REPUBBLICA — 28 GIUGNO 2020 –pp. 30-31
MILTON GRASER
SCOMPARSO A 91 ANNI
Milton Glaser– Così disegnò la modernità
Il suo linguaggio grafico ha ispirato gli emoticon e ha dato veste e voce a riviste, poster, musica. Ritratto del grande designer che ha trasformato New York in un logo. E Bob Dylan in un’icona
di Marco Belpoliti
Milton Glaser (New York, 26 giugno 1929 – New York, 26 giugno 2020) è stato un grafico, illustratore e docente statunitense. Tra i maggiori grafici dell’età contemporanea, divenne principalmente conosciuto per il celeberrimo logo I Love New York (1976), il suo poster di Bob Dylan (1966, che vendette oltre 6 milioni di copie divenendo un’icona della gioventù anni sessanta e settanta), il logo DC Bullet utilizzato dalla DC Comics dal 1977 al 2005. Con Clay Felker ha anche fondato il periodico New York nel 1968.
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Era seduto in un taxi, secondo la leggenda, quando gli venne in mente la possibile soluzione e schizzò su un foglio quello che sarebbe diventato il più famoso marchio di città dalla fondazione di Roma a oggi. Era il 1978 e New York, la città dove era nato durante la grande crisi del 1929, stava toccando il suo punto più basso: crisi fiscale, fuga dei ceti abbienti, disoccupazione, rapine per le strade, e l’anno precedente il black out aveva lasciato senza luce per due giorni il centro. Così quando il sindaco chiese all’agenzia pubblicitaria Wells Rich Greene e Milton Glaser d’inventarsi uno slogan, un manifesto, un logo, per rendere interessante NY, e ridare un po’ di fiducia a tutti, Milton cominciò subito a pensarci.
Aveva in mente l’icona pop di Robert Indiana del 1964, diventatata nove anni dopo una cartolina natalizia del MOMA, a suo modo già un brand.
ROBERT INDIANA, 1964
Se una cosa Glaser ha sempre manifestato è quella di possedere una mente rapida e veloce, capace d’afferrare quello che è nell’aria, e che nessuno ancora vede. Qualche minuto prima che appaia a tutti, l’idea è già nella sua mente e diventa un’immagine. Glaser pensa per immagini. Indiana aveva già impaginato in senso verticale la parola LOVE. Si trattava di fare un passo in più.
Non facile, ma Glaser è sempre stato un maestro nell’unire emozione ed icona: emoticon. La parola non c’era, ma il cuore rosso, così evidente e palese per dire “amore”, è esattamente un emoticon. Bastava aggiungere quel I, parola chiave nell’età del narcisismo — il libro di Christopher Lasch è del 1979 — e New York in acronimo, scrivere col font Typewriter, e il gioco era fatto. Facile dirlo dopo, ma provateci voi.
La rapidità è probabilmente una dote che Milton aveva affinato nel Bronx, dove era nato da una famiglia ebraica d’immigrati ungheresi; lì per sopravvivere erano richieste qualità simili: attenzione desta, occhio svelto, fiuto. Il tutto non disgiunto da quella passione per il narrare storie, che è proprio dell’ambiente yiddish. Di quella educazione ricevuta nella comunità immigrata del caseggiato gli è rimasto anche un senso di leggerezza, il piacere del vivere e l’allegria.
Se si sfoglia il libro Posters , composto da lui stesso e uscito pochi anni fa, dove ha raccolto 427 manifesti realizzati nel corso della sua carriera, si capisce che non c’è nessun poster triste o cupo, anche quello che sintetizza l’argomento più grave e pesante vola sempre, si solleva leggero per aria come per grazia ricevuta, tanto da far pensare a una lievità alla Chagall, un tocco che è prima di tutto coloristico, come nel resto della sua opera. Sembra che nel suo archivio avesse qualcosa come 200-300 mila manifesti, tutti usciti dal suo studio, il mitico Pushpin Studio, forse non tutti di mano sua, sicuramente da lui rivisti e licenziati.
