+++ ISAIA SALES, Alfabeto delle mafie: “L” come Letteratura –REPUBBLICA.IT / DOSSIER –STORIE DI MAFIA 25 DICEMBRE 2022 

 

 

REPUBBLICA.IT / DOSSIER –STORIE DI MAFIA

25 DICEMBRE 2022 

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Alfabeto delle mafie: “L” come Letteratura

 

Anche gli scrittori hanno riproposto nei confronti delle mafie un atteggiamento non diverso da quello del mondo politico e in genere delle classi dirigenti dei territori coinvolti

 

Perché i veristi non hanno mai citato la parola mafia? Sembra incredibile, ma in Italia e in Sicilia per un lungo periodo storico si è negata addirittura l’esistenza stessa di un’organizzazione criminale denominata mafia. Questo “negazionismo” si è protratto fino agli anni Ottanta del Novecento.

Un magistrato del tribunale di Palermo chiese a Falcone a metà degli anni Ottanta: “Giovanni, ma tu sei sicuro che la mafia esiste?” E questa negazione o sottovalutazione ha poi riguardata nella seconda metà del Novecento anche la camorra napoletana e la ‘ndrangheta calabrese. Come sia stato possibile negare addirittura l’esistenza strutturata di forme criminali che hanno prodotto migliaia e migliaia di morti ammazzati dal 1861 in poi, è uno dei paradossi più incredibili della nostra storia, una delle responsabilità più gravi di diversi studiosi, di uomini di Chiesa, di giornalisti, di politici e di tantissimi funzionari dello Stato.

Tra questi ultimi spiccano magistrati, prefetti, questori, e tanti altri esponenti del mondo della giustizia e delle forze di sicurezza. Questi rappresentanti delle istituzioni vedevano all’opera i mafiosi tutti i giorni e li giudicavano per i loro delitti, eppure ne negavano l’appartenenza a una organizzazione segreta o ne ridimensionavano la pericolosità. E quando proprio non si poteva negare l’esistenza della mafia, o non era possibile ridurne la pericolosità, si ricorreva da parte di scrittori e di intellettuali alla giustificazione romanzata delle sue gesta, la si ammantava di nobili intenti e la si legava a un particolare senso dell’onore delle popolazioni meridionali o a un particolare senso della giustizia di chi ritiene che alle offese si debba rispondere da soli senza fare ricorso alle istituzioni preposte.

 

 

Anche la letteratura siciliana, che ha prodotto alcuni degli scrittori più potenti della letteratura italiana e mondiale, ha contribuito a suo modo a questa opera di negazione o di esaltazione, prima che i romanzi di Leonardo Sciascia spazzassero via il negazionismo e capovolgessero il canone interpretativo della mafia come una forma di giustizia popolare.

Il caso più clamoroso di negazionismo avverrà proprio con il Verismo. Resta incredibile come un movimento letterario e culturale come il Verismo, che ha avuto la Sicilia come terra di massima ispirazione, non abbia sentito il bisogno di descrivere la realtà e la verità della mafia. Gli scrittori siciliani non sono, certo, obbligati a parlare di mafia solo perché nati in un’isola in cui storicamente si è prodotta questa originale forma di criminalità organizzata, ma se un movimento letterario scrive nel suo programma di “non voler tradire il vero”, allora bisogna interrogarsi sul perché questo tradimento della realtà si è verificato proprio a proposito della mafia. Si è trattato di una particolare “omertà letteraria” o di “negazionismo romanzato”. I veristi in letteratura si sono comportati come una gran parte delle classi dirigenti siciliane, cioè contribuiranno ad occultare la presenza stessa della mafia nello scenario isolano. 

Mentre gli scrittori realisti napoletani (Francesco Mastriani, Ferdinando Russo, Matilde Serao, Raffaele Viviani) scrivono abbondantemente dei camorristi e delle loro attività criminali, a volte esaltandoli ma mai oscurandoli,

gli scrittori siciliani (Luigi Pirandello, Federico De Roberto, Giovanni Verga e Luigi Capuana) non nominano la mafia né come argomento né come parola. La mafia siciliana era parte della classe dirigente dell’isola e gli scrittori venivano dallo stesso ceto sociale che aveva intessuto rapporti con i mafiosi e li riteneva parte integrante del loro mondo. Di qui l’imbarazzo che provavano sul tema. Parlarne era quasi tradire i loro padri e i loro parenti e amici, o prestare il fianco ai “detrattori” della Sicilia come qualcuno di loro, in buona fede, credeva.

