TOMMASO DI FRANCESCO, INTERVISTA A PREDRAG MATVEJEVIC / «Serve il giorno dei “ricordi”, per la dignità di un dolore corale» — IL MANIFESTO – 11 FEBBRAIO 2024

 

 

IL MANIFESTO – 11 FEBBRAIO 2024
https://ilmanifesto.it/serve-il-giorno-dei-ricordi-per-la-dignita-di-un-dolore-corale

 

 

«Serve il giorno dei “ricordi”, per la dignità di un dolore corale»

 

PREDRAG MATVEJEVIC. Dall’archivio. Riproponiamo brani dell’intervista uscita il 9/2/2014 all’intellettuale morto nel 2017

«Serve il giorno dei “ricordi”, per la dignità di un dolore corale»

Predrag Matvejevic – (Mostar7 ottobre 1932 – Zagabria2 febbraio 2017), è stato uno slavista jugoslavo con cittadinanza croata naturalizzato italiano.

Docente di letterature alle università di Zagabria, Parigi e Roma, è conosciuto per il saggio del 1987 Breviario mediterraneo, lavoro fondativo della storia culturale della regione del Mediterraneo, che è stato tradotto in oltre venti lingue.

SEGUE +++: https://it.wikipedia.org/wiki/Predrag_Matvejevi%C4%87

 

 

 

È sempre critico il giudizio di Predrag Matvejevic – l’autore di Breviario mediterraneo che ama definirsi «jugoslavo» – sull’istituzione del Giorno del Ricordo (10 febbraio 2004).

 

Che bilancio va fatto di questo “giorno”?

Che non bisogna smettere di raccontare la verità. André Gide diceva: «Bisogna ripetere nessuno ascolta». Ognuno in questa epoca sembra chiuso nella propria sordità. Il bilancio non è positivo, se a celebrare il precedente Giorno della memoria alla Risiera di San Sabba, il lager nazista al confine tra due popoli, accorrono anche i post-fascisti. E ogni anno abbondano fiction e rappresentazioni che invece di raccontare il pathos collettivo che riguarda almeno due popoli, riducono tutto alla sola tragedia delle vittime italiane. Ho scritto sulle vittime delle foibe anni fa in ex Jugoslavia, quando se ne parlava poco in Italia. Ero criticato. Ho sostenuto gli esuli italiani dell’Istria e della Dalmazia condividendo il loro cordoglio nazionale per le vittime innocenti. L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via fra asilo ed esilio. Continuo anche ora che sono ritornato a Zagabria. Credevo comunque che le polemiche e le strumentalizzazioni fossero finite. Invece no.

 

C’è un caso che ricorda?

Il caso del 2008 dello scrittore di confine Boris Pahor che ha fatto della coralità del dolore la sua materia, raccontando la tragedia dei crimini commessi dai fascisti in terra slava e il lascito di odio rimasto. Di fronte all’onorificenza offertagli dal presidente della repubblica Giorgio Napolitano, insorse dichiarando che l’avrebbe rifiutata se dalla presidenza italiana non arrivava una chiara presa di posizione contro i silenzi sugli eccidi di Mussolini.

 

Che cosa fu in realtà il crimine delle Foibe?

Sì, le foibe sono un crimine grave e la stragrande maggioranza di queste vittime furono proprio gli italiani. Ma per la dignità di un dolore corale bisogna dire che questo delitto è stato preparato e anticipato anche da altri, che non sono sempre meno colpevoli degli esecutori dell infoibamento. La tragica vicenda è infatti cominciata prima, non lontano dai luoghi dove sono stati poi compiuti quei crimini atroci. Il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola (una scelta non casuale). E dichiara: «Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara». Ecco come entra in scena il razzismo, accompagnato dalla pulizia etnica.

Gli slavi perdono il diritto che prima, al tempo dell’Austria, avevano, di servirsi della loro lingua nella scuola e sulla stampa, il diritto della predica in chiesa e persino quello della scritta sulla lapide nei cimiteri. Si cambiano massicciamente i loro nomi, si cancellano le origini, si emigra Ed è appunto in un contesto del genere che si sente pronunciare, forse per la prima volta, la minaccia della foiba. È il ministro fascista dei Lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si era affibbiato da solo il nome vittorioso di Giulio Italico, a scrivere già nel 1927: «La musa istriana ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi nella provincia d’Istria minaccia le caratteristiche nazionali dellIstria» (da Gerarchia, IX, 1927) aggiungendo anche i versi di una canzonetta dialettale già in giro: «A Pola xe l’Arena, La Foiba xe a Pisin».

Le foibe sono dunque un’invenzione fascista. E dalla teoria si è passati alla pratica. L’ebreo Raffaello Camerini, che si trovava ai lavori coatti in questa zona durante la seconda guerra mondiale, ha testimoniato nel giornale triestino Il Piccolo (5. XI. 2001): «Sono stati i fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari». La vicenda «con esito letale per tutti» che racconta questo testimone italiano, fa venire brividi.

 

Cosa risveglia il “Giorno del Ricordo” nell’ex Jugoslavia?

