IL POST – 16 SETTEMBRE 2022
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- CULTURA
- VENERDÌ 16 SETTEMBRE 2022
Lavorare il minimo indispensabile
Un approccio meno maniacale alla propria professione e un maggior riguardo verso la vita fuori dall’ufficio si sta affermando col nome di “quiet quitting”
Negli ultimi mesi è diventata piuttosto popolare sui social network e in particolare su TikTok l’espressione «quiet quitting», traducibile come “licenziarsi in silenzio” o, più liberamente, “licenziarsi senza licenziarsi”. Fa riferimento a una tendenza, confermata da alcuni sondaggi e diffusa tra giovani lavoratori e lavoratrici, a ridefinire il proprio approccio al lavoro in termini meno maniacali e a non lasciare che occupi più tempo del dovuto. Più in generale, descrive un condiviso desiderio di slegare la propria identità dalla carriera professionale.
Utilizzata da molte persone come didascalia in video che in alcuni casi hanno ottenuto milioni di visualizzazioni sui social, l’espressione quiet quitting sintetizza un sostanziale rifiuto di mettere il lavoro al centro della propria vita e una volontà di concentrare il proprio tempo e le proprie forze in altre attività, siano esse di svago o anche legate a un secondo lavoro in grado di soddisfare una passione. Se ne sta parlando non soltanto per la popolarità del fenomeno sui social ma anche per quello che dice di inclinazioni e sentimenti diffusi nel mondo del lavoro dopo la pandemia tra le persone più giovani.
Anziché tirare fino a tardi in ufficio il venerdì, impegnarsi nell’organizzazione di iniziative di team building o proporsi volontariamente per l’affiancamento delle persone appena assunte, ha scritto il Guardian, i sostenitori del quiet quitting rifiutano la cultura della smania del lavoro e si limitano a svolgere soltanto le mansioni a loro richieste. Ed è un approccio che può in alcuni casi tradursi anche nell’evitare comportamenti di semplice cooperazione non specifici del lavoro e non espressamente richiesti, ma spesso fondamentali in qualsiasi attività di gruppo.
Diversi esperti tendono ad associare questo fenomeno a un calo significativo delle sensazioni di gratificazione e soddisfazione sul lavoro, e in parte alle conseguenze a medio e lungo termine della pandemia. «Dalla pandemia in poi il rapporto delle persone con il lavoro è stato studiato in molti modi, e la letteratura sembrerebbe sostenere in generale che in tutte le professioni quel rapporto sia cambiato», ha detto al Guardian la docente della University of Nottingham Maria Kordowicz, che si occupa di comportamento organizzativo nelle imprese.
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Secondo Kordowicz, la diffusione di questa attitudine tra le persone è almeno in parte una conseguenza di riflessioni favorite dalla pandemia, sul senso del lavoro e sulla mortalità. Ed è legata in parte anche al disorientamento provato da molte persone durante la pandemia nel cercare di trovare un equilibrio tra il lavoro e la vita privata, specialmente nel caso del lavoro svolto da remoto. L’insieme di queste condizioni avrebbe quindi portato all’attuale diffusa mancanza di motivazioni e di entusiasmo, e in definitiva a una riduzione dell’impegno sul lavoro.
Le impressioni condivise sull’insoddisfazione delle persone sembrano confermate da un citato rapporto annuale della società americana di analisi e consulenza Gallup sull’esperienza e le valutazioni dei lavoratori e delle lavoratrici di tutto il mondo riguardo alla loro vita professionale.
Secondo il rapporto più recente, in Italia soltanto il 4 per cento delle persone che lavorano si dichiara coinvolto o entusiasta del proprio lavoro: è la percentuale più bassa tra quelle di tutti i 38 paesi europei presi in considerazione. E la percentuale di soddisfazione generale in Europa è del 14 per cento: la più bassa tra quelle di tutte le 10 aree del mondo prese in considerazione. Negli Stati Uniti, dove il livello di soddisfazione è in generale più elevato che in altre aree, esiste comunque un marcato squilibrio generazionale: il 54 per cento dei nati dopo il 1989 riferisce di non sentirsi preso dal proprio lavoro.
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Emerso come tendenza sui social, il quiet quitting è stato in generale associato principalmente alle fasce più giovani di lavoratori e lavoratrici. Non è escluso quindi che sia una moda passeggera, ha scritto il Wall Street Journal, definendola in parte un possibile effetto del primo impatto con il mondo del lavoro, in cui non è mai stato facile «farsi strada tra i capi spregevoli e le piccole umiliazioni da sempre inflitte ai lavoratori dipendenti».
Il Wall Street Journal, un quotidiano conservatore e storicamente letto dall’alta finanza e imprenditoria statunitense, e quindi evidentemente portavoce di un punto di vista più vicino ai datori di lavoro che ai dipendenti, ipotizza che molte persone che dicono di non essere interessate alla carriera possano poi finire per cambiare idea con il tempo. La differenza, sostiene, è che ora queste persone «hanno TikTok e gli hashtag» per esprimere la propria emotività, e soprattutto vengono da una pandemia e da tutti i suoi effetti destabilizzanti.