 

Invece, la camorra napoletana era espressione della plebe e non aveva nell’Ottocento già stabilito legami solidi con la classe dirigente. Perciò gli scrittori erano più propensi a parlarne e “liberi” nel farlo. Non era affatto questione su chi fosse più coerentemente realista o verista, era questione di ambiente sociale di provenienza degli scrittori e del diverso impatto con le mafie che le due distinte realtà geografiche avevano con le classi dirigenti. 

 

L’autore napoletano ottocentesco che più ha descritto minuziosamente la camorra è Francesco Mastriani, autore di più di 100 romanzi tra cui alcuni capolavori come I vermi e I misteri di Napoli. La sua opera è come un gigantesco catasto del male. Nelle vie torbide della città egli incontra i camorristi e fa un’illustrazione del loro comportamento tra le più eloquenti e minuziose che siano state mai fatte in letteratura.

Lo stesso faranno Ferdinando Russo e Matilde Serao che considerano la camorra plebea un’espressione autentica della napoletanità e come tale la cantano, compresa la ferocia e la superstizione. Rispetto agli autori precedenti, Raffaele Viviani non considererà i camorristi come espressione quasi nobile e coraggiosa della plebe. Al contrario, li descrive come la degenerazione e la corruzione della plebe. E li prende apertamente in giro nell‘opera teatrale Guappo ‘e cartone.

 

Invece, gli scrittori siciliani ignorano la mafia, non ne parlano, non ne usano mai il nome. Alcuni di loro lo fanno solo nei saggi, ma per negarne il carattere criminoso.

Tra i grandi intellettuali che, al pari del famoso etnologo Giuseppe Pitrè, negarono alla mafia la dimensione organizzativa e ai mafiosi qualsiasi attributo delinquenziale (alimentando così l’ideologia sicilianista che considerava qualsiasi accenno al crimine nell’isola come un’offesa all’onore dei siciliani, o come espressione di una congiura dei settentrionali contro gli interessi siculi)

vi fu Luigi Capuana, lo scrittore amico di Giovanni Verga, autore di alcuni capolavori della letteratura verista, che usò parole di fuoco nel libro L’isola del sole contro l’inchiesta che nel 1875 avevano svolto in Sicilia i toscani Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti fornendo il primo grande affresco sulla mafia. Nel saggio, Capuana arriva a dire che “la mafia una volta non voleva dire associazione di malfattori e il mafioso non era un ladro né un brigante. L’aggettivo mafioso significava qualcosa di grazioso e gentile, come chic dei francesi”. Comincia proprio con Capuana la distinzione tra una mafia del passato (buona) e quella del presente (cattiva).  E, in ogni caso, nei suoi romanzi, contrariamente che nei suoi saggi, la parola mafia non comparirà mai. Luigi Capuana in nessuna delle sue novelle o dei suoi romanzi parlerà di mafia o ne userà il termine.

 

L’ambiguità (e l’imbarazzo) sul tema della mafia riguarderà anche Giovanni Verga, Federico De Roberto e Luigi Pirandello, cioè alcuni dei più grandi scrittori della letteratura italiana e mondiale. Qualche critico ha decritto I vecchi e i giovani di Pirandello come il primo vero romanzo sulla mafia, ma è una valutazione assolutamente priva di fondamento.

Si tratta, invece, di un libro sul disincanto e la rabbia delle nuove generazioni di fronte alla degenerazione della vecchia classe dirigente che aveva fatto l’Unità d’Italia e che era pienamente coinvolta nella corruzione dilagante come dimostra lo scandalo della Banca romana di fine Ottocento di cui si parla nel libro, quello scandalo di cui fu uno dei principali  protagonisti il siciliano Francesco Crispi.

