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La bomba di Brescia, un efferato delitto, fu progettata e voluta per scatenare la rivolta dei lavoratori e indurre la…
Pubblicato da Mostra 1966-1976 Milano e gli anni della grande speranza su Giovedì 28 maggio 2020
Piazza dellaLoggia, oltre a essere bellissima era adattissima ai comizi, anche senza palco. Infatti se l’oratore era in piedi sotto la loggia, la lieve inclinazione del suolo lo rendeva visivile anche dal fondo della piazza.
La nostra sede del Carmine era vicinissima…
Quel giorno durante il comizio dei lavoratori con tutti gli studenti
L’esplosione della bomba assassina
Il pianto dei parenti: Manlio Milani
E la disperazione di due giovani compagne del Movimento Studentesco
GRANDE DISORDINE NELLA PIAZZA
Ma qualcuno pensò bene di lavarla subito cancellando le tracce sulla scena del crimine.
L’immediata grandiosa reazione popolare a Brescia, come a Milano (qui la manifestazione in Piazza del Duomo) bloccarono il tentativo golpista degli stragisti
Ma per anni amici, compagni e parenti dovettero subire depistaggi e silenzi colpevoli delle istituzioni.Noi l’abbiamo sempre saputo ma solo oggi, dopo 46 anni, la magistratura è arrivata a condannare qualche colpevole.
IL FATTO QUOTIDIANO — 28 MAGGIO 2019
https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/05/28/strage-di-piazza-della-loggia-ordine-nuovo/5215233/

Gianni Barbacetto
Giornalista
Su piazza della Loggia ora sappiamo la verità. Un pezzo che spiega un quadro intero
Martedì 28 maggio 1974: alle 10.12, il boato di un’esplosione potente lacera un cielo grigio che sembra d’autunno. È una bomba, che interrompe un comizio antifascista in piazza della Loggia a Brescia e provoca otto morti e oltre cento feriti.
Da quel giorno, ci sono voluti tre processi e 43 anni per arrivare, finalmente, a una sentenza definitiva di condanna. Ma ora la sentenza c’è. La strage di Brescia ha dei colpevoli, a differenza di quella di piazza Fontana e di tante altre stragi italiane. E quella sentenza ci spiega molto anche delle altre stragi rimaste impunite.
Il terzo processo, cominciato il 25 novembre 2008, ha come imputati Carlo Maria Maggi, il capo del gruppo neofascista Ordine nuovo nel Triveneto, e Maurizio Tramonte, giovane militante padovano di Ordine nuovo e nello stesso tempo informatore dei servizi segreti.
È lui la “fonte Tritone” che aveva ispirato una cruciale relazione del centro Cs di Padova del Sid (il servizio segreto militare), datata 6 luglio 1974. In quella relazione si diceva che nel 1974 c’erano state alcune riunioni in cui Ordine nuovo, sciolto l’anno precedente, aveva deciso di riprendere clandestinamente le attività.
Uno di questi incontri era avvenuto ad Abano Terme il 25 maggio, tre giorni prima della strage di piazza della Loggia. Maggi aveva detto ai camerati che bisognava fare un grande attentato, che bisognava proseguire nella strategia stragista iniziata il 12 dicembre 1969 in piazza Fontana.
In una riunione successiva, aveva aggiunto che la strage di Brescia non doveva “rimanere un fatto isolato”, ma essere seguita da altre “azioni terroristiche di grande portata da compiere a breve scadenza”, per aprire un “conflitto interno risolvibile solo con lo scontro armato”.
Dunque i servizi sanno in diretta che cosa fanno i neri di Ordine nuovo. E li lasciano fare. Il generale del Sid Gian Adelio Maletti riceve le informazioni, ma si guarda bene dal passarle ai magistrati, sia prima, sia dopo la strage. Così ci sono voluti 20 anni per scoprire chi era “Tritone” e 43 per condannarlo.
