AI CARI MARISA E GIORGIO LORETI, UN ANNO DI PACE ! Saltapasti. Un cane tra i partigiani liguri -di Bruno Luppi edito da La Pietra, 1979 – ristampato nel 2021

 

GRAZIE AD ADRIANO MAINI : https://grupposbarchi.wordpress.com/author/adrianomaini/

 

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Un tratto della strada che unisce Castelvittorio (IM) a Baiardo

 

 

Bruno Luppi.

Nato a Novi di Modena l’8 maggio 1916. Figlio di un antifascista, fin da ragazzo prese parte alla lotta clandestina contro il regime fascista e, nel 1935, venne arrestato e incarcerato a Modena.  Trasferitosi a Taggia (IM), si inserì nell’organizzazione comunista clandestina di Sanremo (IM). L’8 settembre 1943 era ufficiale dell’esercito quando venne catturato dai tedeschi. Riuscì però a fuggire a Roma dove partecipò ai combattimenti di Porta San Paolo. Tornato nuovamente in Liguria, fu tra gli organizzatori della lotta armata ed entrò a far parte del C.L.N. di Sanremo.
Per incarico della Federazione Comunista di Imperia il 20 giugno 1944 organizzò, con altri dirigenti del partito, la prima formazione regolare partigiana del ponente ligure, la IX^ Brigata d’Assalto Garibaldi “Felice Cascione”,  con sede nel bosco di Rezzo (IM), la quale diventò a luglio 1944 la II^ Divisione “Felice Cascione”.  Il 27 giugno 1944 da comandante di Distaccamento venne gravemente ferito nella battaglia di Sella Carpe tra Baiardo (IM) e Badalucco (IM). Per mesi riuscì avventurosamente, ancorché costretto alla macchia pur nelle sue tragiche condizioni di salute, a sottrarsi alla cattura da parte del nemico. In seguito, appena guarito, assunse la carica di vice commissario della I^ Zona Operativa Liguria.

da Vittorio Detassis

su Isrecim  = Istituto Storico della Resistenza della provincia di Imperia

 

 

Scorcio dell’abitato di Castelvittorio (IM)

 

” Fu una giornata di festa: i visitatori si trattennero fino al tardo pomeriggio.
Mario Tucin, mentre i tre mangiavano, raccontò nei particolari la battaglia dei primi di luglio 1944; poi, con emozione, a Erven: “Da quel giorno dell’aprile ’44, quando tu, Vitò e un gruppo di vostri partigiani scendeste per primi a Castelvittorio, e deste fuoco sulla piazza a carte e arredi della sede del Fascio, alle liste di leva, ai ruoli delle tasse, e vedemmo i pochi fascisti del paese scappare a nascondersi, non mi siete più passati di mente. Vi ho sempre avuti nel cuore come angeli venuti dal cielo; io da sempre sono contro i fascisti e come me l’Acido e quasi tutti gli uomini del paese”.
Erven gli sorrise, e lui, volto a Chechin, lo complimentò per la tenda e apprezzò la scelta del posto. Ma a Chechin venne di dire: “Però, se ci individuano e ci dovessero girare addosso il tiro dei mortai, saremmo come topi in trappola: qui non abbiamo ripari, non scampo in questa montagna ripida e in questo bosco impraticabile!”.
“Già, non avete scampo!” ripeté Mario, e restò assorto tenendo una mano sulla tesa del cappello di panno nero gualcito, come a tirar fuori dalla fronte un ricordo confuso. Poi, brillando luce negli occhi, d’improvviso esclamò: “‘A’ grota du Leuvu”, sì, ‘a’ grota du Leuvu”. Deve essere proprio in questi paraggi. L’Acido e io l’abbiamo saputo dai nostri vecchi che esisteva… e un giorno, tanti anni fa, ci siamo stati dentro!”.
Invitò Chechin a seguirlo e, facendosi strada per l’intrico del bosco, con l’agilità e la forza, lui quasi cinquantenne, da fare invidia a un giovane, si arrampicò per la costa e scomparve. Si ricordava di una piccola radura in quella zona del bosco, fatta di roccia arida coperta di gramigna nella parte assolata e di muschio nel declivio umido. Cercò a lungo ma solo quando si trovò in alto riuscì a individuare nel bosco la radura. Vi scese; vi riconobbe la roccia grigia, le pietre, i massi sepolti fra rovi ed erbacce. Frugò con occhio attento ogni pietra, ogni macigno fino a che, alla base di una sporgenza rocciosa, notò fra due massi un piccolo foro. Chiamò Chechin per farsi aiutare a spostare i massi; e n’ebbero appena spostato uno che apparve una cospicua buca, aperta in una specie di cunicolo che, scendendo, si perdeva nel buio.
“Eccola!” disse a Chechin esultando come avesse scoperto un tesoro. “Qui sotto avete spazio per nascondervi e per ripararvi anche dalle V2”.
La radura rimaneva poco in alto e a una ventina di metri dalla tenda. Ridiscesero; Mario con la moglie e la figlia ripartì per rientrare a casa, promettendo di ritornare presto a trovarli […] Uno di quei giorni Mario Tucin venne in compagnia del famoso Acido. l tre ci tenevano a conoscerlo e Mario li aveva accontentati. Era, l’Acido, piuttosto piccolo, grassoccio con tendenza al tondo anche nell’ovale del viso, fronte spaziosa per la calvizie, guance sane e fresche nonostante marciasse verso la sessantina, occhi piccoli e arditi come il temperamento che esprimeva nella energia dei movimenti e nella parlata rapida e concisa del tipico dialetto di Castelvittorio.
Quando Erven, nel porgergli la mano, gli disse: “Sono contento di conoscere un coraggioso come voi, un nostro amico”, egli si illuminò e disse: “Ho imparato da mio padre ad amare la giustizia. Noi di Castelvittorio siamo abituati al lavoro, alla fatica e alla vita semplice, vogliamo bene a Cristo e alla Madonna, ma guai se ci pestano! Vogliamo vivere con dignità. Per questo il fascismo non ci va e non ci è mai andato. Le prepotenze malvolentieri le sopportiamo; e abbiamo fatto le ‘giornate di luglio’. Siamo tutti con voi partigiani”.
Fu piacevole la conversazione con lui e con Mario Tucin. Al termine, su proposta di Erven, Mario e l’Acido si presero l’incarico di organizzare in Castelvittorio il CLN. ”