Certo, nel romanzo vengono fuori figure che potremmo definire di tipo mafioso ma il tema mafia non viene affatto apertamente affrontato né si usa il termine associato a una organizzazione criminale. Scriverà Sciascia a proposito: “Altri mafiosi vengono fuori dall’opera di Pirandello, specialmente colti nei loro giochi elettoralistici e specialmente nel romanzo I vecchi e i giovani, mai però designati come mafiosi. Se non ricordiamo male i termini mafia e mafioso non compaiono mai nelle pagine dello scrittore girgentano”.

Negli studi sulle mafie si fa poi riferimento ad un’altra opera di Pirandello, La lega disciolta, racconto tratto da Novelle per un anno e ambientato in Sicilia negli anni immediatamente successivi alle drammatiche lotte dei “Fasci siciliani”.

Il protagonista è una sorta di leader sindacale contadino, il cui modo d’agire, tuttavia, viene associato a modalità di agire mafioso, anche se la parola mafia, anche questa volta, non viene mai scritta. Più che un racconto sulla mafia, sembra piuttosto un attacco ai sindacati siciliani dell’epoca dei Fasci che nell’ideologia pirandelliana non possono che usare metodi delinquenziali per difendere i lavoratori.

Ancora più ambiguo e complesso è l’atteggiamento di Giovanni Verga. Egli sembra rispettare lo stesso silenzio sulla mafia degli altri scrittori. In Mastro don Gesualdo c’è un riferimento a un comportamento mafioso riguardo alla fucilata che uccide Nanni l’orbo, il marito di Deodata, ma non si dice affatto che si tratta di un omicidio che viene da quel mondo. Eppure, il grande scrittore catanese scrive una novella, La Chiave d’oro, che Leonardo Sciascia considera un capolavoro, che è forse la descrizione più impressionante nella letteratura di fine Ottocento di un tipico episodio mafioso ma senza usare la parola mafia. Ecco il riassunto che ne fa lo stesso Sciascia: “Un povero ladro di olive viene ammazzato da un campiere, nella proprietà di un canonico; il campiere, una specie di mafioso, scappa: e il canonico resta a far fronte alla “giustizia”, cioè a un giudice che arriva minaccioso, accompagnato da medico, cancelliere e sbirri. Fatto il sopralluogo, il giudice accetta “un boccone”: vale a dire un pranzo abbondante e accurato, che finisce col caffè “fatto con la macchina” e un bicchiere di liquore. Il giorno dopo, un messo viene a dire al canonico che il signor giudice aveva perso nel frutteto la chiave dell’orologio: “e che la cercassero bene che doveva esserci di certo”. Il canonico capisce, compra una bella chiave d’oro da due onze, la manda al giudice: “e il processo andò liscio per la sua strada”, il canonico indenne, il campiere usufruirà dell’indulto varato da Garibaldi. E il canonico usava poi dire del giudice: “Fu un galantuomo! Perché invece di perdere la sola chiavetta, avrebbe potuto farmi cercare anche l’orologio e la catena”. Un caso, dunque, di protezione violenta della proprietà terriera di un prete possidente e di corruzione dei rappresentanti della giustizia.

Questa novella registra, dunque, in maniera esemplare quelle dinamiche di mediazione sociale violenta che sono state individuate quale origine e fondamento socioeconomico del fenomeno mafioso, quantomeno nel suo primo radicamento rurale.

Elementi e circostanze che Verga doveva ben conoscere sia per esperienza diretta, in quanto proprietario terriero, “galantuomo”, che come lettore – non certo distaccato – dell’inchiesta che Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino avevano svolto in Sicilia (e che era stata aspramente criticata dal suo amico Luigi Capuana, come abbiamo visto prima) inchiesta che già individuava con precisione tali relazioni criminali tra proprietà terriera e mafiosi. Nel racconto verghiano esse sono manifeste nel rapporto tra il canonico, compiuta figura di latifondista che prescinde dalla legalità e ha un concetto affatto privatistico e prevaricante dell’amministrazione della “giustizia”, e il suo campiere, il sorvegliante armato a guardia dei feudi: al cui modello, come sappiamo buona parte della bibliografia scientifica fa risalire una delle prime attestazioni di quel fenomeno violento della protezione privata che contraddistingue la mafia rurale delle origini.