La notte del 20 giugno 2017, la Corte di Cassazione conferma la sentenza d’Appello che nel 2015 aveva comminato l’ergastolo a Carlo Maria Maggi e a Maurizio Tramonte. La strage di Brescia ha dei responsabili.
La giudice milanese Anna Conforti scrive nella sua sentenza d’Appello che responsabili sono Maggi e Tramonte, ma che “altri parimenti responsabili hanno lasciato questo mondo o anche solo questo Paese, ponendo una pietra tombale sui troppi intrecci che hanno connotato la malavita anche istituzionale all’epoca delle bombe”.

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La sentenza su piazza della Loggia è una decisione davvero storica perché permette finalmente di scrivere la storia della strategia della tensione non più al condizionale, ma all’indicativo. Quella storia è come un grande, terribile quadro di Hieronymus Bosch, cancellato e grattato e ridipinto, in decenni di interventi, falsificazioni, silenzi, menzogne, depistaggi. Ora un pezzo, un pezzo piccolo ma centrale, è stato restaurato. Ha ripreso i suoi colori, ha rivelato i volti di alcuni personaggi, ha indicato una scena, ha mostrato un’azione. Quel piccolo pezzo permette di capire il senso del quadro.
In Italia è stata combattuta una guerra segreta, che ha schierato eserciti invisibili, con inconfessabili sponde istituzionali e segretissimi accordi internazionali.
Il terrore delle bombe in una banca, in una piazza, in una stazione, su un treno, era l’ingrediente forte del menù di una “guerra non ortodossa”, “guerra psicologica”, la low intensity war teorizzata dai manuali di strategia della lotta al comunismo, che in Italia era più stringente perché qui passava la frontiera geopolitica tra i due blocchi.
Le “operazioni sporche” erano demandate agli “irregolari” dei gruppi neri. Maggi e il suo gruppo di Ordine nuovo sono centrali in questa guerra, da piazza Fontana (1969) a piazza della Loggia (1974), passando dalla strage alla Questura di Milano (1973).
Maggi è l’uomo che unisce le stragi.
È condannato per quella di Brescia. Incrocia Carlo Digilio, unico reo confesso di piazza Fontana. Incrocia Gianfranco Bertoli, il falso anarchico che a Verona è “preparato” da uomini di Maggi a gettare la bomba davanti alla questura di Milano.
Gli apparati di Stato vegliano silenziosi, servendosi di personaggi come Tramonte: “Io ero un ‘infiltrato’ nelle cellule neofasciste operanti nel Veneto”, diceva di sé, “infatti mentre mi facevo passare dagli altri partecipanti per uno di loro, riferivo tutte le notizie rilevanti che apprendevo a un agente del Sid”. Ma era un infiltrato dei servizi nei gruppi neri o dei gruppi neri nei servizi? Un doppio gioco a senso unico.
IL MANIFESTO DEL 28 MAGGIO 2019
https://ilmanifesto.it/piazza-della-loggia-il-boato-di-una-strage-fascista/
Piazza della Loggia, il boato di una strage fascista
SCAFFALE. «La morte a Brescia. 28 maggio 1974» di Paolo Barbieri per Red Star Press
Strage di Piazza della Loggia, Brescia: il momento dell’esplosione
Saverio Ferrari
EDIZIONE DEL 28.05.2019
PUBBLICATO28.5.2019, 0:01
AGGIORNATO27.5.2019, 21:36
NOTIZIE SOTTO NEL LINK DELL’EDITORE ::
https://www.redstarpress.it/index.php/catalogo/unaltrastoria/product/view/3/115
Esce ora nella ricorrenza del 45/mo anniversario della strage di Piazza della Loggia (otto morti e più di cento feriti) La morte a Brescia. 28 maggio 1974: storia di una strage fascista di Paolo Barbieri (Red Star Press, pp. 128, euro 14). Lo stesso autore, all’epoca diciottenne, era su quella piazza al momento dello scoppio della bomba. Non fu investito dall’esplosione per una pura casualità, o come scrive, per «destino o fortuna».A causa della pioggia battente si era rifugiato sotto i portici proprio dove pochi minuti dopo deflagrò l’ordigno collocato in un cestino porta rifiuti. Chiamato da un amico si era spostato rimanendo incolume. Nella sua memoria indelebili sono rimasti la visione del sangue e dei corpi straziati riversi a terra, gli attimi concitati del deflusso dei manifestanti, la paura, anche di un possibile golpe, il presidio successivo delle sedi del sindacato e dei partiti, l’immensa folla del giorno dei funerali con i fischi alle autorità politiche.
