. Il 98% del popolo taiwanese è composto da cinesi di etnia han e hakka, il restante 2% è formato da aborigeni. La preponderanza dei cinesi continentali rispetto agli aborigeni è dovuta alla immigrazione cinese sull’isola dai primi anni del Seicento (quando era una colonia olandese al Sud e spagnola al Nord) e ancora di più dal tardo Seicento quando l’isola passò alla Cina. Infine, si deve considerare il massiccio afflusso dalla Cina continentale in seguito alla disfatta nazionalista nel 1949.
3. Se la geografia dimostra come Taiwan sia segnata dalla sua insularità e quindi dalle caratteristiche sociali e strategiche che la caratterizzano, rivela anche che l’isola non è in mezzo al Nulla. È legata alla terraferma e alle sue dinamiche. Più che influenzare la terra continentale dal mare, in realtà è influenzata e vincolata dalla terra e dal mare nella sua dimensione oceanica e quindi dalle forze naturali e umane con potenzialità oceanica.
La storia può aiutare a capire meglio gli effetti di queste influenze.
La costa occidentale più accessibile e prossima alla Cina era stata frequentata dai mercanti, dai pescatori e dai pirati cinesi per qualche millennio. Ma anche durante la fase degli imperi mitici o storici cinesi nessun imperatore si era preoccupato dell’isola e dei suoi abitanti. I portoghesi già arrivati a Macao avvistarono Taiwan nel 1544 e la chiamarono Ilha Formosa. Poco dopo fecero sbarcare un gruppo di marinai che furono decimati dagli indigeni e dalla malaria e non si fecero più vedere. Gli spagnoli stabilirono una base di rifornimento al Nord e gli olandesi della Compagnia delle Indie orientali ne aprirono una al Sud per appoggiare i propri traffici e farsi la guerra a vicenda.
La Compagnia olandese delle Indie orientali amministrò una piccola parte dell’isola e la sua popolazione prevalentemente aborigena fino al 1662, istituendo un sistema fiscale, scuole per insegnare l’alfabeto romanizzato delle lingue aborigene ed evangelizzando. Il primo afflusso di migranti dalla costa del Fujian venne durante il periodo olandese, nel quale commercianti e mercanti dalla costa dell’entroterra cinese cercavano di acquistare licenze di caccia dagli olandesi o di nascondersi nei villaggi aborigeni per sfuggire alle autorità Qing. Le mandrie di migliaia di cervi erano una delle primarie risorse degli aborigeni e presto lo sfruttamento commerciale dei coloni le ridusse drasticamente. Era questo uno dei motivi di risentimento delle tribù locali che si rifiutavano di pagare le tasse ed effettuavano raid nelle piantagioni. Gli olandesi avevano un modo semplice per eliminare i problemi: eliminavano gli indigeni con periodiche spedizioni punitive. L’idea fondamentale era di ripulire le isole dalle popolazioni locali che non si prestavano a lavorare per loro. E di rimpiazzarle con altre già assoggettate o importate come forza lavoro.
Dopo la caduta della dinastia Ming (1644) ad opera dei mancesi della futura dinastia Qing, la parte meridionale fu ancora per qualche anno sotto il controllo dei Ming che tentavano di mantenere, come era successo altre volte nella storia cinese, il controllo sul territorio non ancora occupato dai nuovi padroni. Nel 1661 l’avventuriero Zheng Chenggong (Koxinga) figlio di un avventuriero e pirata giapponese, dichiarandosi lealista nei riguardi della dinastia Ming si rifugiò nel Sud dell’isola ed espulse la piccola base commerciale olandese. Costituì il proprio regno Tungnin con l’intenzione di lanciare la riconquista della Cina per conto del ramo meridionale della vecchia dinastia imperiale. Ma i Qing completarono presto il controllo di tutta la Cina continentale e Koxinga si trovò costretto a operare soltanto nel braccio di mare dello Stretto, di fatto come pirata.
Nel 1875 la dinastia Qing divise l’isola in due prefetture, Nord e Sud, sotto la giurisdizione della provincia del Fujian. Le autorità Qing tentarono di limitare l’immigrazione a Taiwan e impedirono alle famiglie di viaggiarvi per assicurarsi che gli immigranti ritornassero alle loro famiglie. Verso il 1811 c’erano più di due milioni di immigrati cinesi a Taiwan. A causa delle forti lealtà provinciali mantenute da questi immigranti e i dissidi interni alla stessa comunità, il governo Qing riteneva che Taiwan fosse piuttosto difficile da governare. Alla vigilia della prima guerra sino-giapponese circa il 45% dell’isola era amministrato direttamente dai Qing, mentre il rimanente era scarsamente popolato da aborigeni. Su una popolazione intorno ai 2,5 milioni di persone, circa 2,3 milioni erano cinesi han, le restanti erano classificate come afferenti a varie tribù indigene.
Il Giappone aveva cercato di stabilire la sovranità su Taiwan fin dal 1592. Ma le diverse spedizioni erano sempre fallite. Fu solo con la sconfitta della Marina cinese durante la prima guerra sino-giapponese nel 1894–95 che il Giappone con il trattato di Shimonoseki riuscì a ottenere la sovranità perpetua su Taiwan e le isole Penghu.
Nei primi mesi di occupazione i cinesi locali esercitarono una forte resistenza e chiesero aiuto ad altre nazioni fra cui l’impero cinese che rifiutò, mentre altre si dissero disponibili solo se Taiwan fosse stata indipendente. Per questo fu proclamata in fretta una «repubblica» che dichiarò di combattere il nemico fino alla morte, ma che durò dal maggio all’ottobre del 1895 e si concluse con la fuga in Cina di due «presidenti». Nei successivi sette anni (fino al 1902) la resistenza cinese subì 14 mila morti, con tredici sollevazioni armate culminate nella repressione di Tapani (1915). La frustrazione iniziale dei giapponesi, che avrebbero voluto attuare un modello coloniale più moderno di quello europeo, li spinse persino a valutare l’opzione di vendere l’isola ai francesi.
