ESPRESSO  9 NOVEMBRE 2023 ::: FABRIZIO BARCA INTERVISTA CHARLES SABEL, CON ROSSELLA MURONI, SUL TEMA-DIBATTITO : ” Governare il clima è far politica ” + FILIPPO BARBERA, IL MANIFESTO 5 AGOSTO 2023

 

 

FOTO LA STAMPA

 

FABRIZIO BARCA

(Torino8 marzo 1954) è un economista e politico italiano.

Forum Disuguaglianze Diversità

@DD_Forum

 

 

Il dibattito. INTERVISTA  DI FABRIZIO BARCA

Governare il clima è far politica

 

La trasformazione verde è un processo condiviso con obiettivi chiari. E non un enunciato. Charles Sabel in missione in Italia su invito del Forum Disuguaglianze Diversità ne parla con Rossella Muroni 

 

 

 

Come accelerare la transizione e la trasformazione ecologica imposta dal collasso climatico? Il cambiamento, tumultuoso, è in atto. Tocca tutte le dimensioni della nostra vita. Gli Stati investono e fissano target. Ma siamo in confusione. Pesa l’assenza di un governo del processo che affronti le complessità, ascolti e promuova chi assume il rischio di innovare, penalizzi i conservatori, provi nei fatti che «ambientale» non è nemico di «sociale». Una strada sta nelle proposte di Fixing the Climate, che Charles Sabel, professore di Diritto e scienze sociali alla Columbia Law School, ha estratto (con David Victor) da esperienze concrete. Il Forum Disuguaglianze Diversità ha invitato Sabel per una missione in Italia, fitta di incontri con le punte avanzate delle nostre “imprese verdi”, ricercatori, ambientalisti, Cgil, Asvis. Sabel e Rossella Muroni, che guida Nuove Ri-Generazioni, raccontano le chance dell’Italia.

 

Evochiamo la trasformazione ecologica ogni volta che il collasso climatico ci esplode in faccia. Le generazioni più giovani la sentono come una priorità. Le direttrici tecnologiche sono chiare. Molte imprese corrono. Ma le istituzioni sono confuse e il senso comune frena: «Se acceleriamo sarà un bagno di sangue. Per lavoro e più vulnerabili». Cosa rispondere? Che sarà «un pranzo di gala»?

Charles Sabel (CS): «Certo, no! Ma non sarà neppure un bagno di sangue, se la trasformazione sarà coordinata da un programma politico, frutto di dialogo nazionale. Da una mappa generale e opaca del cambiamento dobbiamo arrivare, con uno zoom, a vedere ostacoli, opportunità, traguardi e navigare così, con coraggio, lungo rotte visibili, settore per settore, luogo per luogo».

Rossella Muroni (RM): «Non possiamo realizzare la trasformazione per inerzia. A esporre i più vulnerabili non è la velocità della trasformazione, ma la mancanza di guida. Dalla confusione bisogna uscire concordando democraticamente la rotta».

 

Rispetto agli altri Paesi occidentali, come è messa l’Italia? 
CS: «Ha gli stessi problemi di tutti gli altri, ma in misura più grave. Non solo nella trasformazione ecologica ma in tutti i campi dell’organizzazione sociale coinvolti da questa trasformazione: welfare, pubblica amministrazione, governance territoriale, partiti».

Nel libro Fixing the Climate, esaminando esperienze concrete, mostrate che si deve superare il tradizionale sistema di incentivi e punizioni di un mondo dove tutto è certo, per costruirne uno che funzioni in condizioni di incertezza tecnologica.

Serve un mix di concorrenza e collaborazione fra imprese, con un’autorità pubblica a un tempo autorevole e flessibile, che fissi e controlli regole e standard ma sia pronta a modificarle, ascoltando le soluzioni tecnologiche delle imprese che rischiano e rendendo così assai costoso non rischiare. E allora, che dire delle politiche pubbliche europee?

RM: «Meno male che siamo nell’Ue e dentro il ridisegno della sua anima: da acciaio e carbone a energia pulita e recupero della materia. Ma questo ridisegno è frenato da una governance dove, ad esempio, il peso strabordante del Consiglio consente di nascondere decisioni avverse alla trasformazione in politiche fiscali nazionali usate a fini competitivi».

CS: «Ma nell’equilibrio instabile fra garanzia di interessi nazionali e convergenza progressiva su interessi comuni, la Commissione ha un ruolo decisivo nell’attuare le regole e sa farlo proprio con autorevolezza e flessibilità».

RM: «Però opera ancora per silos settoriali e nella Direzione ambiente si manifesta una postura conservatrice e incapace di ascoltare alla pari tutti gli Stati: nel caso italiano anche per nostre gravi responsabilità».