MA NON È UN LIBRO solo di ricordi. Tutt’altro. Si ricostruiscono, infatti, le tappe che avevano preceduto la strage con lo stillicidio delle azioni violente e degli attentati, in particolare quello del 20 maggio, quando un giovane neofascista, Silvio Ferrari, era saltato per aria in Piazza del Mercato con la sua motoretta con la quale trasportava un potente ordigno per un attentato. Un episodio che aveva spinto i sindacati e il Comitato unitario antifascista a indire la manifestazione del 28 maggio.Uno sciopero generale della città «contro ogni trama fascista».La strage di Brescia fu la «più politica di tutte le stragi» messe a segno in quegli anni. Non si volle colpire «nel mucchio» in modo indiscriminato per scatenare il panico e suscitare una richiesta d’ordine, così come era accaduto per Piazza Fontana. L’intento era di «uccidere proprio quei cittadini». Come scrisse il giudice Gian Paolo Zorzi: «convenuti per manifestare la loro protesta nei confronti dei ripetuti atti terroristici di sicura marca neofascista».
La città, una ricca città di provincia, governata da sempre dalla Democrazia cristiana, stava vivendo una sua mutazione con l’ascesa dei «tondinari arricchiti» che rompevano con la tradizionale borghesia cattolica con radici antifasciste. Una frattura che aveva portato alcuni imprenditori a finanziare le organizzazioni nazifasciste in chiave antioperaia. La lunghissima vicenda giudiziaria, ripercorsa minuziosamente da Paolo Barbieri, giornalista professionista per moltissimi anni all’Agenzia Ansa di Milano, si è conclusa in Cassazione il 20 giugno 2017 con la condanna all’ergastolo di due esponenti di Ordine nuovo, l’organizzazione nazifascista fondata da Pino Rauti: Maurizio Tramonte, al contempo informatore del Sid (il Servizio informazioni difesa) con il nome in codice di «Tritone», e Carlo Maria Maggi, il «reggente» nel Triveneto.
AMBEDUE avevano partecipato la sera del 25 maggio alla riunione ad Abano Terme tenutasi in preparazione della strage. Da qui la presenza dello stesso Tramonte in Piazza della Loggia la mattina del 28 maggio 1974. Presenza confermata da una foto scattata pochi istanti dopo l’esplosione. Il Sid coprì Tramonte e Maggi, pur sapendo dei loro progetti criminali e nulla fece per impedire la strage. I depistaggi furono una costante.
Paolo Barbieri giustamente parla di una strage da ricondurre a quel «partito del golpe», presente nei vertici militari e in settori della classe dirigente politica, che operò in quegli anni per scardinare la democrazia nata dalla Resistenza.
Maurizio Tramonte è in carcere mentre Carlo Maria Maggi è deceduto il dicembre scorso.
Ma non è stata ancora messa la parola fine.
Due sono, infatti, gli stralci di indagine ancora aperti. Uno dalla Procura dei minori in cui si fa il nome di un altro ordinovista, Marco Toffaloni, un veronese all’epoca minorenne, ora in Svizzera con un’altra identità.
L’altro riguarderebbe invece un notissimo dirigente sempre di Ordine nuovo. Entrambe le piste porterebbero nuovamente in Veneto e sarebbero compatibili con la sentenza emessa.