Bruno LuppiSaltapasti, La Pietra, Milano, 1979

 

 

” Nello stesso istante, gli parve udire le voci di Vendetta e Picun, i due partigiani che, nello «stagiu», custodivano il ferito [Bruno Erven Luppi]. Decise allora di uscire. Aveva appena messo piede fuori del casone, che gli comparve davanti, simile a un fantasma, una figura umana.
Prima che la paura lo agghiacciasse, ce la fece a raffigurare nella statura non alta dell’individuo, nei capelli folti e incolti, nella barba a due pizzi, nello sguardo vivo e penetrante sotto le sopracciglia nere e la fronte bassa, la sagoma del Tin. Convinto che il Tin fosse venuto per il «furto del latte», già era per dirgli che «sì il latte glielo aveva rubato… ma per non lasciar morire la cagnetta di fame e di esaurimento dopo un parto di cinque cuccioli; e perché era sicuro che se glielo avesse chiesto, sia lui che la sua vecchia, per tirchieria, avrebbero rifiutato, e…». Non terminò di pensare queste cose che il Tin, spalancando le braccia e col tono smorzato della sua voce di mago, diceva: «Come! voi dormite e non v’accorgete che il teutonico avanza! Sale da Castelvittorio, scende dal Ceppo e già accampa in Valéia e a Baiardo. Ma voi restate a poltrire; e, per giunta, con un ribelle ferito! Incoscienti, siete…».
«Come fate a sapere queste cose» gli chiese Chechin «quando noi, che abbiamo le vedette in giro, nulla sappiamo?».
«Figlio del Zorzu, come sempre non credi al Tin; anche se hai fatto il soldato… ragazzaccio eri e ragazzaccio rimani… che tiravi sassi al mio osservatorio! Chi me lo ha detto? Il Tin non ha bisogno di informatori! Il Tin legge nel firmamento: l’incrocio delle Termali con la Quintana, e la Moretta e la Zoppa, brillando di luce rossa, che è sangue e fuoco, preannunciano morte, incendi e distruzione in queste terre per mano del teutonico. Il Tin è venuto ad avvisare; e non per voi, incoscienti, ma per quel ferito … Del resto poi, fate quel che vi pare: ma ti ricordo che “chi non crede alle stelle e fa di sua testa, paga di sua pelle”». Detto ciò, con un saltello, voltò le spalle a Chechin e prese giù per il ripido vallone.
Era scesa nel fondo delle valli e nei boschi più intensa l’oscurità, dopo che la luna era calata dietro la vetta del Ceppo; ma, già all’estremo orizzonte, molto al di là del lungo promontorio su cui si stendevano le grigie case di Baiardo, il cielo schiariva nei primi albori del giorno. Chechin, scomparso l’astronomo e mago nella boscaglia del vallone, scese allo «stagiu». Chiamò Picun e Vendetta e riferì l’avvertimento del Tin.
«E dài ascolto al matto!» esclamò Picun. In quel mentre un bagliore di fuoco parve incendiare la terra sotto il passo per Castelvittorio e un boato echeggiò, con potente frastuono per tutta la distesa delle valli e dei monti. I tre stavano ancora con gli occhi fissi verso il passo, quando videro, sempre nella stessa direzione, sfrecciare al di sopra dei castagni e dei pini una lingua di fuoco che andò a esplodere verso le stelle producendo una gran pioggia di luci le quali, cadendo, illuminarono a giorno tutta la vallata.
«Ha ragione il Tin» disse Vendetta sogguardando Picun. «Quel razzo conferma che i rastrellatori han già preso posizione; e noi ce li vedremo piombare addosso da ogni parte da un momento all’altro».
Tacque, interrotto dalla Lilla che dal fienile s’era messa ad abbaiare così forte da svegliare Giuà e i due partigiani, i quali, imprecando, s’erano affacciati alla porta del fienile. Vendetta gli ordinò di raggiungere subito il loro distaccamento; poi, con Picun e Chechin, si occupò del ferito.
Rimediarono una specie di barella, vi legarono sopra il ferito, quindi, afferratala ai due capi, lui e Picun, lasciato Giuà u’ Zorzu a far sparire le tracce della loro presenza nel casone e seguiti da Chechin con un carico di coperte, presero verso il fondo del vallone.
Fu difficile scendere per il sentiero stretto, ripido, ostacolato da sterpi, e raggiungere il greto del ritano; ma più arduo fu risalire per oltre una quarantina di metri il ritano per sassi scivolosi, massi da scavalcare, strapiombi, strettoie di rocce e di rovi, erbacce che intricavano le gambe o nascondevano buche e dislivelli. Tuttavia, i tre, pure a costo di strappi ai muscoli, di storte e di graffi, riuscirono ad arrivare al «rifugio». Si trattava di una tana, o spelonca naturale scavata nella roccia, a livello del greto del ritano, con una profondità di circa tre metri, una larghezza informe di due e un’altezza che, da un metro e mezzo all’ingresso, scendeva nel fondo a una ventina di centimetri.
[…] Il bombardamento di mortai si prolungò fin verso mezzogiorno; poi, da sotto il Poggio di Mezzan, scoppiarono raffiche di mitragliatrici. Ogni tanto il vento leggero portava urla di voci rauche, feroci, incomprensibili.
Nella tana nessuno fiatava. Col silenzio ognuno aveva l’impressione di tenere lontano il nemico. Solo durante una pausa del frastuono, Vendetta bisbigliò: «Qui vi possono arrivare solo se li guida una spia». Assentirono Chechin e Picun; il ferito sussurrò un «già>.
Stavano così, raccolti, sempre muti e col batticuore, quando Vendetta, con un gesto allarmante li richiamò all’ascolto. Gli era parso di udire un rumore di passi e di rami secchi calpestati da sotto il ritano. Ascoltarono gli altri tre e impallidirono. Si udiva rumore e tutti e tre pensarono ai tedeschi lì guidati da una spia. Se non fossero però stati sconvolti da questa preoccupazione, avrebbero potuto distinguere nel rumore i passi di una sola persona. E comparve infatti davanti alla spelonca una sola persona: era Marì, la quindicenne sorella di Chechin. ”