 

Tornando all’Italia, abbiamo ascoltato di decreti attuativi in ritardo. Di norme e incentivi che appaiono e scompaiono. Costruiti senza dialogo. Applicati senza discrezionalità da una pubblica amministrazione guidata da un diritto amministrativo obsoleto. Le classi dirigenti politiche hanno capito che qui sta la madre del surplus italiano di problemi?

RM: «No. A impedirlo è stato il venire meno, nei partiti, dell’essenza della politica: ascoltare, avere curiosità, discutere, studiare. E poi credere nel proprio potere di fare accadere le cose». 

 

Eppure, il fermento innovativo che avete incontrato negli incontri in Italia è significativo. Riguarda imprese, cittadinanza organizzata, movimenti, sindacato. Sono esperimenti diffusi di quel confronto pubblico-privato-sociale sull’attuazione concreta della trasformazione che Fixing the Climate propone, la condizione perché essa produca un’organizzazione più giusta di vita e lavoro. Ma non trovano udienza presso il sistema politico e istituzionale. Di fronte a questa sordità che può fare quel fermento?

CS: «Le imprese verdi innovative con risorse finanziarie e tecniche sufficienti a reggere nelle forti turbolenze di ogni trasformazione devono “solo” trovare il coraggio di tenere botta: prima o poi ce la faranno. Per le altre, con esperienze più piccole e vulnerabili, la carta è un riconoscimento a livello di sistema che consenta di generalizzarle e di piegare a loro misura regole e politiche».

RM: «Quelle esperienze, per pesare, devono fare rete fra loro. Ciò chiede una trasformazione dell’associazionismo di imprese e lavoro che non si posizioni sull’interesse più ricorrente (e dunque conservatore) fra i rappresentati, ma sugli interessi più innovativi, perseguendoli a misura dei contesti».

CS: «E se non succede, che quelle punte avanzate si facciano avanti e si alleino fra loro!».

 

E le imprese pubbliche? Alcune sono parte del cambiamento, ma oggi ognuna va per conto suo e l’Eni finisce addirittura per plasmare la cultura di governo, con idee contrarie all’interesse nazionale, come «Italia hub del gas». Che fare?

RM: «Lo Stato-proprietario deve smettere di pensare che il proprio compito finisca con le nomine e recuperare il ruolo che ha in ogni Paese del mondo: indirizzare quelle imprese nell’interesse generale perché i loro piani industriali siano fattore di orientamento e certezza nella trasformazione. Il ForumDD ha da tempo proposto come farlo: ridando all’Economia le competenze necessarie per svolgere tale funzione».

 

Poi c’è la dimensione globale. Sabel( CS ), oltre a proporre di rafforzare l’Accordo di Parigi come «fonte di autorità e sanzione di ultima istanza», plaudite al farsi avanti di «accordi plurilaterali aperti» fra gruppi di Stati in specifici settori per stabilire standard condivisi e tutelare le imprese dalla concorrenza al ribasso. Ma non rischiano di produrre contrapposizioni belligeranti fra blocchi di Paesi, attorno a Cina e Usa? 

CS: «Noi pensiamo che questi accordi siano un passo avanti se assoggettati a controllo democratico, permeabili all’entrata di nuovi aderenti, caratterizzati da condivisione delle conoscenze. Vedremo se l’accordo su acciaio verde fra Usa e Eu avrà questi tratti. Ma il rischio esiste. Ogni blocco persegue egemonia. Eppure operano forze in senso contrario. Ogni blocco sa anche che se il commercio di tecnologie verdi con il “Mezzogiorno del mondo” non si afferma, la Terra è destinata al collasso climatico. “Per salvare sé stessi…salvare il mondo”».

RM: «Conta anche la cooperazione fra città del mondo. Se si traduce nella domanda di beni collettivi (mezzi pubblici di trasporto, apparecchiature ospedaliere, cibo per mense pubbliche), possono orientare sia i mercati sia la cooperazione fra Stati».

 

Negli incontri è tornato e ritornato un messaggio: «Tanto più tardiamo, tanto più alto è il rischio sociale». Quale il messaggio ai partiti?

CS: «Create e moltiplicate spazi di confronto; sfruttate la capacità italiana di ritrovarsi attorno a tavoli localidi collaborazione per costruire a livello nazionale rotte visibili che diano certezze a una trasformazione che oggi sgomenta».

RM: «Tornate a essere luoghi aperti di partecipazione e ricerca di soluzioni, con la reale ambizione di dare rappresentanza alle aspirazioni delle persone e di ricercare l’intersezione fra interessi e valori diversi, anziché solo di chiedere voti».

