ANNA MARIA DE LUCA, “Avevo solo le mie tasche”: quarantadue anni di manicomio, senza una diagnosi- REPUBBLICA DEL 7 FEBBRAIO 2017

 

 

Alberto Paolini: «I miei 42 anni in un manicomio perché ero un bimbo silenzioso»- Corriere.it

ALBERTO PAOLINI, 1932

FOTO DE

IL CORRIERE, 21 FEBBRAIO 2021

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REPUBBLICA DEL 7 FEBBRAIO 2017

https://www.repubblica.it/solidarieta/volontariato/
2017/02/07/news/_avevo_solo_le_mie_tasche_
quarantadue_anni_di_manicomio_senza_
una_diagnosi-157776912/

 

 

“Avevo solo le mie tasche”: quarantadue anni di manicomio, senza una diagnosi

di ANNA MARIA DE LUCA

 

La storia drammatica di Alberto Paolini che ha potuto scrivere i suoi pensieri – divenuti un libro di memorie, pubblicato dalla casa editrice “Sensibili alle foglie” – solo su piccoli frammenti di carta da nascondere nelle tasche

 

07 FEBBRAIO 2017

 

 

Avevo solo le mie tasche. Manoscritti dal manicomio

 Alberto Paolini

EDIIOZNE SENSIBILI ALLE FOGLIE, 2016

144 p.– 15 euro, prezzo pieno

 

 

 

 

ROMA – Per quarantadue anni Alberto Paolini ha potuto scrivere i suoi pensieri solo su piccoli frammenti di carta da nascondere nelle tasche. E questo, grazie ad un infermiere che un giorno, invece di comprare le sue solite cinque sigarette sfuse, ne chiese al tabaccaio quattro più una matita. “Quella matita costava 25 centesimi di lire”, ricorda mentre, con calligrafia perfetta e lenta, scrive una dedica sul libro che racchiude la sua vita:  Avevo solo le mie tasche. Manoscritti dal manicomio” (edizioni Sensibili alle Foglie).

Una biografia straordinariamente disarmante, minuziosamente descrittiva, intima, densa di riferimenti oggettivi, profondamente emozionante. Racconta la sua infanzia da orfano, i 42 anni trascorsi in manicomio senza che su di lui sia mai stata emessa una sola diagnosi che giustificasse il ricovero, sino alla lettera scritta ad un assessore romano quando, a 65 anni, gli si prospettò di essere chiuso di nuovo, ma questa volta in un pensionato.

 

L’orfanotrofio.  Un giorno arrivò in orfanotrofio una signora che non voleva un orfano qualsiasi:  voleva uno che non avesse proprio nessun parente. “Era una ricca svizzera, sposata con un signore di Roma il quale, durante la guerra, aveva fatto i soldi grazie ai militari stranieri che andavano a bere nel suo locale, vicino piazza di Spagna”, ricorda Alberto.  “E cosi le presentarono proprio me, che ero forse l’unico a non avere proprio nessuno al mondo”, ci racconta con voce lenta e pacata. Furono brevi i suoi giorni nella casa dei suoi nuovi genitori: “Pensavo che mi avesse preso per volermi bene, invece scoprii col tempo che lei, la moglie, lo aveva fatto per un solo motivo: voto alla Madonna. Aveva promesso che, in cambio di una grazia, si sarebbe portata a casa un orfano”.

” Non è abbastanza vivace”. Ricorda Alberto: “La signora sosteneva che io ero meno vivace di quel che, secondo lei, doveva essere un bambino della mia età. E cosi mi portò dal dottor De Santis, che mi diede solo una cura: quella di uscire di casa, di frequentare altri bambini”. Il medico le spiegò che, dopo tanti anni di orfanotrofio, era normale che Alberto non sprizzasse gioia da tutti i pori. “Le disse che avevo solo bisogno di uscire all’aria aperta, quanto meno di vedere Roma, per esempio, dato che non avevo mai visto niente”. E invece non andò cosi. Qualche anno dopo, De Santis scoprì che il bambino era finito sotto elettroshock al Santa Maria della Pietà.