Non è detto comunque che il quiet quitting implichi necessariamente una riduzione dell’impegno sul lavoro. Clayton Farris, un quarantunenne tiktoker e attore statunitense, ha detto in un video su TikTok che evita ormai da tempo di lasciarsi sopraffare dalle preoccupazioni del lavoro come una volta. «La parte più interessante è che non è cambiato niente. Lavoro ancora altrettanto duramente. Riesco ancora a ottenere quanto ottenevo prima. Semplicemente non mi stresso e non mi faccio a pezzi dentro», ha detto Farris.
In altri casi, principalmente tra le persone più giovani, la tendenza al quiet quitting riflette squilibri e insoddisfazioni più profonde nel rapporto con il lavoro.
Una parte della discussione, soprattutto in Europa e in Italia, è poi a volte sviluppata parallelamente a un più ampio dibattito sul fenomeno della precarietà e dello sfruttamento del lavoro. All’interno di questo dibattito, la pratica di non lavorare oltre il dovuto – anziché essere una scelta deliberata, compiuta nel pieno rispetto degli obblighi contrattuali – è più spesso descritta come una pratica utopistica e rischiosa, che aumenta le probabilità di licenziamento e di successive difficoltà dovute alla mancanza di alternative nel mercato del lavoro.
In ambito anglosassone il quiet quitting è stato associato essenzialmente a due casi. Uno è quello in cui la partecipazione ridotta alle attività di lavoro risponde non a un’insoddisfazione professionale ma a un’esigenza di realizzazione personale in contesti diversi. E l’altro è quello in cui in particolari situazioni il lavoro è percepito come una fonte di stress e di preoccupazioni che diventano a un certo punto insostenibili, portando a scelte diverse e più radicali.
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Una ventiquattrenne ex analista per una società di trasporti di Washington D.C. ha detto al Wall Street Journal di aver lasciato il suo lavoro meno di un anno dopo averlo accettato. Lo stress era diventato così intenso da causarle forme di alopecia psicogena e insonnia, e da indurla a cercare un nuovo lavoro. Nel frattempo, ha detto, non ha più superato le 40 ore settimanali per cui era pagata, non ha svolto alcun corso di formazione extra e ha smesso di cercare di socializzare con colleghi e colleghe.
La stessa persona ha detto di essersi sentita più coinvolta nel proprio lavoro e di aver ricevuto riscontri più positivi, una volta presa la decisione di non lavorare oltre il dovuto e di evitare di sottoporsi a condizioni di stress. Attualmente lavora come assistente virtuale freelance a tempo pieno in Florida, nel suo paese natale, ha detto al Wall Street Journal, e guadagna una somma pari a circa il 75 per cento del suo precedente stipendio.
Un ingegnere newyorkese di 24 anni, Zaid Khan, è uno tra i più citati autori di video diventati virali su TikTok a proposito del quiet quitting. Ha descritto questo approccio al lavoro come un rifiuto di aderire alla mentalità per cui «il lavoro deve essere la tua vita» e la «produttività» una priorità assoluta. E ha detto che questo non significa venir meno ai propri impegni.
Josh Bittinger, un trentaduenne direttore delle ricerche di mercato presso una società di consulenza, ha ribadito il punto espresso da Khan dicendo al Wall Street Journal che invitare le persone al quiet quitting non significa incoraggiare in loro atteggiamenti di pigrizia sul lavoro. Vuol dire ricordare loro di godersi il tempo libero o le vacanze senza controllare la posta elettronica, e in generale di non lavorare fino al burn-out, la sindrome da stress lavorativo ed esaurimento emotivo frequente nelle professioni a elevato coinvolgimento relazionale.
Molte persone rimangono perplesse leggendo del quiet quitting, ha scritto il New York Times. Si chiedono perché sia necessario utilizzare un’espressione apposita «per descrivere qualcosa di così ordinario come fare il tuo lavoro». Altre affermano che desidererebbero poter fare il minimo indispensabile e basta, ma temono di essere in una posizione di svantaggio a causa della loro etnia o del loro genere. E infine ce ne sono altre, per esempio medici e insegnanti di bambini, la cui professione rende meno facile definire limiti e confini netti in termini di orario e di impegno.
Una venticinquenne dipendente di un’azienda tecnologica a Denver, Gabrielle Judge, ha detto al New York Times che uno dei rischi del quiet quitting è di indurre alcune persone a tenere un comportamento passivo-aggressivo in ufficio e collaborare meno con i colleghi, e che questo possa influire inevitabilmente sul lavoro di tutti. «Non si tratta sempre di te. Sei in una squadra, sei in un dipartimento», ha detto Judge, segnalando la necessità di assumere atteggiamenti prima di tutto responsabili.
Diversi commentatori ritengono che sarebbe in ogni caso opportuno contrastare eventuali effetti negativi del quiet quitting evitando di glorificare la cultura della fatica e cercando piuttosto di migliorare la comunicazione all’interno delle aziende. Aumentare il coinvolgimento delle persone sul lavoro, ha scritto la giornalista di Axios Erica Pandey, non dovrebbe richiedere di compromettere il loro equilibrio tra lavoro e vita privata. Né dovrebbe, nel caso di lavori a distanza, richiedere una riduzione della flessibilità da parte di manager e dirigenti, cosa che probabilmente «trasformerebbe il quiet quitting in vere dimissioni».
Gli studi su questa specie di depressione la descrivono molto bene: fa quasi paura a leggerli perché ci si riconosce.