Bruno LuppiSaltapasti, La Pietra, Milano, 1979, ristampa del 2021 a cura di Francesco Brilla, Sezione ANPI Silvio Bonfante “Cion”, Montegrande, pp. 11-14

 

 

 

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2 risposte a AI CARI MARISA E GIORGIO LORETI, UN ANNO DI PACE ! Saltapasti. Un cane tra i partigiani liguri -di Bruno Luppi edito da La Pietra, 1979 – ristampato nel 2021

  1. DONATELLA scrive:

    Emozionanti queste pagine, che ci restituiscono la paura, il coraggio, il freddo, l’incertezza patiti giorno per giorno da quei coraggiosi, realistici sognatori.

  2. Adriana scrive:

    Conosco questo libro da quando ho iniziato la mia carriera da insegnante nel 1992. Lo avrò letto almeno 15 volte e ogni volta piango per la grande umanità che scaturisce dalle parole di Erven e dei suoi amici. Vivo nei luoghi da lui descritti e posso garantire che le descrizioni corrispondono alla realtà, così come sono reali le considerazioni degli ultimi capitoli. La storia dovrebbe essere riscritta, a partire da quel 25 Aprile 1945, data in cui quei giovani avevano creduto che le cose fossero cambiate…non è stato così…
    Inviterei tutti a visitare gli anfratti, i sentieri, i ritani, le grotte e i casoni in cui Erven, ferito gravemente, era trasportato a spalla e nascosto per evitare la sua cattura…solo vedendo questi posti e affrontando le difficoltà dei percorsi si possono comprendere i disagi che ha vissuto e l’amicizia che lo ha legato ad Alessandro. Auguro ad ogni persona che legge il libro, di incontrare un Alessandro come quello che ha incontrato Erven:la parola uomo acquisterà il suo vero valore!

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