Il sistema di integrazione anche politica e lo sviluppo economico portarono comunque a un lungo periodo di stabilità. I taiwanesi collaborarono allo sforzo bellico giapponese. Nella seconda guerra sino-giapponese del 1937 e in quella mondiale combatterono nelle unità giapponesi. In quell’anno i nazionalisti del Kuomintang – partito guidato dal generale Chiang Kai-shek, diventato presidente della Repubblica di Cina – e i comunisti di Mao Zedong fecero l’esperimento del fronte unito contro il regime di occupazione giapponese in Manciuria e a Shanghai. Chiang non ne era affatto convinto e continuò a preparare la guerra ai comunisti. L’anno prima, quando un «consigliere straniero» che gli chiese come mai non facesse fronte comune con i rivoluzionari per liberare il paese Chiang rispose «i giapponesi sono un male della pelle, i comunisti sono un male del cuore». Nel 1937, per non perdere la faccia e il sostegno interno e quello estero fu costretto a scendere in battaglia tentando una manovra che riteneva senza rischi contro la guarnigione giapponese di Shanghai, che fra l’altro i nipponici non avevano rinforzato. I giapponesi respinsero l’attacco e distrussero le forze migliori dell’esercito nazionalista. Chiang si ritirò nel Sichuan e da quel momento si disinteressò dei giapponesi concentrandosi sulla ricostruzione dell’esercito in funzione anticomunista. I comunisti continuarono la loro lotta nel Nord con l’aiuto dei sovietici ma con scarsi mezzi. E infatti quando i giapponesi furono sconfitti dagli americani (1945) i comunisti e i nazionalisti ripresero la guerra civile.
Chiang Kai-shek che negli anni precedenti aveva avuto il sostegno della Germania nazista, con l’entrata in guerra degli americani contro il Giappone (1941) denunciò tutti i trattati siglati dalla Cina con il Giappone e ricevette consiglieri e soldi dagli americani che lo consideravano il principale referente in Asia. Alla caduta del Giappone (1945) Chiang si trovò a essere riconosciuto come legittimo governante della Cina e quindi continuò a ricevere supporto e fondi dagli americani.
Nessuno ha «liberato» Taiwan. Nel 1945 l’Agenzia delle Nazioni Unite per la ricostruzione e il recupero (Unrra) affidò la ex colonia giapponese di Taiwan all’amministrazione della Repubblica di Cina e al governo militare di Chiang. Dopo due anni di amministrazione i taiwanesi già rimpiangevano il regime giapponese. Nel 1947 iniziarono disordini di piazza contro la corruzione e l’inefficienza cinese. Nonostante che l’amministratore di Taiwan, Chen Yi, negoziasse con i leader della comunità taiwanese, Chiang Kai-shek inviò truppe dalla Cina per reprimere le manifestazioni. Nel giro di pochi giorni furono uccisi tutti i capi della protesta fra cui molti studenti, avvocati e medici. Successivamente iniziò il periodo di «terrore bianco» che portò al massacro di circa 18 mila persone e alla sparizione di altre 10 mila. Da allora Taiwan è stata sottomessa alla legge marziale che è durata fino al 1987. Il fatto non è stato mai negato, ma è diventato argomento tabù per i politici e per gli stessi cittadini.
Nel 1949 i comunisti di Mao conquistarono Pechino e proclamarono la Repubblica Popolare Cinese, dichiarando estinta la Repubblica di Cina e illegittimo il regime militare di Chiang Kai-shek. Il mese successivo i resti dell’esercito nazionalista e tutto l’apparato burocratico iniziarono la ritirata su Taiwan lasciando guarnigioni di retroguardia sulle isole di Hainan, Qinmen e Matsu. Chiang si portò dietro le riserve auree statali, quel che restava di aerei e navi e l’intera collezione antiquaria che gli imperatori cinesi di tutte le dinastie avevano accumulato nei secoli sia nella Città Proibita di Pechino sia nel palazzo imperiale di Nanchino. Sarà interessante vedere se alla eventuale dichiarazione d’indipendenza e conseguente separazione dalla Cina oro e collezione saranno restituiti alla Cina o se occorrerà fare una guerra anche per quelli. Chiang si ritirò con molti dei suoi uomini e le loro famiglie a Taiwan reclamando di essere il legittimo governante per conto della Repubblica di Cina. E dall’isola pretese di riconquistare il resto della Cina. Esattamente come aveva fatto Koxinga, che non a caso è stato poi celebrato come eroe nazionale. Ma, ancora una volta, quello di Chiang era – ed è per i successori – nazionalismo cinese e non taiwanese. Dalla dichiarazione di resa del Giappone all’entrata in vigore del Trattato di pace di San Francisco (1952) lo status giuridico di Taiwan, come gli altri domini appartenuti al Giappone, fu di territorio sotto amministrazione della potenza occupante: gli Stati Uniti.