 

 

nota :

PARTECIPANTI ALL’INTERVISTA : SABEL E MURONI

Charles F. Sabel | Columbia Law School

testo sg. e foto di : https://www.law.columbia.edu/faculty/charles-f-sabel

Charles F. Sabel è professore di diritto e scienze sociali alla Columbia Law School. In precedenza, è stato Ford International Professor of Social Science presso il Massachusetts Institute of Technology. Il suo lavoro più recente sviluppa idee pragmatiste in una concezione generale di sperimentalismo democratico, con particolare attenzione alla regolamentazione, alla fornitura di servizi sociali complessi e alla contrattazione in condizioni di incertezza.
I progetti attuali di Sabel includono l’elaborazione di soluzioni sperimentali o incrementali a problemi apparentemente globali come il commercio e il cambiamento climatico; un’indagine sull’attuale trasformazione del diritto amministrativo statunitense di fronte all’incertezza; e nuovi modelli di sviluppo economico che emergono con la diffusione di tecniche avanzate di produzione “industriale” a tutti i settori dell’economia nel contesto della globalizzazione.

 

ultimo libro :

Riparare il clima: strategie per un mondo incerto di Charles Sabel

Riparare il clima. Strategie per un mondo incerto.

 

La diplomazia climatica globale, dal Protocollo di Kyoto all’Accordo di Parigi, non funziona. Nonostante decenni di negoziati sostenuti da parte dei leader mondiali, la crisi climatica continua a peggiorare. La soluzione è a portata di mano, ma non la raggiungeremo attraverso trattati globali imposti dall’alto o grandi accordi tra le nazioni.

 

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Rossella Muroni (Roma8 ottobre 1974) è un’attivista e politica italiana, già presidente nazionale di Legambiente; deputata dal 2018 al 13 ottobre 2022

Si è laureata in Sociologia (indirizzo Ambiente e Territorio).

A quattordici anni non ancora compiuti si iscrive alla Federazione Giovanile Comunista Italiana, frequentando le scuole di politica organizzate dal PCI.

Dal 1994 al 1996 è responsabile nazionale del Centro Solidarietà del Sindacato studentesco della CGIL, dove si occupa dello sportello informativo e di assistenza legale per gli studenti delle scuole medie superiori e delle università. Nel 1996 entra in Legambiente—

Alle elezioni politiche del 2018 viene candidata alla Camera dei Deputati nelle liste di Liberi e Uguali nel collegio uninominale Umbria – 02 (Foligno), ottenendo il 2,41% –e nel collegio plurinominale Puglia – 02, dove risulta eletta. Fa parte della Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici di Montecitorio, della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati e della Commissione Parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza.

segue:

notizie più complete nel link: 
https://it.wikipedia.org/wiki/Rossella_Muroni

la foto è  –  -dati.camera.it

 

 

IL MANIFESTO 5 AGOSTO 2023
https://ilmanifesto.it/i-grandi-piani-falliscono-il-pianeta-si-puo-salvare-unendo-piccoli-obiettivi

 

«I grandi piani falliscono. Il pianeta si può salvare unendo piccoli obiettivi»*

CLIMA. Un approccio sperimentalista per affrontare la crisi del clima. Sull’esempio di Montreal più che di Kyoto. Parla Charles Sabel

«I grandi piani falliscono. Il pianeta si può salvare unendo piccoli obiettivi»*

 

Charles F. Sabel è professore di diritto e scienze sociali alla Columbia Law School. Il suo ultimo libro, Fixing the Climate (Princeton University Press, 2023, con D.G. Victor), riorienta radicalmente il pensiero sulla crisi climatica.

Charles, tu sostieni che le misure sin qui messe in campo abbiano sostanzialmente fallito. Eppure, ci dici anche che la soluzione è davanti ai nostri occhi.

La tesi generale del libro è che, nonostante trent’anni di tentativi, le soluzioni globali basate su regole uniformi, come una tassa sul carbonio o obiettivi concordati a livello globale, non abbiano funzionato. Il loro fallimento è la realtà da cui partire. Ciò che sta funzionando, invece, sono gli sforzi per raggiungere una transizione verde in settori specifici come i veicoli elettrici, il fotovoltaico o l’eliminazione delle sostanze che distruggono l’ozono,. Così come le sperimentazioni a livello di luoghi specifici. In altre parole, i tentativi di creare un (apparentemente) semplice sistema globale di regole e incentivi per indurre una transizione verde sono falliti, mentre gli sforzi concreti – a livello di filiera o di luogo – per affrontare i principali ostacoli alla transizione stanno avendo successo.

