Eric Gobetti e Carlo Greppi, Foibe: la macchina dell’oblio. Strumentalizzazioni politiche del Giorno del Ricordo –VALIGIA BLU — 4 Settembre 2021

 

VALIGIA BLU —

4 Settembre 2021

Foibe: la macchina dell’oblio. Strumentalizzazioni politiche del Giorno del Ricordo

 

 

Foibe: la macchina dell’oblio. Strumentalizzazioni politiche del Giorno del Ricordo

 

di Eric Gobetti e Carlo Greppi

 

 

10 febbraio 2021: il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, interviene in una cerimonia al villaggio di Dane, a pochi chilometri dall’attuale confine tra Italia e Slovenia, rifiutando il consolidato protocollo delle orazioni alla foiba di Basovizza. In questa occasione Mattarella ricorda che l’occupazione nazifascista della Jugoslavia, iniziata il 6 aprile 1941, ha provocato un milione di morti, e mostra alle autorità slovene e ai giornalisti internazionali presenti la fotografia di una fucilazione. “Contrariamente a quanto spesso si afferma”, argomenta il presidente italiano, “quella che vedete è la fucilazione di cinque partigiani sloveni per mano di soldati italiani, avvenuta qui, in questo villaggio, il 31 luglio del 1942”. In un silenzio irreale, l’interprete sloveno legge i nomi dei caduti: “Franc Žnidaršič, Janez Krajc, Franc Škerbec, Feliks Žnidaršič, Edvard Škerbec”.

 

 

 

 

 

Segue un lungo e commosso applauso, poi Mattarella riprende la parola: “Siamo qui oggi per fare finalmente i conti – a livello storico, istituzionale, politico e culturale – con il passato del nostro paese. Un paese che, prima ancora dell’avvento del fascismo, è stato guidato da una deprecabile brama coloniale e imperiale, che nel ventennio ha trovato il suo culmine più atroce”, aggiunge il presidente prima di inginocchiarsi davanti alle autorità slovene presenti, in evidente omaggio al famoso gesto di Willy Brandt a Varsavia, nel dicembre del 1970. “I crimini di guerra dell’Italia fascista vanno condannati senza tentennamenti, e ci aiutano a comprendere quella successiva pagina dolorosa della nostra storia, quella delle foibe e dell’esodo istriano, fiumano e dalmata. A questi eventi tragici è stato dedicato il Giorno del Ricordo il quale, tuttavia, senza contestualizzazione storica, rischia di far passare gli italiani, e i fascisti, per vittime di una violenza ‘slava’ improvvisa, indiscriminata, atavica. E invece la storia ci aiuta a capire come ogni manifestazione di nazionalismo aggressivo non porti che morte e distruzione, che poi – inevitabilmente – ti si ritorce contro. E non mi riferisco solo all’aggressione del 6 aprile 1941 e all’occupazione che è seguita, ma anche all’italianizzazione forzata di questi territori di confine, che ha prodotto indicibili sofferenze per due decenni”, termina il presidente Mattarella, tra gli applausi degli astanti.

 

 

Controstoria

10 febbraio tutto l’anno

La guerra delle cifre

Contro il Giorno del Ricordo?

La vittoria revisionista

Raccontiamola tutta

 

 

Controstoria

Naturalmente queste parole Sergio Mattarella non le ha finora mai pronunciate. Né, a oggi, lo ha fatto alcun alto esponente delle nostre istituzioni. Eppure, dopo la fine della guerra fredda e della logica dei blocchi contrapposti, si era tentata una via diversa per affrontare queste tragedie storiche.

Una Commissione mista storico-culturale italo-slovena (1993-2001) aveva lavorato per anni, producendo un documento che cercava di fornire un racconto condiviso dai due paesi sull’epoca di violenza che ha contraddistinto quest’area dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento.

In questo testo si può leggere, ad esempio, che durante l’occupazione italiana centomila jugoslavi subirono “l’internamento nei numerosi campi istituiti in Italia (fra i quali vanno ricordati quelli di Arbe, Gonars e Renicci)”. Solo nella Slovenia annessa, la cosiddetta Provincia di Lubiana, “migliaia furono i morti, fra caduti in combattimento, condannati a morte, ostaggi fucilati e civili uccisi. I deportati furono approssimativamente 30 mila, per lo più civili, donne e bambini, e molti morirono di stenti. Furono concepiti pure disegni di deportazione in massa degli sloveni residenti nella provincia”.