Taiwan è così diventata la sede del Kuomintang (Kmt), il partito nazionalista, e dei cinesi che non accettarono il regime della Cina Popolare, dei militari e i loro familiari, dei borghesi e dei rappresentanti del ceto capitalista formatosi in Cina con la penetrazione commerciale occidentale. Con quest’ultima parte sociale, molto potente e anche ricca ed esperta, Taiwan si è trasformata in baluardo della politica imperialistica e anticomunista statunitense in Asia. L’inizio del nuovo sviluppo economico di Taiwan sotto il Kmt è dovuto agli ingenti aiuti statunitensi che hanno continuato a fluire nelle casse del governo di Chiang fin dagli esordi della guerra civile. Ergendosi a bastione dell’imperialismo e dell’anticomunismo americano Chiang si assicurò abbastanza denaro e armamenti per impedire alla Cina di eliminarlo una volta per tutte. Inoltre, con gli aiuti americani (soldi, armi e indirizzi politico-economici), con l’efficiente struttura amministrativa ed economica di base creata dai giapponesi e il massiccio inserimento di soldati e forza lavoro, il Kmt riuscì a modernizzare le attività tradizionali, specie nell’ambito dell’agricoltura e della pesca e riavviare lo sviluppo del settore industriale. Tuttavia Chiang, oltre alla furbizia e ai tesori imperiali, si portò dietro una folta schiera di gerarchi del partito e delle Forze armate che si erano già fatti notare in Cina per la mancanza di scrupoli, l’arroganza, l’avidità e la corruzione. Il vero miracolo della capacità di sopravvivere e prosperare di Taiwan non è stato «grazie al» ma «nonostante il» proprio governo. Di fatto Chiang realizzò a Taiwan un’altra colonizzazione cinese condotta in regime di legge marziale e controllo politico del partito unico, il Kmt, di cui era presidente e padrone, per conto e sotto la protezione geopolitica, militare ed economica degli Stati Uniti.
Nei piani di Chiang Kai-shek, la permanenza sull’isola avrebbe dovuto essere «transitoria» in vista del progetto Gloria Nazionale col quale il Kmt avrebbe riconquistato la Cina continentale e abbattuto il governo comunista. Nel 1950 il governo della Repubblica Popolare riassunse il controllo di Hainan e tentò con le poche forze navali e aeree disponibili la definitiva eliminazione dei «ribelli» del Kmt. Il presidente Truman dispose lo schieramento della VII Flotta nello Stretto di Taiwan non tanto e non solo per proteggere il Kmt, ma per difendere il «proprio» territorio in quanto potenza occupante di tutti i territori ancora sotto sovranità giapponese.
La Rpc lanciò nuove offensive durante la prima crisi dello Stretto nel 1954-55, poi nel 1958. Dopo la sconfitta navale subita dal Kmt nel 1965, il progetto Gloria Nazionale fu abbandonato, ma il Kmt non cessò di dichiararsi unico erede legittimo della Repubblica di Cina, quindi unico sovrano sulla Cina intera e perfino sulla Mongolia esterna. Una terza crisi avvenne nel 1995-96 quando la Rpc condusse esercitazioni navali e lanci missilistici al largo di Taiwan. Anche in quell’occasione gli Stati Uniti mossero i propri gruppi navali nello Stretto.
La svolta storica si ebbe nel 1971 col clamoroso riavvicinamento sino-americano e con il voto dell’Onu che tolse a Taiwan il seggio in favore della Repubblica Popolare Cinese. L’Onu offrì alla Cina di Taiwan un secondo seggio, ma non nel Consiglio di Sicurezza. Chiang lo rifiutò e con atteggiamento sprezzante dichiarò che nel cielo non c’era posto per «due soli». La Repubblica di Cina fu perciò espulsa dalle Nazioni Unite e da tutte le agenzie internazionali.
Come si può notare neppure la storia offre buoni motivi per favorire una o l’altra delle parti ma nemmeno per criminalizzare la Cina e beatificare Taiwan. La storia invece conferma che l’atteggiamento degli Stati Uniti non è mai stato imparziale e che ha volutamente evitato di indurre le parti a un accordo o a creare le condizioni perché lo facessero di loro iniziativa.
Di fatto non esiste nessun documento ufficiale di rango giuridico internazionale che assegni Taiwan all’uno o all’altro. Anzi gli unici trattati validi sono quello di Shimonoseki del 1895, che trasferisce la sovranità di Taiwan e Penghu dall’impero cinese al Giappone, e il Trattato di pace di San Francisco del 1951 con il quale il Giappone rinuncia, tra le molte altre cose, alla propria sovranità su tali isole. Tutti gli atti informali o le pretese su Taiwan dal 1895 al 1945, comprese quelle riferite al tempo della Repubblica di Cina (1912-1951) non sono valide perché Taiwan era parte del Giappone de iure e de facto fino al 1945 e de iure dal 1945 al 1952, quando era sotto occupazione statunitense. La funzione di Chiang sull’isola è stata soltanto quella di amministratore dell’Unrra fino al 1948, peraltro sotto stretto controllo americano.
L’atto di resa del 2 settembre 1945 del Giappone sottoscritto dai rappresentanti militari di tutte le parti in conflitto fu un armistizio, una cessazione unilaterale delle ostilità militari che si è perfezionato nei termini giuridici solo con il trattato di pace firmato nel 1951 ed entrato in vigore nel 1952. Pur di non ammettere la vittoria del Partito comunista cinese e la legittimità del suo governo, gli Stati Uniti, che stavano ancora sostenendo militarmente Chiang Kai-shek e avevano fatto in modo che le azioni della Rpc per la riacquisizione delle isole Matsu e Qinmen fallissero, preferirono non invitare nessun cinese alla firma del trattato. Il pretesto fu che né l’uno né l’altro avevano mostrato piena e completa capacità giuridica di sottoscrivere un accordo internazionale legalmente vincolante. La cessione di Taiwan e delle Isole Penghu, nel momento in cui il trattato di San Francisco entrò in vigore, era caduta nel limbo, e il loro status politico rimaneva indeterminato. E, come sempre succede, un trattato di pace lanciò il seme per il conflitto futuro.
Inoltre, l’atto di resa del governatore giapponese di Taiwan nelle mani del rappresentante cinese Chen Yi, il 25 ottobre 1945 in qualità di amministratore dei progetti Unrra, non ha alcun valore di trasferimento della sovranità giapponese a quella della Repubblica di Cina. Di fatto, la guerra civile iniziata nel 1927 tra Partito comunista e Repubblica di Cina, dopo il fallimento del Fronte unico antigiapponese nel 1937, non è mai finita: è solo accantonata, ma può riprendere appena torna comodo.