Un lavoro immenso, per cui non si dava arie, perché per lui l’importante era lavorare ogni giorno: pensare e inventare, creare e più spesso ricreare. Del mondo yiddish recava anche quel senso degli affari, che fa parte delle strategie di sopravvivenza degli immigrati nel Nuovo Mondo approdati dalle sponde del Vecchio, così che ora, che non c’è più, oltre a lodare il suo stile inconfondibile di graphic designer, bisogna dire che è stato colui che per primo ha brandizzato la cultura, ovvero ha sposato pubblicità e arte, commercio e invenzione grafica.
Non un pubblicitario, perché questo Glaser non lo è stato, ovvero un creatore d’immagini atte a rendere interessante qualcosa o qualcuno, piuttosto d’immagini che diventavano con semplicità icone, come nel caso eclatante di NY. Creare dei brand non è un’arte facile, perché i brand si consumano rapidamente, oppure non funzionano, per quanto sostenuti da campagne martellanti. Poi spesso non sono belli.
Il ragazzo nato nel Bronx li ha sempre fatti belli, non solo i manifesti, ma anche i loghi. Il suo karma funziona là dove dipinge, perché, per quanto tendesse alla stilizzazione, e usasse il colore come un campo magico, Glaser è prima di tutto un pittore.
Era anche colto; conosceva l’arte in generale, e quella italiana in particolare, perché da giovane dopo aver studiato alla Cooper Union di New York nel 1951 era stato in Italia a Bologna con una borsa di studio, lì dove insegnava uno dei grandi pittori del Novecento, Giorgio Morandi.
Nei manifesti che ha poi realizzato in seguito si sente sempre la presenza della pittura rinascimentale, soprattutto nei dettagli, perché Milton Glaser era un grande divoratore di dettagli, come si capisce dal suo lavoro, in particolare in quello degli anni Sessanta e Settanta. In Italia tornerà poi a lavorare per alcune industrie importanti e graficamente significative: Olivetti e Campari;
LA BIENNALE
e si occuperà anche della promozione di città come Rimini, e in Italia esporrà varie volte i suoi lavori. Nel 1967 disegna il poster infilato nel vinile Greatest Hits, il ritratto più veritiero di Bob Dylan. Cosa sono quei capelli ricci che si levano dalla testa del cantante se non pensieri scomposti, e impertinenti, e tracce della rivoluzione psichedelica iniziata da poco, e poi resti fluttuanti della Pop Art, che sta celebrando il suo trionfo e anche la sua repentina fine?
AIDS
Glaser afferra tutto al volo e trasposta dalle gallerie d’arte alle camerette dei fans il segno carismatico di quell’epoca dedita agli Acid test. La contestazione studentesca è già cominciata nelle università americane e il graphic designer la registra con la sua lievità. Tutto in quel periodo vola per aria e nell’aria Glaser è a suo agio.
Nella sua carriera d’inventore di immagini e brand c’è anche quella di creatore della prima rivista cittadina, quel New York Magazine, che realizza nel 1968 con altri, e su cui tiene per vari anni una rubrica molto cool senza esserlo, “The Undergrond Gourmet”, dedicata ai ristoranti economici della città. La più letta dell’intero foglio; ancora una volta una trovata linguisticamente perfetta: due parole ossimoriche tra loro. Il fantasioso designer le ha messe insieme. C’è tuttavia un tratto che segna il suo lavoro, come quello di moltissimi grafici e designer: creare immagini che tutti conoscono, ma che quasi nessuno, salvo i cultori o gli addetti ai lavori, sa chi le ha prodotte. Lavoro umile quello del grafico e dell’illustratore, perché, se va bene, tutti conosceranno il marchio, ma il nome e cognome dell’autore, quello no.
A Glaser, figlio della umile cultura yiddish americana, questo importava poco. La stessa invenzione del logo di New York è stata da parte sua un gesto di generosità, dal momento che l’ha regalato alla sua città che amava enormemente, e dove è morto ieri.
Il logo di città più imitato al mondo, come è capitato a un altro disegnatore e artista, anche lui ebreo, Saul Steinberg, per cui il suo più famoso disegno, dedicato alla medesima città, è stato copiato e riprodotto moltissime volte. Del resto le idee migliori, salvo per il copyright, appartengono a tutti.
SAUL STEINBERG, IL MONDO DALLA NONA STRADA, 1975