Mentre la ricerca ha proseguito in questa direzione, con un approfondimento sia delle violenze fasciste durante il ventennio e l’occupazione militare (1941-1943) sia di quelle delle vendette popolari e dei partigiani jugoslavi nel 1943 e nel 1945, le istituzioni dello Stato italiano hanno seguito intenti celebrativi diversi, incentrati sul vittimismo nazionale. In particolare a partire dall’istituzione del Giorno del Ricordo si è sempre più divaricata la distanza fra i risultati della ricerca storica e la narrazione mediatica a cui è soggetta l’opinione pubblica. Esistono oggi diversi strumenti che consentirebbero di approfondire la complessità di queste vicende, dal Vademecum per il Giorno del Ricordo realizzato dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia alla mostra virtuale A ferro e fuoco (a cura di Raoul Pupo), dedicata all’occupazione italiana della Jugoslavia tra il 1941 e il 1943.

 

 

VADEMECUM PER IL GIORNO DEL RICORDO –.ISTITUTO FRIULI VENEZIA GIULIA

https://www.irsml.eu/vademecum_giorno_ricordo/Vademecum_10_febbraio_IrsrecFVG_2019.pdf

 

 

 

A ferro e fuoco.

L’OCCUPAZIONE ITALIANA DELLA JUGOSLAVIA 1941-1943

Homepage

 

 

 

 

VIDEO

PROF. RAOUL PUPO INTRODUCE

 

 

 

 

 

 

 

Eppure la politica sembra evitare (o addirittura condannare) questo tipo di approccio, insistendo in una narrazione parziale, se non del tutto scollegata dai fatti.

“Ci raccontiamo sempre che siamo stati vittime della Seconda guerra mondiale, ma c’è anche un’altra parte che dobbiamo ricordare: quella in cui siamo stati carnefici”, scrivevamo ad aprile in un appello firmato da 133 studiosi – tra cui i sottoscritti – e studiose italiani, sloveni e croati e rivolto al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio dei ministri, al Senato, alla Camera, al Ministero della Difesa e a quello degli Affari esteri e della cooperazione internazionale. Si trattava di un invito alle istituzioni “per un riconoscimento ufficiale dei crimini fascisti in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’invasione della Jugoslavia da parte dell’esercito italiano” che, com’era prevedibile, è rimasto lettera morta.

E le istituzioni tacciono anche quando, come è accaduto di recente, si scatena l’ennesima gogna mediatica contro una figura pubblica – in questo caso uno storico dell’arte, prossimo rettore dell’Università per Stranieri di Siena – che osa anche solo mettere in discussione la narrazione tossica sulle foibe messa in circolo forzatamente negli ultimi quindici anni.

Ci riferiamo, ovviamente, al “caso Montanari”.

 

 

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Le foibe, la Giornata del ricordo e la richiesta di dimissioni: il caso Montanari non dovrebbe nemmeno esistere

 

 

 

10 febbraio tutto l’anno

Cosa ha detto Tomaso Montanari di così sconvolgente? La sua è stata una “mascalzonata” che “svilisce la grande tragedia”, come ha sostenuto Aldo Grasso sul Corriere della Sera il 28 agosto? I “conti col passato” possono essere fatti davvero grazie a “una visione più condivisa della storia nazionale”, come ha sostenuto sul medesimo quotidiano Antonio Polito, accorpando in un’unica polemica esternazioni filofasciste come quella del leghista Claudio Durigon e le posizioni di Montanari, e invocando “forme di ‘pacificazione’ senza impossibile ‘parificazione’ di responsabilità storiche ormai acclarate”?