4. Dove non arrivano la geografia e la storia, può arrivare la politica, sempre che essa intenda veramente superare gli ostacoli geografici e storici. Dopo la morte di Chiang Kai-shek (1975), la presidenza dello Stato venne assunta dal vicepresidente Yen Chia-kan e, nel 1978, dal figlio del generalissimo Chiang Ching-kuo, generale anche lui, riconfermato nel 1984. Nel novembre 1978, il leader cinese Deng Xiaoping, iniziò la politica di apertura e riforme liberalizzando l’economia e integrando gradualmente la Cina nell’economia globale. Uno degli interlocutori che Deng sperava avrebbero contribuito alla crescita economica della Cina era Taiwan. A dicembre dello stesso anno il presidente Usa Jimmy Carter e il premier Hua Guofeng annunciarono che Stati Uniti e Cina avrebbero stabilito formali relazioni diplomatiche a partire dal gennaio 1979. Parte dell’accordo fu la continuazione da parte degli Usa delle relazioni con Taiwan in forma non ufficiale e la fine del trattato di mutua difesa che gli Usa avevano con l’isola. A gennaio del 1979 i leader del governo cinese inviarono un Messaggio ai compatrioti di Taiwan invitando alla fine delle relazioni ostili e allo sforzo congiunto per il fine ultimo di riunificare le due parti dello Stretto di Taiwan. Messaggio che quest’anno Xi Jinping ha ripetuto.
Il 10 aprile dello stesso anno il presidente Carter firmò il decreto sulle relazioni con Taiwan con il quale istituiva l’American Institute in Taiwan, ente formalmente privato e senza status diplomatico, che avrebbe gestito i rapporti tra gli Stati Uniti e l’isola. Nello stesso decreto furono anche fornite assicurazioni sul «sostegno» americano alla sicurezza dell’isola. L’accordo era necessario anche alla Cina che si rendeva conto che la normalizzazione dei rapporti con gli Usa era fondamentale per accedere al mercato, alla tecnologia e alle università americane. Quanto agli Usa, volevano migliori relazioni per accedere al mercato cinese, aprire nuovi sbocchi ai capitali americani e produrre beni di consumo a un costo più basso e profitto più alto. Volevano poi che Cina e Taiwan risolvessero pacificamente i loro contrasti. Tuttavia, il Congresso, dominato dall’ostilità nei confronti della Cina corresse la proposta di legge, rafforzando l’impegno statunitense nella vendita di armamenti a Taiwan e nella difesa dell’isola.
La ripresa di normali rapporti diplomatici e di importanti accordi economici fra Cina e Usa (1978) contribuì allo sviluppo economico sia della Cina sia di Taiwan. Nell’agosto del 1982 fu siglato un accordo fra Cina e Usa in cui gli Stati Uniti s’impegnavano a ridurre le forniture di armi a Taiwan e la Cina era vincolata a una riunificazione pacifica e a lungo termine con Taiwan. In conseguenza di tale atto, nella seconda metà degli anni Ottanta si è avuta una sensibile accelerazione del processo di liberalizzazione politica interna: di particolare importanza sono stati nel 1987, dopo un quarantennio, l’abolizione della legge marziale e il riconoscimento del diritto di sciopero. Morto Chiang Ching-kuo nel gennaio 1988, gli è succeduto Lee Teng-hui, primo nativo di Taiwan assurto alla guida dello Stato (rieletto nel 1990) e del partito. Questi dava nuovo impulso al processo di distensione dichiarando chiusa la fase di «mobilitazione nazionale per la soppressione della sovversione comunista» (1991), accantonando così la guerra civile. Tra l’estate e l’autunno del 1995 i rapporti tra i due Stati tornavano però a inasprirsi, soprattutto a causa della visita del presidente Lee Teng-hui negli Usa e delle manovre militari svolte dalle navi di Pechino al largo delle coste taiwanesi.
Nel 2000 si ebbe la sorprendente vittoria del Partito progressista democratico che portò alla presidenza Chen Shui-bian, poco gradito alle autorità di Pechino per le sue posizioni marcatamente indipendentiste. Esito analogo caratterizzava le elezioni legislative del dicembre 2001, in cui il partito del presidente sopravanzava nettamente il Kuomintang nel numero di seggi conquistati. Nel gennaio 2005 il governo raggiungeva un accordo con le autorità cinesi per l’instaurazione di voli diretti tra i due paesi. Nel marzo 2006 il presidente Chen Shui-bian scioglieva il Consiglio di unificazione nazionale, un organo consultivo creato nel 1990 per favorire la riunificazione con la Cina, provocando una dura reazione cinese.
Nel gennaio 2008 le elezioni legislative e le presidenziali premiarono di nuovo il Kmt. Ma Ying-jeou assunse la presidenza e fu il primo a proporre una linea chiara, basata su tre no: all’unificazione, all’indipendenza e all’uso della forza. In pratica era la politica dello status quo e del «parliamo d’altro». Questo però fu sufficiente ad allentare la tensione con la Cina. Tuttavia, nel 2016, per alcune faide interne al Kmt, la presidenza andò alla candidata del Partito progressista democratico e attuale presidente Tsai Ing-wen. Fu una sorpresa per tutti. La sua linea fortemente indipendentista ha fatto alzare di nuovo la tensione. La popolazione ha percepito il rischio di tale raffreddamento e nelle elezioni amministrative del 2018 la maggioranza del 55,48% dei voti è tornata al Kmt. Tsai si è dovuta dimettere dalla presidenza del partito ma, forse nella speranza che l’irritazione di Pechino e dei suoi stessi elettori le garantissero la fiducia degli Stati Uniti, e in particolare del Congresso e del Pentagono che non hanno mai visto con favore un riavvicinamento con la Cina, ha avviato l’acquisizione di nuovi armamenti americani per oltre tre miliardi di dollari.