La storia (con la S maiuscola) aggiunge altri dati poco conosciuti in Italia. Uno dei peggiori criminali dei Balcani è il duce (poglavnik) degli ustascia croati Ante Pavelic. Il loro campo di Jasenovac è stato una Auschwitz in formato ridotto: lì il lavoro micidiale veniva fatto a mano, mentre i nazisti lo facevano in modo industriale. Il criminale Pavelic con i suoi seguaci, poté godere negli anni Trenta dell’ospitalità mussoliniana a Lipari, dove ricevevano aiuto e corsi di addestramento dai più rodati squadristi.

Le camicie nere hanno eseguito numerose fucilazioni di massa e singole. Tutta una gioventù ne rimase falciata in Dalmazia, in Slovenia, in Montenegro. Senza dimenticare la catena di campi di concentramento, dall’isola di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. a dove spesso si transitava per raggiungere la Risiera di San Sabba a Trieste e, in certi casi, si finiva ad Auschwitz e soprattutto a Dachau. I partigiani non erano protetti in nessun paese dalla Convenzione di Ginevra e pertanto i prigionieri venivano subito sterminati come cani. E così molti giunsero alla fine della guerra accaniti: infoibarono anche gli innocenti, non solo di origine italiana. Singole persone esacerbate, di quelle che avevano perduto la famiglia e la casa, i fratelli e i compagni, eseguirono i crimini in prima persona e per proprio conto.

La Jugoslavia di Tito non voleva che se ne parlasse. Noi abbiamo cercato di parlarne. Oggi ne parlano purtroppo a loro modo soprattutto i nostri ultra-nazionalisti, una specie di neo-missini slavi. Ho sempre pensato che non bisognerebbe costruire i futuri rapporti in questa zona sui cadaveri seminati dagli uni e dagli altri, bensì su nuove esperienze culturali. Per questo auspico la proclamazione congiunta del «Giorno dei Ricordi».

 

 

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LETTERARIA: Colloqui con Predrag Matvejevic nel nuovo libro di Tommaso Di Francesco

 

 

 

 

 

 

 

LETTERARIA: Colloqui con Predrag Matvejevic nel nuovo libro di Tommaso Di Francesco

Tommaso Di Francesco

Breviario jugoslavo. Colloqui con Predrag Matvejevic

manifestolibri 2018, € 10

 

Fa specie un titolo così, che riprenda ancora oggi l’aggettivo “jugoslavo”. Perché formalmente la Jugoslavia non esiste più da quindici anni, da quando cioè nel settembre del 2003 venne creata l’effimera Unione statale di Serbia e Montenegro. Anche se era ormai dal 1991 che la Jugoslavia era un simulacro di ciò che fu. Eppure in questo caso l’aggettivo ormai giuridicamente morto ha un senso, per il semplice fatto che Matvejevic si definì sempre jugoslavo. Jugoslavo non tanto per una mera nostalgia che ancora oggi resiste nei Balcani, ma per le sue radici e la sua storia personale: intellettuale e di vita vissuta.

Infatti chi approfondisce il suo percorso di uomo e di scrittore engagé (come si diceva un tempo) entra di fatto nello spirito drammatico degli eventi (perfino troppi, parafrasando Churchill) che hanno velocemente fatto e disfatto la Jugoslavia. Matvejevic, nascendo a Mostar nel 1932, percorre il tunnel del tempo che attraversa la Jugoslavia monarchica, la guerra, la Jugoslavia di Tito, la disintegrazione violenta degli anni novanta, le debolezze e le divisioni dello spazio post-jugoslavo del nuovo secolo.

Matvejevic ebbe sempre due sogni, due visioni: quello della jugoslavità (jugoslavenstvo) come idea romanticamente generosa di convivenza delle diversità e di abbattimento delle frontiere mentali, culturali, oltre che fisiche e statuali. Quella jugoslavità che fu fervente idea messianica tra gli intellettuali croati e serbi agli inizi del Novecento per inverarsi finalmente proprio un secolo fa, con il crollo asburgico. E poi Matvejevic pensò sempre ad una società diversa, ispirata ai valori di quel marxismo umanista che fu faticosamente espresso dal gruppo dei filosofi di Praxis.

La sua delusione è stata di conseguenza doppiamente amara. Gli etnonazionalismi con rara abilità smembrarono il mosaico jugoslavo andando perfino oltre, facendo proseliti che arrivano a balcanizzare oggi anche l’Europa e l’idea di Europa. L’identità – disse Matvejevic – è decaduta nella particolarità, la democrazia è virata in democratura ed il socialismo dal volto umano si è rovesciato in un capitalismo senza volto, quale è quello globalizzato e finanziario attuale. Una delusione pagata anche a livello personale, da vero dissidente, tra minacce ed esili a Parigi e a Roma.

I colloqui qui raccolti da Di Francesco aprono ad un mondo diverso e migliore, quello coerentemente creduto con ostinazione da Matvejevic. Ma aprono anche all’abisso attuale, che presenta una realtà puntigliosamente opposta a quella sognata dallo scrittore jugoslavo: come una utopia divenuta distopia. Per cui quello che successe in Jugoslavia un quarto di secolo fa potrebbe essere stato l’experimentum crucis del mondo che verrà: popoli impauriti ed aggressivi rinserrati e nutriti solo dalla propria particolarità, proprio come temeva Matvejevic.

 

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