Il futuro rettore è intervenuto proprio per il bisogno – legittimo e a nostro avviso anche necessario – di fare i conti con il passato, e di farli con onestà intellettuale. Partendo dall’accesa controversia sulla nomina di Andrea De Pasquale alla guida dell’Archivio Centrale dello Stato, il docente ha esternato sul Fatto quotidiano del 23 agosto la propria preoccupazione per la “cancellazione della storia che racconta cosa fu davvero il fascismo e cosa è stato il neofascismo criminale nella seconda metà del Novecento. Non si può nascondere che alcune battaglie revisioniste siano state vinte, grazie alla debolezza politica e culturale dei vertici della Repubblica. La legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo (delle Foibe) a ridosso e in evidente contrapposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo di questa falsificazione storica”. Sono osservazioni condivise dalla comunità degli storici e delle storiche, e che hanno scatenato l’immediato (e prevedibile) shitstorm da destra. L’accusa – ormai scontata – è quella di “negazionismo”. Che riguarda anche, ma solo in parte, la “contabilità dei morti”.

Con poco rispetto del dato attestato dagli addetti ai lavori e gusto mediatico per l’iperbole, in questi anni sono state sparate cifre astronomiche, come quando il conduttore televisivo Paolo Mieli è arrivato a sostenere in una puntata de La Grande Storia che le vittime delle foibe (tutte “innocenti”, secondo lui) sarebbero decine se non “centinaia di migliaia”, centuplicando così le stime piuttosto precise degli storici sulle quali ci stiamo per soffermare brevemente. Al di là della denuncia della macchina mitologica della destra postfascista, la “colpa” di Montanari sarebbe quella di aver citato la celebre lettera a Mattarella dello storico Angelo d’Orsi che, a febbraio 2020, ricordava che “la storiografia ci dice tutt’altro dalla chiacchiera politico-mediatica: le vittime accertate, ad oggi, furono poco più di 800 (compresi i militari), parecchie delle quali giustiziate, essendosi macchiate di crimini, autentici quanto taciuti, verso le popolazioni locali” e specificava che “nessun generale italiano accusato di crimini di guerra [commessi in Jugoslavia, NdR] è mai stato punito”.

 

La guerra delle cifre

 

Al di là delle vittime “accertate” (effettivamente ritrovate nelle foibe) citate da d’Orsi, intervenuto nuovamente il 29 agosto su La Stampa e poi il 30 agosto sul Fatto quotidiano, Montanari ha sottolineato il fatto che la versione neofascista di quella vicenda complessa è diventata la narrazione ufficiale dello Stato italiano e ha, tra le altre cose, riportato ai lettori le stime su cui tutti gli studiosi seri concordano, vale a dire che nel fenomeno noto come “foibe” (ma la maggior parte delle vittime non vennero effettivamente “infoibate”, bensì morirono nei campi di prigionia a fine guerra) sono morte “circa 5000 persone – fascisti, collaborazionisti ma anche innocenti – per mano dei partigiani di Tito”. Cosa ci dicono queste nude cifre?

 

Se si vuole comprendere un contesto storico – e non avallare una visione puramente nazionalista – i morti “delle foibe” andrebbero confrontati con le altre vittime in quel contesto geografico; e ci limitiamo a soffermarci sul contesto dell’Alto Adriatico e delle aree a ridosso dell’attuale confine italo-sloveno, per non fare impallidire questi numeri se confrontati con i milioni di morti (tedeschi compresi) dello stesso periodo in varie parti d’Europa. Lo abbiamo visto: i soldati italiani fucilarono migliaia di partigiani e civili durante l’occupazione, ne internarono decine di migliaia e circa 5000 morirono di stenti nei campi di concentramento. L’occupazione italiana è durata due anni e mezzo, ma il rastrellamento condotto dai tedeschi nell’ottobre del 1943 fece, in meno di una settimana, circa 2500 morti, in gran parte civili. Nelle stesse identiche zone dove, nei giorni precedenti, la vendetta popolare e partigiana aveva ucciso circa 500 persone. Tuttavia di queste migliaia di morti nelle stesse zone, nei mesi precedenti e successivi alle foibe, in effetti, non si parla mai. Si preferisce insistere sul mito infondato della “pulizia etnica”, anche questa una interpretazione respinta dagli studiosi, che parlano piuttosto di “resa dei conti” ed “epurazione preventiva”, ma sempre in termini politico-ideologici, non nazionali. In nome di una malintesa concezione di patriottismo, si finisce per innescare un paradossale capovolgimento della narrazione antifascista: si celebrano solo le vittime della Resistenza (sia essa italiana o jugoslava) e non quelle uccise da fascisti e e nazisti, quasi come se quelli non fossero “nostri” morti, non meritassero la nostra attenzione.