Nel frattempo, la rivendicazione taiwanese su tutto il territorio cinese è di fatto rientrata, ma i nuovi leader politici promuovono la costituzione di uno Stato indipendente. Il Kmt, che continua a essere un partito forte, è paradossalmente l’unico che ha in comune con Pechino la visione di una sola Cina. Per questo negli ultimi anni si è reso maggiormente disponibile a un accordo con Pechino. Rimane però il rifiuto della formula «un paese due sistemi», applicato per Hong Kong e Macao, più volte proposto a Taiwan anche con concessioni fondamentali come quella di poter mantenere proprie Forze armate. La differenza fra le varie situazioni è che mentre Hong Kong e Macao uscivano da un dominio di tipo coloniale, Taiwan pretende di essere un lembo di territorio cinese. Se Taiwan dovesse accettare tale formula la Repubblica di Cina cesserebbe di esistere e Taiwan potrebbe diventare una regione amministrativa a statuto speciale della Rpc. A questa alternativa molti taiwanesi preferiscono l’indipendenza tramite la costituzione di un nuovo Stato che non sia né Repubblica Popolare Cinese né Repubblica di Cina. Questa ipotesi è rigettata da Pechino che di fatto dovrebbe cedere alla nuova entità la sovranità di un proprio territorio, con l’aggravante di non avere più la facoltà di reclamare la sovranità nemmeno su altre isole e su parte dei mari adiacenti. La soluzione non piace nemmeno agli Usa, che nella eventuale definizione dei limiti di sovranità del nuovo Stato di fatto si creerebbe un altro interlocutore, magari più agguerrito e pretenzioso della stessa Cina. Di qui la preferenza per lo status quo che consente agli Usa di controllare sia la Cina sia Taiwan per i propri interessi.
5. Dove non arriva la politica può arrivare la guerra, che però ha bisogno di un obiettivo strategico. Il valore strategico di Taiwan è che non ne ha uno oggettivo, facilmente individuabile e indiscutibile. E questa carenza ne ha fatto un vuoto dimenticato ed emarginato dai grandi circuiti degli equilibri di potenza regionali e globali. La Cina non se ne è curata per secoli, gli imperi coloniali l’hanno considerata una terra da spopolare, gli avventurieri l’hanno considerata un rifugio, una terra senza legge, i giapponesi una volta avuta la volevano vendere, le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale l’hanno deliberatamente lasciata nel limbo, gli americani l’hanno regalata ai nazionalisti quando faceva loro comodo e poi offerta su un piatto d’oro ai comunisti quando conveniva di più, le Nazioni Unite hanno lasciato la questione irrisolta e non le hanno mai attribuito un valore strategico per la sicurezza globale, quindi l’hanno fatta ripiombare nel limbo di uno status quo assurdo.
Taiwan ha da sempre solo un valore soggettivo e strumentale a seconda della geopolitica, delle ambizioni e delle fobie di chi la possiede. Gli stessi Stati Uniti, che palesemente la proteggono, rimangono nell’ambiguità e attribuiscono a Taiwan un valore strategico soltanto in funzione di una paventata minaccia cinese. Il valore strategico di Taiwan è quindi soltanto per gli Stati Uniti. Ma non per la loro sicurezza: per conservare il primato nella competizione con la Cina.
La questione di Taiwan, in senso strategico, ha quindi il valore di costituire un pretesto per scatenare un conflitto tra Stati Uniti e Cina. Ciascuno dalla sua posizione di forza: il controllo oceanico per i primi e la piattaforma continentale cinese per la seconda.
La natura strumentale e fittizia del valore strategico di Taiwan è evidente. Lo conferma lo stato ambiguo e confusionale in cui lo scontro viene preparato sul piano militare. Le flotte americane chiudono il cerchio attorno alla Cina fingendo di difendersi, mentre Washington riarma Taiwan con mezzi completamente inutili per la difesa dell’isola, al solo scopo di fare soldi con la vendita di armi e provocare una reazione cinese.
Nell’ambito del ridimensionamento delle Forze armate di Taiwan avvenuto negli ultimi anni,l’Esercito ha subìto i maggiori tagli: la dottrina militare di Taiwan, infatti, ha cominciato a porre l’accento sull’importanza del combattimento in mare aperto con la Marina e l’Aviazione. Tra i recenti obiettivi a breve termine dell’Esercito rientrano l’acquisizione e lo sviluppo di sistemi congiunti di comando e controllo, di elicotteri di attacco avanzato e di veicoli corazzati, di lanciarazzi multipli e di sistemi contraerei da campo. Anche l’Esercito è in fase di transizione verso una forza formata interamente da volontari. Oggi conta circa 130 mila effettivi. Le unità operative sono incluse in tre Corpi d’armata (6°, 8°, 10°) e cinque Comandi di guarnigione: Hua tung (Taiwan Est, con un gruppo da combattimento 3 a Hualien e un comando area a Taitung); Jinmen/Qinmen (con un gruppo da combattimento a Jindong Est, uno a Jinshi Ovest, uno a Shihyu e un gruppo d’artiglieria); Penghu (con gruppo da combattimento Oro); Matsu/Mazu (con gruppi da combattimento a Beigao e Juguang); Tungyin. Il Comando della riserva comprende 9 brigate di fanteria attive e 24 brigate di mobilitazione. Armamenti, veicoli corazzati (oltre mille carri da battaglia M60 e M48 e derivati, oltre duemila fra carri leggeri e trasporto truppa) e blindati e missili sono tutti d’importazione statunitense o di locale refitting su avanzi di magazzino statunitensi. L’Aeronautica ha la giurisdizione sulla difesa aerea che comprende anche la componente missilistica terra-aria e quella offensiva di missili da crociera. Conta 53 mila effettivi e oltre cinquecento velivoli. Esclusi 55 Mirage e 3 Eurocopter francesi, tutti i velivoli sono statunitensi o derivati locali da quelli statunitensi. La Marina ha 38 mila effettivi e 117 navi in servizio, di cui 4 cacciatorpediniere, 20 fregate e 4 sommergibili tutti di derivazione statunitense, oltre a 4 fregate lanciamissili francesi (classe Lafayette).