Insomma, Verga ci parla di un episodio mafioso, ma si preoccupa di non fare riferimento esplicito alla mafia. Dalle sue opere veriste la mafia e i mafiosi sono esclusi dalla scena, non compaiono, non esistono, e se compaiono non si dà loro il nome che essi avevano in Sicilia. In ogni caso, questo racconto, uscito su di una rivista nel 1883, non sarà inserito da Verga in nessuna delle sue raccolte mentre era in vita.

 

Federico De Roberto farà lo stesso ne I vicerè, il potente romanzo ambientato a Catania e dintorni che anticipa gli argomenti de Il Gattopardo. La modalità di agire dei nobili timorosi del passaggio al nuovo regno d’Italia e che sono pronti a qualsiasi compromesso con gli uomini violenti di altre origini, è anch’essa tipica di un contesto mafioso, così come l’atteggiamento degli uomini di chiesa a difesa di propri privilegi. E il trasformismo sembra connotare di sé ogni impegno politico.

Ma neanche in De Roberto troveremo la parola mafia. Alcuni critici hanno sostenuto che nella Sicilia orientale, dove erano nati e vissuti Capuana, Verga e De Roberto, il fenomeno mafioso a fine Ottocento non era così radicato come nella Sicilia occidentale. Cosa sicuramente non vera per la Girgenti di Pirandello e per la Sicilia delle zolfare che lui conosceva a menadito.

In ogni caso questi scrittori operano a ridosso dell’omicidio dell’ex sindaco di Palermo Notarbartolo, di cui fu accusato di essere mandante un parlamentare in carica, l’on. Raffaele Palizzolo, delitto e processi che occuperanno la scena per più di un decennio e daranno, a chi voleva informarsi, notizie certe sulle strette relazioni tra il mondo politico e quello mafioso.

Certo, lo ripeto, nessuno obbligava questi scrittori siciliani a lasciarsi ispirare dal fenomeno mafioso, né il fatto che non ne abbiano parlato incide minimamente sul ruolo che essi hanno conquistato nella grande letteratura. Ma dal punto di vista dei loro programmi manifestati nel guardare in profondità nella società che li circondava, è paradossale (è Sciascia a usare questo termine) come un movimento letterario e culturale come il Verismo non abbia sentito il bisogno di descrivere un tratto non occultabile della storia e della società siciliane.

Eppure, il termine mafioso era stato impiegato per la prima volta in letteratura nel 1863 in una rappresentazione teatrale di grande successo, I mafiosi de la Vicaria di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca.

Nella letteratura napoletana, invece, il termine camorrista sarà usato fin dal 1847 ad opera di Gaetano Valeriani nell’opera Porta Capuana.

Nella commedia di Rizzotto-Mosca è del tutto singolare che il protagonista sia un camorrista napoletano detenuto nel carcere della Vicaria di Palermo e non un mafioso siciliano. Infatti, nella commedia si usano come sinonimi il termine organizzazione camorristica e camorra per fare riferimento a mafia e mafioso. A dimostrazione che la camorra napoletana è nata prima della mafia siciliana e che è stata essa a fungere da modello organizzativo per la consorella siciliana.

Con la commedia I mafiosi de la Vicaria si definisce già un primo paradigma letterario della mafia: il legame della mafia con la rivoluzione garibaldina, ma soprattutto il legame mafia e politica. In particolare, si allude al ruolo politico del cosiddetto “Incognito”, rifermento quasi esplicito a Francesco Crispi, garibaldino e futuro presidente del Consiglio

Si definisce, inoltre, l’idea di un’organizzazione sì criminosa ma dalle finalità nobili, il legame con la rivolta antiborbonica e con la classe dirigente siciliana postunitaria. Fu quest’opera, tradotta dal siciliano in italiano, napoletano e meneghino, a diffondere definitivamente il termine mafia su tutto il territorio nazionale.
Ma dopo questa popolare commedia e con l’affermarsi del Verismo in letteratura, di mafia non si parlerà per molti decenni. I veristi, in fondo, condividono il canone del pensiero “sicilianista”: parlare e scrivere di mafia vuol dire identificare i siciliani nel crimine e, dunque, meglio tacere per non avvantaggiare i nemici della Sicilia!

