MARCO MAYER, LASCIARE GAZA A HAMAS È STATO UN ERRORE STORICO – LIMESONLINE — 14 FEBBRAIO 2024

 

 

chiara – pubblichiamo un articolo che difende Israele totalmente, anche se lo critica…, ma che è interessante perché fornisce dei dati su Hamas che ho trovato preziosi.

 

LIMESONLINE — 14 FEBBRAIO 2024
https://www.limesonline.com/articoli/hamas-gaza-israele-netanyahu-guerra-15138390/

 

 

 

LASCIARE GAZA A HAMAS È STATO UN ERRORE STORICO

 

Dettaglio di una carta di Laura Canali. La versione integrale è nel corpo del testo.

Dettaglio di una carta di Laura Canali. La versione integrale è nel corpo del testo.

 

 

L’ideologia dell’organizzazione palestinese è il principale ostacolo alla pace. Le Brigate al-Qassām hanno trasformato la Striscia in una gigantesca base militare da cui attaccare lo Stato ebraico. Gli errori di Gerusalemme (e degli alleati occidentali) hanno peggiorato le cose.

di Marco Mayer ( Firenze, 1952 )

Insegna all’Università Luiss di Roma. E’ uno degli esperti
del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. 

 


ʿUmar Sulaymān nel 2007

 

 

 

Sino al 7 ottobre 2023 la mia percezione dell’identità di Ḥamās (Hamas) era sbagliata. Ritenevo ancora possibile il processo di riconciliazione tra le due maggiori fazioni politiche palestinesi. In verità, mi sono spesso chiesto perché il generale Omar Suleiman (capo dei servizi segreti egiziani per vent’anni sotto la presidenza di Hosni Mubarak) nonostante l’impegno tenace non sia mai riuscito a trovare un punto di mediazione tra i due gruppi. Ma ritenevo che i suoi ripetuti fallimenti fossero dovuti alle interferenze esterne di Iran e Arabia Saudita.

Non c’è dubbio che nel corso degli anni Teheran e Riyad abbiano ostacolato gli sforzi egiziani. Tuttavia, oggi con il senno del poi è difficile per chiunque negare che il nocciolo del problema sia stato e sia Hamas. Con l’attacco del 7 ottobre (e in modo molto più nitido rispetto alle quattro precedenti operazioni militari contro Israele) la milizia palestinese ha gettato la maschera. E la verità è drammaticamente venuta alla luce.

Il principale ostacolo alla riconciliazione intrapalestinese – e di conseguenza ai negoziati per la soluzione a due Stati – è rappresentato dalle fondamenta “ideologiche” di Hamas. Come esemplificato emblematicamente dall’attentato suicida come mezzo che garantisce agli adepti l’accesso al paradiso, eterna dimora della beatitudine. In effetti, sin dalla loro fondazione nel 1991, le Brigate al-Qassām di Hamas hanno mantenuto una forte impronta messianica, piena di richiami alla violenza religiosa necessaria per distruggere Israele. Le cosiddette “Martyrdom Operations” (istišhād) sono e restano uno dei pilastri della dottrina militare dell’organizzazione palestinese.

Questo elemento rende ancora più grave la responsabilità dei soggetti esterni (Iran, ma anche Arabia Saudita eccetera) che per tre decenni hanno finanziato e fornito supporti logistici di intelligence a Hamas.

Evidenzia inoltre un grave errore di valutazione della politica e dell’intelligence israeliana che per ben 17 anni non ha saputo cogliere cosa si nascondeva dietro il duttile pragmatismo degli operativi di Hamas con cui quotidianamente era costretta a interloquire. E non solo ai valichi di frontiera.

Nella conduzione di progetti umanitari coordinati tra ministero degli Affari esteri e Regione Toscana nella Striscia di Gaza all’ospedale di al-Shifa e al pediatrico di al-Durra, anch’io ho constatato una maggiore facilità di approccio con le autorità sanitarie di Hamas rispetto ai dirigenti del ministero della Sanità dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Fin qui le percezioni apparenti. Resta il fatto, ma non sono in grado di fornire una percentuale esatta, che la stragrande maggioranza dei miliziani delle Brigate al-Qassām spera di morire in combattimento – dopo aver ucciso il più alto numero di israeliani – perché è assolutamente certa che così saranno aperte le porte del paradiso.

La consapevolezza di questo aspetto identitario è decisivo per analizzare correttamente Hamas. Ma quasi nessuno lo mette in luce. La cultura politica, o meglio l’ideologia, dell’organizzazione palestinese che governa Gaza è un fattore importante per spiegarne la continuità strategica, dai numerosi attentati suicidi della seconda Intifada ai giorni nostri. Sono passati più di 20 anni da quando il 27 marzo 2002 al Park Hotel di Netanya, durante una cena per la Pasqua ebraica, il terrorista arruolato nelle Brigate al-Qassām Abdel-Basset Odeh si è fatto esplodere uccidendo 30 cittadini israeliani e ferendone 160.