Sono forze ingenti e costose, ma praticamente inutili dal punto di vista operativo. Se la loro missione è preservare la sicurezza e la ricchezza di Taiwan da eventuali attacchi, un’eventuale aggressione cinese non lascerebbe quasi nulla d’intatto senza neppure muovere un soldato. La difesa antinave e antiaerea di Taiwan per quanto poderosa e affidata a sistemi americani è aggiornata agli anni Novanta del secolo scorso. Da allora la Cina ha sviluppato un arsenale missilistico in grado di saturare in pochi minuti tutta la capacità di risposta di Taiwan e di eliminare in poche ore tutti i centri industriali e quelli urbani della pianura. Per evitare una tale eventualità dovrebbe poter contare sulla risposta immediata degli Stati Uniti, che verrebbero immediatamente coinvolti in un conflitto regionale di enormi dimensioni.
Taiwan ha anche una doppia vulnerabilità negli avamposti di Qinmen, Matsu e Penghu. In particolare, i primi due sono elementi facilmente soggetti al fuoco delle artiglierie terrestri cinesi e contemporaneamente sono anche punti sensibili per eventuali provocazioni o pretesti. Nel 1995, e anche successivamente, le intemperanze delle guarnigioni taiwanesi nelle presunte esercitazioni contraeree su Qinmen hanno colpito la periferia di Xiamen. Oggi tali giochetti non sarebbero più tollerati da Pechino.
Anche in questo campo però la responsabilità e le eventuali vulnerabilità non dipendono soltanto da Cina e Taiwan. Gli americani, a fronte del tradizionale riconoscimento di Pechino come unico e solo rappresentante della Cina e della dichiarazione più volte ribadita che esiste una sola Cina, da alcuni anni stanno montando una campagna internazionale anticinese senza precedenti. In particolare, stanno dipingendo Pechino come la Cina cattiva, espansionista, aggressiva antidemocratica, efferata e insensibile ai diritti umani. La descrivono come una minaccia alla pace e alla sicurezza dell’Asia e quindi di tutto il mondo. Stanno imponendo con i loro migliori inviati – Pence, Bolton e Pompeo – questo punto di vista a tutti i paesi alleati e pure non alleati allegando alle valutazioni delle vere e proprie minacce e ingiunzioni a non intrattenere rapporti con la Cina. E ciò che dicono i tre è riverberato da tutta la nomenklatura.
Nel 2013 William A. Stanton, diplomatico e già direttore dell’Istituto Americano in Taiwan fino al 2012, dichiarò che i taiwanesi tendono a sottovalutare l’importanza strategica dell’isola. Taiwan non è una «piccola isola»: per popolazione, economia e sviluppo può essere tranquillamente posta al livello di «media potenza». Potrebbe sembrare una banalità, se non fosse che la politica estera e di sicurezza degli Stati Uniti intende per «media potenza» qualsiasi Stato la cui sicurezza sia utile alla politica di una «grande potenza». Anche a prescindere dalle proprie esigenze e volontà. Ma l’importanza di Taiwan va persino oltre l’economia, aggiunge Stanton: «Per la Cina, l’importanza di Taiwan va oltre la solita retorica nazionalista. È strategica. La posizione geografica di Taiwan impedisce alla Cina di acquisire il completo controllo del Mare Cinese Meridionale e a espandere il proprio potere navale verso oriente per competere contro gli Stati Uniti. Se Pechino acquisisse il controllo di Taiwan, le principali rotte commerciali lungo il Mar Cinese Meridionale sarebbero dominate dalla Cina e i principali alleati degli Usa come il Giappone sarebbero tagliati fuori dai commerci e dai rifornimenti. Ciò avrebbe un effetto negativo sull’economia, sul commercio, sui posti di lavoro americani qui e in patria e sulla sicurezza degli Usa nel Pacifico».
Accanto alla posizione diplomatica si trovano le valutazioni dell’intelligence, che sono anche più esplicite. Il Rapporto 2019 al Congresso dell’agenzia d’intelligence militare (Defense Intelligence Agency) conclude che Pechino, sta incrementando le proprie forze terrestri, aeree e navali per acquisire la capacità d’invadere Taiwan. Le stesse autorità politiche e militari dell’isola sostenute dai pareri di esperti esterni intravedono segni di preparazione da parte di Pechino di una invasione entro il 2020-21. Taipei denuncia anche l’accelerazione impressa dai servizi segreti cinesi nei tentativi di penetrare il sistema difensivo di Taiwan.
Ovviamente, questo punto di vista viene controbilanciato almeno in parte da chi soltanto scorrendo le carte di un qualsiasi atlante geopolitico si rende conto che in Asia, con basi militari a Okinawa, Corea del Sud, Filippine e altre, con forze aeronavali dislocate in qualsiasi punto degli oceani, è l’America a minacciare le rotte marittime che congiungono i porti cinesi al resto del mondo. In nome di una libertà di navigazione a senso unico, di fatto, le flotte statunitensi controllano e costringono in una morsa tutto il traffico commerciale da e per la Cina. Diverse portaerei con centinaia di aerei imbarcati, incrociatori missilistici, sommergibili nucleari vengono mobilitati. I loro equipaggi entrano in fibrillazione, con il rischio di qualche «incidente», se una pseudo-portaerei cinese copiata da una vecchia carcassa russa prende il mare, in casa propria. La paranoia della minaccia cinese è ormai diventata la vera minaccia alla sicurezza globale. Prima o poi qualcuno crederà di vedere cose che è «programmato» a vedere e premerà il bottone sbagliato nel momento sbagliato. In maniera ancor più parossistica della guerra fredda, la minaccia cinese è ormai rimasta l’unica che possa giustificare una corsa agli armamenti che è l’unico vero motivo dei cosiddetti investimenti nella sicurezza.