In questo modo le vittime vengono usate politicamente e in modo a-storico, e la legittima memoria privata delle famiglie viene sostituita da una narrazione martirologica, nazionalistica e mitica. I morti che celebriamo (ignorando volutamente gli altri) finiscono inevitabilmente per sembrare tutti fascisti, come gli eroi del recente film coprodotto dalla Rai, Rosso Istria. Ed è proprio questo, ci pare, che qualche politico senza scrupoli vorrebbe dimostrare.

Secondo Giorgia Meloni, che storica non è e che nell’agone politico attuale ha importanti interessi da difendere e capitalizzare, è “falso e puro riduzionismo dire che nelle foibe sarebbero morte cinquemila persone”. Al di là dell’uso strumentale del lessico preso forzatamente a prestito dagli studi sulla Shoah e sugli altri genocidi del Novecento (il “riduzionismo”, come il “negazionismo” attribuito falsamente a molti studiosi e studiose), “il folle messaggio” del futuro rettore di Siena sarebbe “che infoibare migliaia di ‘fascisti’ non sia stato un crimine”.

Attribuendo un “folle messaggio” alle parole di Montanari, e rasentando la diffamazione, Meloni sta però dicendo altro. Naturalmente non stupisce che la leader del partito erede, per filiazione, della Repubblica sociale italiana e del Movimento sociale italiano gridi allo scandalo contro chi considera una colpa il “non essere stat[i] ostil[i] al fascismo (come gran parte degli italiani di allora)” e invochi de facto la legittimità di essere (considerati) “fascisti” oggi. Ricordiamo che questi “fascisti” di oggi che Meloni mette costantemente tra virgolette, compresi i suoi giovani di Aliud, non esitano a minacciare fisicamente – e a più riprese – gli storici, percepiti come intrusi nel loro “campo” culturale.

 

Febbraio 2020, Torino. Striscione minatorio di Casa Pound contro Gobetti. Fonte: Nuovasocietà.it

 

 

“Mi auguro che qualcuno abbia la decenza di fermare questa pericolosa deriva”, scrive sempre Meloni su Il Giornale il 29 agosto, in quella che suona come una cupa intimidazione. Almeno questo è il “folle messaggio” che “passa dalle sue parole”. “Siamo al punto in cui la leader di un partito palesemente neofascista può accusare un professore antifascista di essere antidemocratico e dunque indegno di ricoprire una carica istituzionale”, ha commentato, a ragione, Montanari su Twitter il 29 agosto. “Ma dove sono i vertici della Repubblica, che hanno giurato sulla Cost[ituzione] antifascista?”, ha chiesto.

E ce lo chiediamo anche noi.

 

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Contro il Giorno del Ricordo?

Questo significa essere contrari al Giorno del Ricordo? Non necessariamente. Significa piuttosto essere contrari a un’imbarazzante semplificazione, all’uso strumentale (nello specifico dell’estrema destra) della “complessa vicenda del confine orientale” (occidentale, se visto dall’altra parte) evocata dalla stessa legge istitutiva. Significa in definitiva che pretendiamo dai rappresentanti della Repubblica italiana, in una logica aderente allo spirito della Costituzione, un’assunzione di responsabilità pubblica dei drammi provocati dalla politica di potenza dell’Italia fascista. E che le violenze – oltretutto successive, e in parte consequenziali – subìte da molti italiani vengano correttamente ricordate come il risultato di un circolo vizioso di odio scatenato dallo stesso fascismo. Il racconto pubblico che la destra ha consolidato come senso comune si basa invece sulla deliberata rimozione dei crimini fascisti. Dalla conquista della Libia e dell’Africa Orientale, passando per i bombardamenti sulla Spagna repubblicana, per giungere alla guerra contro i civili in Grecia, Unione Sovietica e appunto in Jugoslavia, l’esercito italiano in epoca fascista si è macchiato di indicibili atrocità, sterminando le popolazioni locali, guidato da una feroce sete imperiale.