Quindici giorni durati 42 anni. Quando si arrivava al Santa Maria della Pietà, i primi quindici giorni erano di osservazione ma, “ormai da tempo – racconta Alberto – era invalso l’uso di una proroga di altri quindici… se durante il mese di osservazione si presentava qualche parente o comunque qualcuno che ne avesse i requisiti e dichiarava di volersi prendere cura del ricoverato, questi veniva dimesso e la pratica veniva chiusa con la dichiarazione di “non competente al ricovero”. Ma nessuno si presentò a prendere Alberto.

In manicomio senza diagnosi. Come è possibile, da sani, finire per 42 anni in manicomio? Paolini trova la risposta nella storia, sua e della collettività: “Ero un bambino senza nessuno nel momento in cui Roma si stava organizzando per il Giubileo del 1950. Era un evento importante per la riconciliazione dopo la guerra. E quindi dovevano liberare le strade da bambini orfani, come me, dai mendicanti, dai poveracci che c’erano in giro, che avrebbero fatto fare brutta figura alla capitale. I collegi erano ormai tutti pieni e quindi molti furono messi nei manicomi”.

Il ricovero.  Spiega Alberto:  “Se  non si presentava nessuno, allo scadere del mese, il paziente veniva convocato dal medico che, dopo un sommario esame che consisteva in qualche domanda di rito, ascoltato il parere della suora caposala e magari dopo una scorsa superficiale alle relazioni degli infermieri, poneva al paziente una diagnosi di malattia mentale, con attestazione di ‘pericolosità’ e quindi decideva il suo trasferimento in un padiglione di internamento”. Fu cosi che Alberto finì al padiglione VI, quello dove si praticava l’elettroshock.

L’elettroshock. Alberto nel suo libro racconta, di fatto, la psichiatria di quegli anni, dall’interno. “Nel 1948  – racconta –  c’era tra gli psichiatri una grande euforia: era stato praticato da poco tempo, ad opera del professor Cerletti, un nuovo metodo di cura per le malattie mentali, basato sull’applicazione di una serie di scariche elettriche in rapida successione, sulla testa del paziente. Si otteneva cosi un effetto simile ad un attacco di epilessia. A questo metodo rivoluzionario era stato dato il nome di elettroshock-terapia. Insomma, tutti i medici erano convinti che si trattasse di una specie di toccasana per ogni forma di disturbo mentale. Per questo veniva applicato con disinvoltura sulla maggioranza delle persone ricoverate negli ospedali psichiatrici di allora. Erano esclusi solo gli epilettici, che gli attacchi li avevano già per conto loro, le persone anziane e dal cuore in condizioni precarie… in quel periodo, dire “Padiglione VI”, equivaleva a dire “elettroshock”.

La diagnosi che non c’è.  O meglio: una diagnosi c’era e diceva che Alberto stava bene. L’aveva fatta il professor de Santis qualche anno prima. “Non basta che questo ragazzino sia finito in manicomio – disse all’epoca lo psichiatra – adesso gli fanno pure l’elettroshock e senza neppure avvertirmi”. “Grazie a lui – riferisce Alberto – non mi fecero più elettroshock. Era indignato il medico contro la decisione della signora di farmi chiudere in manicomio, ma non poteva farci niente, perché queste erano state le decisioni dei miei benefattori”.

Il padiglione dei lavoratori. Alberto venne cosi portato nel padiglione dei lavoratori, dove fu assegnato alla tipografia. “Del resto, a farmi ricordare tutto questo si è incaricata anche suor Romilda la quale, per diversi anni, ogni volta che mi vedeva, diceva a chiunque capitava: lui è il bambino dell’elettroshock”.

Nel 1962 fu poi trasferito al padiglione XII “dove c’era l’usanza di togliere le cinture. Questo dei pantaloni che cadevano sempre giù era un vero problema”.

A partire dal ’62, Alberto iniziò a scrivere un diario. “Ma non avevo modo di conservare le cose che scrivevo – racconta Alberto – se non tenendole in tasca. E cosi scrivevo in piccolo e il più coinciso possibile, per non occupare spazio nelle tasche…avevo anche difficoltà a procurarmi dei fogli. Usavo le cose che potevo rimediare…C’era un ricoverato al quale portavano i grissini che erano avvolti dal cellophane ed io avevo scoperto che dentro il rivestimento c’era una striscia di carta con la scritta ‘grissino’. Prendevo questi fogliettie li utilizzavo per scrivere”.