Dopo la fase di negazione letteraria della esistenza della mafia da parte dei veristi e di Pirandello, comincerà un altro periodo della letteratura siciliana caratterizzata da una esaltazione eroica della mafia nei romanzi e nel teatro.

Una fase che durerà per oltre 50 anni, almeno fino a Leonardo Sciascia. In questa fase la letteratura siciliana si comporterà come la politica, contribuirà cioè alla mitologia mafiosa, attribuendo un alone romantico ai mafiosi. Sarà soprattutto la letteratura d’appendice a considerarli come dei vendicatori di ingiustizie. Secondo questo canone interpretativo, il mafioso è diverso dal criminale comune e si contrappone a chi detiene il potere e ricorre al delitto solo per difendere i più deboli.

Su questa scia, nel 1909, Luigi Natoli pubblica a puntate un fortunato romanzo d’appendice con lo pseudonimo di William Galt, intitolato I Beati Paoli. Sono questi “gli incappucciati neri”, un’organizzazione proto-mafiosa, composta da vendicatori dei torti subiti dalla gente del popolo da parte dei nobili, che hanno lo scopo di “portare giustizia laddove giustizia non c’è”. Con I beati Paoli si consolida il mito di una mafia che fa giustizia in favore dei più deboli. I frati incappucciati diventano gli antesignani nei secoli passati dei mafiosi.

Nel 1921 esce una commedia intitolata La Mafia il cui autore è Giovanni Alfredo Cesareo. Qui l’elemento nuovo è il presentare la mafia come riparatrice di ingiustizie nei confronti delle donne sedotte e poi abbandonate. In questa commedia la mafia non si presenta nel suo volto popolare, ma in guanti gialli, affaristica e borghese, cresciuta e prosperata dopo l’allargamento del suffragio universale e la possibilità del voto a strati sociali che prima ne erano privi. Protagonista è un prefetto del regno che viene dal Nord e che ha visto sua figlia “disonorata” dal figlio di un nobile il cui padre non vuole il matrimonio riparatore. Il prefetto si rivolge, quindi, a un capo-mafia, il cavaliere Rasconà, che ottiene il risultato di far sposare i due giovani in cambio di un pagamento con assegni per i servizi prestati dal mafioso A quel punto il prefetto non potrà fare più niente contro la mafia perché compromesso per “esigenze di famiglia”. Rasconà dà una particolare definizione della sua idea di legge di fronte al prefetto: “La giustizia c’è; ma solo per chi ha bastante animo da calpestarla. Perché io non sono la legge, che è la giustizia di pochi; ma sono la forza, che è la legge di tutti. Quando i deboli, i traditi, gli oppressi, si sono accorti che la giustizia era inganno e violenza, hanno detto: – E allora cambiamo le parti, e la violenza e l’inganno sia la nostra giustizia. Questo lei lo chiama mafia: in fondo non è che rivolta sociale”.  Meglio non si poteva dire di una considerazione della mafia come giustizia alternativa.

In Piccola pretura, del 1948, del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo, (delle cui idee sulla mafia ci occuperemo in seguito) viene presentato con una certa simpatia il personaggio mafioso di Turi Passalacqua, che risponde all’appello di un giovane pretore di consegnare alla giustizia l’assassino di un bimbo in un piccolo paese siciliano. Pietro Germi da questo romanzo trasse il film In nome della legge, uno dei primi in Italia sul tema della mafia, costruendo attorno a questa organizzazione criminale un senso di onore e di giustizia. Con questi “valori” la mafia siciliana si presenterà al pubblico che frequentava le sale cinematografiche in ogni parte d’Italia.

Ma è con Danilo Dolci che la mafia da fenomeno letterario di ammiccamento verso i difetti dei siciliani o di esaltazione diventa oggetto di approfondimento, di condanna e di lotta.