 

Se è così, perché queste soluzioni non vengono adottate dappertutto?

Mentre il Protocollo di Montreal del 1987 sulle sostanze che danneggiano lo strato di ozono è sotto gli occhi di tutti e funziona, il suo successo è stato erroneamente attribuito alla presenza di alternative tecnologiche pre-definite e al ruolo di obiettivi vincolanti. Uno dei compiti del libro è invece di fornire una spiegazione diversa. Si tratta di un modello decentralizzato ma coordinato, o “sperimentalista”, orientato alla soluzione di un problema specifico.Questo tipo di problem solving può diventare la base di un nuovo tipo di globalizzazione.

 

Pensi che in tutto ciò sia in gioco un nuovo ruolo dello Stato? Intendo il cosiddetto «Stato innovatore» suggerito dai lavori di Mariana Mazzucato.

Non c’è dubbio che il ruolo dello Stato sia in via di ridefinizione, anche a causa delle sfide poste dall’emergenza climatica. Siamo però ancora molto lontani da un mondo in cui si possa assumere che gli Stati abbiano le capacità di mantenere i propri impegni, specialmente laddove tali impegni comportano la messa in discussione dello status quo. Ci siamo liberati da alcuni degli aspetti peggiori dell’ortodossia, ma facciamo ancora fatica a trovare una via da seguire. Se si guardano i dettagli, come vengono spesi i soldi, quali tipi di progetti sono ammissibili, come verranno valutati i risultati, c’è molta ambivalenza su quale dovrebbe essere esattamente il ruolo dello Stato.

 

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Confrontando Montreal e Kyoto, tu sostieni che, nonostante le differenze, i due casi sono, in linea di massima, comparabili? È un punto controverso. Ci spieghi perché?

Partiamo dai motivi spesso addotti per distinguerli. Il primo tema è che la comprensione dei meccanismi alla base della vulnerabilità dello strato di ozono fosse ben consolidata e, quindi, non vi fosse alcun motivo per ritardare l’azione. La scienza del cambiamento climatico, invece, è ancora immatura, consentendo agli scettici di trasformare le aree di incertezza in dubbi sulla validità delle prove scientifiche, tali da ridurre la pressione sull’azione collettiva.

Un secondo argomento riguarda la disponibilità di alternative tecnologiche. Si diceva che i sostituti delle sostanze che riducono lo strato di ozono fossero ben noti o alla portata dei principali produttori. Per quanto riguarda il cambiamento climatico, continua l’argomentazione, la situazione è ancora una volta l’opposto: alternative praticabili alla “tecnologia sporca” si trovano su un orizzonte così lontano che è molto più facile immaginarle che attuarle.

 

E tu sostieni che questo è falso?

È un resoconto molto parziale. La conoscenza scientifica sullo strato di ozono era tutt’altro che matura alla fine degli anni ’80, quando il Protocollo entrò in vigore.

Alcune delle reazioni chiave che distruggono l’ozono nella stratosfera antartica, in particolare quelle che comportano l’esposizione diretta al sole estivo, erano ben note; altre, che si verificavano ai bordi delle gelide nubi stratosferiche, non lo erano affatto.

Anche il presunto ottimismo tecnologico merita un esame approfondito. Le stime degli esperti all’epoca indicavano che si potessero trovare sostituti funzionanti per il 50% dei prodotti che danneggiavano lo strato di ozono, più o meno la stessa incertezza che oggi caratterizza le discussioni intorno a settori privi di soluzioni tecnologiche pronte da applicare.

Nel caso di Montreal non è stata la fiduciosa aspettativa verso soluzioni indolori che ha portato alla risoluzione dei problemi, quanto la formazione di processi decisionali decentrati a livello di filiera e settore. Processi decisionali i cui protagonisti sono stati attori pubblici e privati con una conoscenza pratica dei problemi da affrontare.

Tutto ciò non significa negare che la de-carbonizzazione dell’economia sia un’impresa più complessa della protezione dello strato di ozono. Ma quella differenza pone sfide simili all’esplorazione collaborativa in condizioni di incertezza. Per questo, è giunto il momento di imparare dalle vere lezioni del successo di Montreal.

*Una versione più ampia dell’intervista è pubblicata dalla rivista online sociologica.unibo.it — https://sociologica.unibo.it/article/view/16916

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  1. DONATELLA scrive:

    Mi pare che si dica che i cambiamenti, anche quelli più difficili, devono in qualche modo partire dal basso e in modo concreto per potere poi essere possibili anche a livello generale.

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