Il traffico nello Stretto di Taiwan che si pretende d’impedire alla Cina in nome di una libertà di movimento oceanico per tutti tranne che per i cinesi è essenzialmente sotto costa cinese e tra città costiere. Le grandi rotte per il Giappone non passano di lì. A malapena passano quelle per la Corea, che comunque avrebbe la possibilità di seguire rotte alternative aggirando Taiwan. La negazione di fatto della libertà di navigazione nello Stretto è invece lo strumento per rendere difficile, angusto e pericoloso il transito tra i Mari Cinesi Meridionale e Orientale. Da anni la strategia statunitense non fa mistero dello scopo esclusivamente impeditivo della libertà di movimento cinese. E questa impostazione strategica limita la stessa libertà geopolitica di scegliere una postura più flessibile e più orientata alla sicurezza che all’insicurezza. Di fatto è questa strategia monocorde che finisce per essere una non-scelta e quindi un vincolo auto-comburente, che si alimenta di sé stesso.
Questa impostazione è arrivata anche ad attribuire alla Cina ciò che gli stessi Stati Uniti hanno fatto oltre un secolo fa. Secondo Peter Nolan 4, gli Usa vedono nella questione tra Cina e Taiwan un riflesso speculare di quanto ad essi accaduto nel 1890. Nel dicembre di quell’anno l’esercito statunitense sconfisse la confederazione pellerossa nella battaglia di Wounded Knee, nel Sud Dakota. L’evento segnò la fine delle guerre indiane. Gli Usa ritennero di aver consolidato il potere territoriale interno al continente e quindi di poter rivolgere le proprie energie al suo esterno. E infatti la conquista del Far West continentale proseguì con la corsa al Far West oceanico: il Pacifico. Nel 1898, con la vittoria nella guerra con la Spagna, gli Stati Uniti acquisirono, fra l’altro, le Filippine e Guam. Nello stesso anno furono annesse le Hawaii e siglato un accordo tripartito per le isole Samoa. Nel giro di due anni fu acquisito l’atollo di Wake e proprio per favorire il passaggio dall’Atlantico al Pacifico fu iniziato il Canale di Panamá. Un paese di natura continentale voleva diventare una talassocrazia i cui confini non erano le terre conquistate e isolate da due grandi oceani rispetto al resto del mondo, ma gli stessi oceani che, per definizione, non hanno confini. Questo tipo di espansione richiedeva una forte componente marittima fra i fattori di potenza e difatti già durante la prima guerra mondiale la Marina statunitense non aveva rivali. E dopo la seconda guerra mondiale, uscì dal conflitto con una flotta di 1.600 navi da guerra. Oggi, secondo Nolan, gli Usa vedono la Cina nelle loro stesse condizioni del 1890: se la Cina vincerà la «battaglia» per Taiwan, in un modo qualsiasi, avrà terminato la unificazione del proprio continente e potrà rivolgersi a oriente: al Pacifico. Oggi, per raggiungerlo deve passare per una quantità di strettoie tra Taiwan e le isole Ryūkyū, le Filippine, la Malaysia, l’Indonesia e l’Australia. Per andare verso le fonti di risorse in Africa e Medio Oriente la flotta mercantile e quella militare devono dirigere a sud attraverso gli stretti della Malacca, ugualmente se non maggiormente vincolanti. Chiaramente la geografia non aiuta o incoraggia le presunte intenzioni di espandere la propria influenza nell’Oceano Pacifico e per questo gli strateghi cinesi si sentono inscatolati e chiusi. Se invece Taiwan diventasse cinese, il limite delle acque territoriali e delle zone esclusive si estenderebbe più avanti nell’oceano e si risolverebbero anche i contenziosi sulle isole dei mari cinesi. La prima linea di isole sarebbe superata, portando la Cina a ridosso della seconda, che comprende Guam, le Marianne e altre isole amministrate direttamente dagli americani. Non ultimo, la Cina avrebbe il vantaggio di disporre della costa orientale di Taiwan, rocciosa e scoscesa, perfetta – terremoti a parte – per basi di sommergibili in caverna dalle quali questi potrebbero accedere alle acque profonde del Pacifico senza essere individuati.
Nemmeno i taiwanesi sanno bene ciò che vogliono. La retorica della riconquista della madre patria non c’è quasi più, e scomparirà definitivamente con la scomparsa dei vecchi e dei nostalgici del Kmt. Oltre l’80% si dichiara favorevole allo status quo e cioè a una doppia possibilità: fare i propri interessi con la Cina e con l’America, fingere di essere un paese indipendente de facto e assecondare gli americani nella loro politica di controllo oceanico.
Apparentemente la politica dello status quo è quella preferita dall’establishment statunitense, ma non è certo che lo sia per molto. Gli Stati Uniti credono ancora che la politica dello status quo sia l’opzione preferita anche da Pechino e che quindi eserciti ancora a lungo la pazienza strategica in attesa che le intimidazioni e le pressioni diplomatiche ed economiche inducano Taiwan a più miti consigli. Probabilmente si tratta di una valutazione sbagliata o di un pio desiderio. Né Pechino né Taiwan hanno più tempo per i bizantinismi o le cineserie. I rapporti altalenanti, le incertezze, le minacce e le rassicurazioni insite nella salvaguardia dello status quo non rispecchiano più le esigenze e le capacità della Cina e di Taiwan. Dagli anni 1978-79 (disgelo Cina-Usa) e da quelli del 1991-92 («mutuo consenso») la Cina è cresciuta in modo enorme. Gli Usa credono ancora che la crescita e la prosperità di Taiwan dipendano dal suo ruolo di anello nei rifornimenti e negli scambi che dagli Usa, attraverso Taiwan, arrivano in Cina, dove avvengono la produzione e l’assemblaggio finale, e da dove molti prodotti finiti sono esportati negli Stati Uniti. La Cina non ha più bisogno di tale tramite, né per l’acquisizione di tecnologia né per l’aumento delle esportazioni. Per contro Taiwan è sempre più dipendente dalla Cina in termini di sicurezza dei mercati, di produzione qualificata e perfino di persone professionalmente preparate. Persone che costino meno di quanto costa la mano d’opera taiwanese e che lavorino di più. Taiwan non è più in grado di guidare e nemmeno di sostenere la concorrenza cinese.