Era venuto da Trieste a vivere in Sicilia nel secondo dopoguerra e a guidare i movimenti non violenti contro la povertà e l’arretratezza della Sicilia. Aveva inventato gli scioperi alla rovescia, si era battuto perché venissero costruite le infrastrutture primarie, all’epoca mancavano nell’isola anche le cose essenziali come l’acqua potabile. Il suo primo sciopero della fame fu fatto dopo la morte di un bambino per denutrizione. Si era legato con Accursio Miraglia, (sindacalista di Sciacca assassinato il 4 gennaio 1947), con Placido Rizzotto (sindacalista di Corleone assassinato il 10 marzo 1948 da Luciano Liggio) e con Calogero Cangelosi (sindacalista che operava a Camporeale, nel territorio del capomafia Vanni Sacco e da questi assassinato il 2 aprile del 1948).

Questi incontri, fondamentali nella vita di Dolci, furono determinanti nel suo orientamento e, prima ancora, nella sua formazione. E questi incontri influenzarono i suoi scritti e le sue opere. Ricordiamo tra esse Spreco, Chi gioca solo, Racconti siciliani. Aveva sposato la moglie di un bandito ucciso dalla polizia che aveva diversi figli. Il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini in un su scritto aveva indicato come nemici della Sicilia non la mafia ma proprio Danilo Dolci e il romanzo Il Gattopardo di Tommasi di Lampedusa!

Poi arriverà Leonardo Sciascia e sarà tutta un’altra storia. Il suo primo romanzo sulla mafia, Il giorno della civetta, è del 1961. Con lui finisce l’omertà letteraria sulla mafia e i mafiosi non saranno più eroi positivi. E se anche fosse solo questo il merito di Sciascia (e non è così, perché la sua sarà grande letteratura) sarebbe già di per sé un merito straordinario. Leonardo Sciascia capovolge lo schema giustificativo della mafia e apre la stagione di una vera e propria letteratura civile. Contrariamente agli schemi del passato, non sono gli uomini della polizia e dei carabinieri “gli infami” o i magistrati. Gli esponenti dello Stato sono invece persone positive che cercano di contrastare il male rappresentato dai mafiosi, dai preti conniventi e dalla classe dirigente collusa, in particolare quella democristiana. Con la sua opera Sciascia sembra dire che il vizio e l’assassinio si sono posti in Italia e in Sicilia, che ne è una metafora, sotto l’ala protettrice della politica, della religione e del credo cattolico. La sua opera è un’autobiografia della classe dirigente isolana, compresa la Chiesa che ne è parte integrante.

Per quanto riguarda la ‘Ndrangheta, non si può dire che la letteratura calabrese abbia taciuto o ci abbia descritto una ‘Ndrangheta buona, come è avvenuto per tanto tempo per la letteratura siciliana.

È vero che il più grande scrittore calabrese del secolo scorso, Corrado Alvaro, non parla di ‘ndrangheta nella sua opera letteraria ma solo nei saggi, ma non per imbarazzo o altro, solo che ad ispirarlo era il realismo magico (che manifesta compiutamente in Gente di Aspromonte) che non si prestava ad una rappresentazione della ‘ndrangheta.

Ma non sono mancati affatto scrittori e poeti in grado di rappresentare la ‘ndrangheta per quello che era, senza infingimenti o senza autocensure come avvenne per i veristi siciliani.

Natalino Luncara (1916- 1967) descrive in Città delle corti del 1949 un mondo popolare dove dominano onore e vendetta. Egli ci dà una ampia e dettagliata riflessione sul tema mafioso in Calabria, dove lo ‘ndranghetista è descritto nella sua brutalità e animalità.

Fortunato Seminara (1903- 1984) in Disgrazia in casa Amato del 1954 ci parla di un maestro elementare che viene sfregiato da un pecoraio e al posto di farsi vendetta da solo (come imporrebbero le regole arcaiche di quella società) lo va a denunciare dai carabinieri.

Saverio Montalto scrive il primo romanzo sulla ‘ndrangheta nel 1945, anche se poi il libro esce solo nel 1973. Il romanzo si intitola La famiglia Montalbano, al cui centro c’è una ‘ndrangheta colta nella sua essenza delinquenziale e nei suoi rapporti con la politica senza alibi e giustificazioni.