Un imperialismo e un nazionalismo ancora in larga misura taciuti nel racconto mainstream del Novecento italiano, oppure – ed è peggio – narrati come una legittima ambizione a un ruolo di grande potenza. I soli massacri di Addis Abeba e Debre Libanos in Etiopia, tra febbraio e maggio del 1937, produssero oltre 20.000 morti – quattro volte quelli “delle foibe” – in una sanguinosa caccia all’uomo che coinvolse gran parte della società coloniale. Eppure non ricordiamo un solo esponente delle istituzioni che abbia riconosciuto le colpe dell’Italia in questa tragedia, per non parlare del silenzio che ha accompagnato nel 2016 la ricorrenza degli ottant’anni dell’“impresa” imperialista in Etiopia. La strada è ancora lunga: e scusate se – da storici e studiosi del tema – al momento abbiamo la sensazione che questa data memoriale altro non sia che una macchina dell’oblio e dell’orgoglio nazionale. E nazionalista.\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\

 

La vittoria revisionista

L’anno successivo all’istituzione del Giorno del Ricordo, Sergio Luzzatto già dava voce al sospetto che fosse quella resistenziale, e non quella fascista, a “somigli[are] fin troppo a una storia dei vinti”. Un anno dopo Giovanni De Luna firmava un articolo dall’eloquente titolo Resistenza: hanno vinto i revisionisti: complice la stagione di governi di destra che avevano permesso al revisionismo di dilagare, si iniziò a parlare, ancora con Angelo d’Orsi, di “rovescismo”. Ormai nello spazio pubblico sono più presenti le violenze sporadiche sui fascisti che quella sistemica del regime e di Salò; nella logica del “non esistono morti di serie B” i gerarchi della RSI dovrebbero essere degni dello stesso rispetto degli antifascisti che lottavano per un’Italia libera e democratica, e persino delle vittime innocenti dei crimini fascisti.

Ora il partito che – senza una chiara elaborazione del suo passato e della sua incompatibilità con la democrazia repubblicana, come ha scritto Piero Ignazi su Domani –, raccoglie l’eredità di quella esperienza, Fratelli d’Italia, dopo aver proposto che l’articolo del codice penale che punisce chi nega, minimizza gravemente o fa apologia della Shoah renda perseguibile anche chi fa lo stesso con i “massacri delle foibe”, prosegue la sua offensiva. Lo scopo di fare di quella vicenda (decontestualizzata, ingigantita e mitizzata) il contraltare nazionalista della Shoah è sempre stato piuttosto esplicito, come ha egregiamente dimostrato lo stesso De Luna ne La repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisae come ricorda oggi (sabato 4 settembre) su La Stampa, anche nell’ottica di insabbiare ulteriormente i crimini dell’Asse, ribaltando letteralmente la mappa dei valori dell’Europa postbellica. È l’obiettivo di chi, nella “partita” della memoria pubblica, vuole che un gerarca fascista fedelmente schierato dalla parte dei nazisti debba essere ricordato (e celebrato), esclusivamente in quanto “vittima”, allo stesso modo di un neonato gasato ad Auschwitz. Come se le vite e non le morti fossero tutte uguali; come se non contasse nulla come e in base a quali valori le persone hanno vissuto – se è stato loro concesso di farlo.