Una pagina di storia della psichiatria. E’ davvero straordinaria la lucidità e la pacatezza con cui Alberto, oggi più che ottantenne (è nato nel 32) racconta quel che è stata la sua vita, senza un briciolo di rabbia. Il suo libro è uno straordinario spaccato di umanità, incastonato nella storia d’Italia. Nel 1967 era morto quello che Alberto ricorda come “il terribile direttore del Santa Maria della Pietà. Si erano create tante categorie di malati. C’erano “i girasoli”, che potevano girare da soli, appunto”. Paolini fu annoverato in quella categoria e venne mandato a lavorare negli uffici dell’economato. Ma “la possibilità di uscire da solo si è realizzata solo negli anni Ottanta – racconta nel libro – quando andai a lavorare all’istituto don Calabria”.

I “ragazzi contestatori”.

Alberto parla anche di quando “i ragazzi contestatori scoprirono che esisteva un padiglione nuovo” al San Filippo Neri, che era stato accorpato al Santa Maria della Pietà. “Fecero saltare i lucchetti e lo occuparono. Resistettero anche alle guardie e cosi il San Filippo Neri si è dovuto accontentare del padiglione XVII”.

Fu lì che accadde una cosa molto importante per Alberto: “Finalmente ho potuto scrivere senza più nascondermi: i ragazzi contestatori avevano organizzato dei laboratori di scrittura, perché avevano l’idea che gli scritti delle persone ricoverate fossero delle cose importanti e belle da conservare”.

Una pagina indimenticabile. Il modo in cui Alberto racconta le “alterne fortune” dell’elettroshock al Santa Maria della Pietà dovrebbe essere studiato nelle università, scrive Paolini: “Praticamente scomparso negli anni Cinquanta, l’elettroshock ritornò dopo il ‘55 con il nuovo direttore, il professor De Giacomo, ma in una nuova veste: anziché essere applicato al paziente da sveglio, gli veniva praticata una’iniezione endovenosa di curaro, sostanza paralizzante del sistema muscolare”.

La pratica “furoreggiò”, racconta Alberto, nei vari padiglioni: “Negli anni Sessanta, anche se non ai livelli degli anni Quaranta, ciascuno dei medici si sbizzarriva e accoppiava l’elettroshock ora con uno, ora con un altro farmaco, a seconda del loro gusto personale”.

Sparì  solo nel  ’68,  per poi ritornare “nel corso degli anni Settanta, ma in grande stile e ancora con una nuova veste: la macchina era ancora più piccola, una specie di cuffia, da azionare tenendola con una sola mano”.

E venne la legge 180. E nel 1978, venne l’anno della legge 180. “L’elettroshock – scrive Paolini – ancora una volta fu messo sotto accusa, al punto da sparire negli ospedali psichiatrici pubblici. Ma resistette ancora nelle cliniche e negli ospedali privati. Ora si dice che stia preparando un grande ritorno. Sono proprio curioso di sapere come andrà a finire. Dicono di seguire Basaglia, ma a me pare proprio di no”.

Paolini dal 1990 vive in una casa famiglia. Appena arrivato, gli dissero che doveva essere autonomo, lavorare, pulire la casa e cucinare, cose che non aveva mai fatto nella vita. “Io mi trovavo meglio al Santa Maria della Pietà – dice – perché li stavo bene con i compagni. Ne avevo tanti che erano meravigliosi, ci dicevamo di tutto. E invece ora con la persona da cui sto più tempo è difficile parlare, con me discute solo di sport. Comunque sono quattordici anni che stiamo insieme e una certa confidenza l’abbiamo conquistata”.

E gli operatori? “Questi operatori vogliono che non si tenga in casa tanta roba, a me hanno buttato via tante cose alle quali tenevo, tra cui anche tanti scritti che tenevo da conto. Insomma, non mi vanno a genio questi operatori. Ci tengono a dire di essere loro seguaci dell’idea di psichiatria diffusa da Franco Basaglia. Mi pare però che i suoi insegnamenti li seguano poco. Solo quando fa loro comodo”.

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