Anche Saverio Strati ne Il selvaggio di Santa Venere ci parla, come in tutte le altre sue opere, di una ‘ndrangheta crudele e affaristica. Lo si può definire lo Sciascia calabrese.

Attualmente due scrittori calabresi di livello si occupano di ‘ndrangheta:

Mimmo Gangemi e Gioacchino Criaco. Il primo autore di alcuni romanzi di grande interesse come Il giudice meschino, La signora di Ellis Island, Il patto del giudice, Un acre odore di aglio, La verità del giudice meschino e Il popolo di mezzo.

Il secondo (  Gioacchino Criaco )  di Anime nere (che ha avuto una efficace trasposizione cinematografica) e La maligredi (cioè la brama del lupo che quando entra in un recinto di pecore al posto di mangiare una pecora per sfamarsi le scanna tutte) che descrive le ansie di rinnovamento di un paese calabrese distrutte dalla ‘ndrangheta che, appunto come il lupo, per mantenere i propri privilegi azzanna alla gola tutti quelli che li ostacolano.

Ne Il giudice meschino Mimmo Gangemi ci parla di un magistrato che viene ucciso sotto la propria abitazione da alcuni balordi. I balordi vengono in seguito a loro volta eliminati in modo efferato dalla ‘ndrangheta, in apparenza senza un perché. Alberto Lenzi, anch’egli magistrato e amico della vittima, è uno scansafatiche, indolente, con un debole per le belle donne. Sarà proprio lui però ad impegnarsi nelle indagini, riscattando così la nomea di magistrato inaffidabile, fino a rischiare addirittura la vita. Le indagini, infatti, lo condurranno su una pista pericolosa, dai risvolti inquietanti, costellata di altri omicidi collegati ad un misterioso traffico di scorie radioattive seppellite illegalmente.

 

In Anime nere Criaco traccia la parabola esistenziale di tre giovani figli dell’Aspromonte che, bramosi di conquistare una vita diversa da quella ricevuta in dote, di sfuggire a un destino di sottomessi, intraprendono un cammino fuori dalle regole. Danno e subiscono violenza, in un crescendo febbrile che dilagherà sempre più lontano: dal nord Italia all’Europa. I personaggi, Luciano, Luigi e la voce narrante, percorrono sino in fondo il sentiero di sangue da loro stessi tracciato. Sono contigui alla ‘ndrangheta. E cattivi. Ma alla loro cattiveria hanno contribuito in tanti. La distinzione fra il bene e il male è però netta, impietosa, anche se nella loro vita, oltre alla violenza e al dolore, c’è una realtà inaspettata, fatta di affetti, amore, arcaicità. E c’è il mondo modernissimo di Milano, dei traffici, della corruzione. Sulla loro strada incontrano trafficanti di droga, terroristi arabi, imprenditori, politici, in una commistione che riflette il volto impresentabile della nazione. In questo romanzo l’intreccio tra arcaicità e modernità della ‘ndrangheta si mischiano in maniera tale da restituire la netta impressione di un pezzo di medioevo che convive con la contemporaneità.

Insomma, anche la letteratura ha riproposto nei confronti delle mafie un atteggiamento non diverso da quello del mondo politico e in genere delle classi dirigenti dei territori coinvolti. Un’ambiguità di fondo ha caratterizzato il mondo letterario siciliano almeno fino a Leonardo Sciascia, mentre in Campania e in Calabria gli scrittori sono stati meno ambigui nel descrivere le “loro” mafie come un ostacolo civile ed economico. Ma un ruolo centrale nella grande letteratura (tra fine Ottocento e inizio Novecento) lo hanno raggiunto solo gli scrittori siciliani, in gran parte veristi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1 risposta a +++ ISAIA SALES, Alfabeto delle mafie: “L” come Letteratura –REPUBBLICA.IT / DOSSIER –STORIE DI MAFIA 25 DICEMBRE 2022 

  1. DONATELLA scrive:

    Interessantissima questa carrellata su gli scrittori siciliani, calabresi e campani: davvero è un nuovo modo per guardare alla letteratura nazionale. Grazie!

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