È noto infatti che negli ultimi vent’anni, in Italia e in molti altri paesi, ha trionfato quello che è stato definito dallo stesso De Luna (ma non solo) il “paradigma vittimario”: una rivendicazione continua (e che struttura rapporti di “concorrenza”) dello statuto di “vittima” da parte di chiunque, di cui hanno sapientemente approfittato i nostalgici del fascismo e i post-fascisti. Anche da parte di chi, in effetti, era stato carnefice, o difende i carnefici di allora, o propugna una visione discriminatoria di nuovi “altri”: ieri erano gli slavi, gli etiopi, gli ebrei; oggi, per fare gli esempi più scontati, sono i migranti e i rom. Per dirla in breve: la giusta e tardiva centralità della Shoah nel discorso pubblico viene usata, in un meccanismo perverso, per fornire argomenti ai sacerdoti del nuovo odio, che spesso si rappresentano come vittime di qualcosa o qualcuno. L’ha scritto molto chiaramente la semiologa Valentina Pisanty: “È triste a dirsi, ma l’efficacia della narrazione ‘olocaustica’ ne ha, sì, determinato l’egemonia culturale, ma anche la perversa mutazione in paradigma vittimario con cui chiunque può farsi scudo mentre avanza a spallate a spese delle vittime vere”. Gli alfieri del “non si può più dire niente” diventano infine quelli che evocano misure draconiane – ancora, di nuovo, sempre – contro chiunque intralci la loro strada. Non stupisce che a farlo siano i rappresentanti dell’estrema destra, quanto che a seguirli siano le firme “illustri” dei quotidiani di tradizione liberale e addirittura politici con recenti trascorsi di sinistra, come Gennaro Migliore, sempre su Twitter, il 25 agosto: “Ma vi pare possibile che il [futuro, n.d.r.] Rettore di una prestigiosa Università come quella degli [per, n.d.r.] Stranieri di Siena definisca “revisionismo storico” la Giornata del Ricordo? A me no. Chi nega una tragedia come quella delle #foibe non ha proprio nulla da insegnare”. Non stupisce, forse, ma indigna, che l’onestà intellettuale venga sacrificata in nome della sopravvivenza nella politica del presente e delle sue logiche mediatiche.

 

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Un quarto di secolo fa Gian Enrico Rusconi (non certo un “agit-prop”, per riprendere ancora le parole con cui Grasso definisce Montanari) ci ammoniva: l’offensiva storico-politica di Alleanza nazionale, partito “padre” di FdI, proponeva con forza inedita “innanzitutto il riconoscimento della dignità e dell’onore personale dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana”. Ma nel discorso pubblico si chiedeva qualcosa di politicamente più rilevante, insisteva Rusconi, e cioè che si ammettesse che le motivazioni dei fascisti “avevano ragioni storicamente valide che oggi si possono finalmente dire ad alta voce: erano le ragioni dell’anticomunismo”; tesi non originale che puntava a “spostare l’asse politico più a destra”. Pare ci siano riusciti, e anche piuttosto efficacemente.

 

Raccontiamola tutta

 

Pochi anni dopo l’istituzione del Giorno del Ricordo, Claudio Pavone scriveva nella sua Prima lezione di storia contemporanea che “le invocazioni ad una memoria unificata, fatte nell’ambito di una comunità nazionale, nascondono un sottofondo nazionalistico. […] La memoria riconciliata è una variante peggiorativa della memoria condivisa. Sono i popoli che debbono riconciliarsi; ma non avrebbe senso che la memoria dei democratici si riconciliasse con quella dei responsabili dei vari totalitarismi, o che la memoria dei colonialisti si riconciliasse con quella dei colonizzati e del cammino da loro percorso per liberarsi. Antifascisti ed eredi del fascismo hanno in Italia trovato modo, in virtù della vittoria dei primi, di convivere per più di mezzo secolo, ognuno con la propria memoria, irriducibile a quella dell’altro. Smussare, levigare, ripulire, addomesticare le memorie significa addormentarsi nella convinzione che le grandi partite della storia si concludano con un pari e patta”.

Così non può, così non deve essere.

Come abbiamo scritto in un altro appello firmato da centinaia di studiosi/e e cittadini/e a febbraio 2020 proprio in occasione delle minacce fasciste a uno dei due firmatari di questo articolo, la storia va raccontata, e va raccontata tutta, “senza edulcorare le responsabilità che il nostro paese ha avuto nell’aggressione alle popolazioni che abitavano la penisola balcanica o nelle guerre coloniali […] Restituire alla verità storica e alla memoria pubblica le pagine più oscure del nostro passato è un dovere a cui non vogliamo sottrarci. Lo facciamo da tempo, ma ci impegneremo a farlo con ancora maggiore convinzione nelle scuole, negli Istituti di ricerca, nelle università, negli spazi pubblici reali e virtuali e ovunque sarà possibile”.

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