Inoltre, né la Cina né Taiwan ritengono che gli Stati Uniti siano una forza di stabilità e sicurezza. Tutto ciò che gli Stati Uniti declamano come azioni di protezione, di difesa, di stabilizzazione, di pace e mutuo beneficio, a prescindere dalle intenzioni, sono condotte con gli strumenti dell’arroganza, della potenza militare e dell’accerchiamento sempre più stretto della Cina.
Molti pensano che la Cina in mancanza di una seria e grave provocazione non inizierà un’azione militare su larga scala. Pensano anche che la dichiarazione d’indipendenza sia una provocazione di questo livello. Non è così. La Cina non sta aspettando una provocazione, ma sta facendo la somma delle provocazioni e la contrappone alla perdita di tempo, denaro e prestigio internazionale che le risposte «strategicamente pazienti» comportano. È vero che ha altri mezzi per punire Taiwan, ma sono sempre mezzi frustranti e che rischiano di far perdere l’iniziativa e quindi l’effetto di un’azione eclatante di sorpresa.
Altri pensano anche che le possibilità di dichiarazione esplicita d’indipendenza da parte di Taiwan siano quasi nulle. E che quindi la Cina non avrà alcun pretesto valido per una ritorsione legalmente possibile grazie alla legge anti-secessione. Anche questo non è più scontato. La Cina non può aspettare una dichiarazione esplicita per impedire la separazione. Anzi è certa che nelle attuali condizioni una dichiarazione simile riceverebbe subito il sostegno americano e perfino di molti paesi che attualmente non riconoscono Taiwan ma che fanno affari con i taiwanesi (come accaduto con il Kosovo). A questo punto il conflitto, dal piano interno sul quale la Cina lo vuole mantenere, si sposterebbe a quello internazionale con uno smacco: non poter usare la forza o dover interrompere l’azione, regalare l’indipendenza a Taiwan e perdere faccia, credibilità e affari. Pechino non si può permettere neppure che qualcuno da Taiwan faccia un bluff o un puro errore di calcolo su questo argomento.
Anche l’estensione della campagna d’intimidazione nei confronti di Taiwan in termini diplomatici, economici, politici e militari fino al punto di lanciare un ultimatum con la pistola puntata al cervello di Taiwan è un’opzione che Pechino non si può permettere. Questo scenario, intravisto da qualche guru americano, sarebbe una trappola. L’ultimatum stesso è un modo di bluffare e dare tempo. Gli Stati Uniti ne sanno qualcosa quando con la Corea del Nord sono passati dal «bottone più grosso» ai baci e abbracci. Di fronte a un ultimatum Taiwan non capitolerebbe.
La Cina non può nemmeno rischiare che la questione di Taiwan finisca nel calderone del confronto con gli Stati Uniti. Ma questo è essenzialmente ciò che Taiwan vuole e spera: che gli Usa, per i loro motivi, le facciano il favore di coinvolgerla.
La responsabilità maggiore della tensione non è della Cina o di Taiwan, ma degli Stati Uniti, i quali valutano l’incremento della potenza militare cinese non come una naturale evoluzione per un impero, ma come il segnale di una espansione militare nel Mar Cinese Orientale e Meridionale e nell’intero globo. Sebbene le azioni cinesi nei riguardi delle isole contestate nei due mari siano motivate da ragioni di sicurezza che hanno a che vedere con le analoghe e molto più minacciose pretese di altri paesi tra cui il Vietnam, le Filippine, il Giappone e la stessa Taiwan, la cosiddetta minaccia cinese è il pretesto per alienare i rapporti tra Pechino e Taipei e, in termini globali, i rapporti della Cina con il resto del mondo. Questo è lo sviluppo previsto ed è il pericolo maggiore che la Cina corre oggi, proprio perché sta pensando alle prospettive di qui a cinquant’anni. E allora, di fronte a tale rischio se ci deve essere un evento che possa sbloccare la situazione e terminare l’attuale stato di stress e ambiguità nei rapporti con gli Stati Uniti, la Cina non deve andare né in Africa né in Antartide né aspettare chissà quale provocazione o giustificazione. Da casa propria ha la possibilità di «vedere» direttamente il gioco americano e chiamare l’eventuale bluff. Può anche verificare fino a che punto gli Stati Uniti la ritengano rivale e quali costi e responsabilità siano in grado di assumere per provarlo. Può anche verificare che la domanda di Trump ai suoi falchi – «che cosa ci guadagniamo a proteggere Taiwan, eh?» – non è una delle sue solite battute, ma una grande intuizione strategica. In questo senso la previsione di una invasione di Taiwan entro il 2020-21 è solo parzialmente corretta. Non è necessario che sia un’invasione e può avvenire anche domani. Vada come vada per la Cina e per gli americani e i loro alleati, Taiwan non sarebbe più un problema per nessuno e sarebbe restituita agli aborigeni delle montagne.
Note:
1. R.C. Bush, R. Hass, «The China debate is here to stay», www.Brookings. edu/blog, 4/3/2019.
2. www.atlanticoquotidiano.it, 4/4/2019
3. Ogni gruppo (definito anche squadrone di difesa) è alle dipendenze del Comando di guarnigione secondo il modello attuato dai giapponesi. Esso è composto da uno o più battaglioni equivalenti ai nostri reggimenti. In genere è comandato da un colonnello.
4. P. Nolan, Re-balancing China, London 2015, Anthem Press.