 

La questione non è ovviamente l’Islam. Ma qualsiasi fanatismo religioso che in cambio di una vita eterna incita i fedeli alla violenza omicida, al terrorismo e alla guerra santa. Per inciso, sono proprio le comunità religiose che dovrebbero stare molto più attente agli effetti indesiderabili della fede. Altrimenti avrebbe ragione chi sostiene che i secoli passati dalla notte di San Bartolomeo (tra 23 e il 24 agosto 1572) siano trascorsi invano.

A livello accademico negli anni scorsi è stato scritto tutto e il contrario di tutto su una presunta conversione “moderata” di Hamas. Tuttavia, non si è tenuto debito conto (forse perché politicamente scorretto) che quando c’è di mezzo la fede nella resurrezione i processi di deradicalizzazione diventano oggettivamente molto più difficili.

In Israele i politici di destra contrari all’ipotesi dei due Stati hanno sempre messo sullo stesso piano le Brigate al-Qassām di Hamas e le secolari Brigate dei martiri di al-Aqṣā, fondate nel 2000 dai leader di Fatḥ e operative nella seconda Intifada sino al 2007-08. Si tratta di una visione miope perché, anche in presenze di azioni terroristiche identiche o analoghe, le motivazioni ideologiche a cui si ispirano i miliziani sono fondamentali. Esse infatti plasmano il tratto identitario e incidono sui comportamenti dei combattenti e delle organizzazioni di appartenenza, anche se all’esterno dissimulano la loro natura.

I servizi e gli apparati militari israeliani per ovvie ragioni di continuità fisica hanno dovuto intrattenere relazioni quotidiane con esponenti di Hamas a Gaza. Non si può escludere che gli israeliani siano stati in qualche modo tratti in inganno dalla doppiezza di HamasTuttavia, l’arsenale accumulato nel corso di ben 17 anni di governo a Gaza è stato di dimensioni e di pericolosità tali da non giustificare pregiudizi ed errori di valutazione né delle Forze di difesa israeliane (Idf) né dei servizi segreti dello Stato ebraico e ancor meno degli alleati. É un mistero come, in tanti anni di governo, Netanyahu si sia illuso di essere lui a dare le carte quando invece dietro le quinte Hamas sviluppava capacità militari di proporzioni inaudite.

Sotto questo profilo è utile accostare al massacro del 7 ottobre 2023 l’attentato del 27 marzo 2002 al Park Hotel di Netanya – simbolo della seconda Intifada. Serve a comprendere sino in fondo la continuità identitaria, la strategia politica di lungo periodo e gli adattamenti tattici adottati da Hamas negli ultimi 20 anni.

[L’articolo prosegue dopo la carta]

 

 

Carta di Laura Canali - 2023
Carta di Laura Canali – 2023 

 

 

Il dato che emerge subito è l’incredibile potenziamento militare e tecnologico di cui la milizia palestinese è stata capace nell’ultimo ventennio. Dal terrorismo “rozzo” degli attentati suicidi e dai primi razzi artigianali si è passati a un esercito di circa 40 mila miliziani ben addestrati e dotati di armi di ogni tipo, tra cui decine di migliaia di razzi, missili a medio e lungo raggio, droni aerei e marini tecnologicamente avanzati (anche se riadattati da veicoli senza equipaggio commerciali), soprattutto di matrice iraniana e turca.

 

Come è stato possibile che i governi israeliani abbiano permesso un simile rafforzamento? Per tentare una risposta prendo spunto da una esperienza personale a cui dopo il massacro del 7 ottobre scorso ho ripensato spesso. Non ricordo il giorno esatto, ma nel dicembre 2006 insieme all’assessore Massimo Toschi sono andato a fare visita all’avvocato Eli Moyal, sindaco di Sderot tra il 1998 e il 2008, scomparso nel 2020 a 67 anni. Il suo ruolo di primo cittadino era difficilissimo perché tutti i giorni doveva fare i conti con una pioggia di razzi dalla striscia di Gaza che colpivano la cittadina, non era stato ancora inventato il sistema di difesa Iron Dome.

 

Moyal, fedelissimo di Ariel Sharon, aveva aiutato a cacciare i gruppi di coloni israeliani (complessivamente circa 10 mila) che si rifiutavano di abbandonare gli insediamenti nella Striscia di Gaza. Ci raccontò di averlo fatto per lealtà al suo leader, ma era molto arrabbiato e inquieto per quella scelta politica. Moyal riteneva che consegnare all’ala militare di Hamas la Striscia di Gaza fosse un colossale boomerang strategico, o meglio un errore di portata storica. Oggi purtroppo i fatti danno ragione a lui. Ma in quel momento e negli anni successivi nessuno ha ascoltato Ely Moyal.

Eppure quella del sindaco di Sderot è stata un’intuizione profetica. Aveva previsto che mentre i leader politici di Hamas se ne stavano comodi a Damasco – sotto protezione russa – il territorio di Gaza si sarebbe trasformato progressivamente in un gigantesco arsenale di guerra. Un’area in cui un’enorme quantità di armamenti sarebbe stata nascosta lungo centinaia di chilometri di tunnel, mimetizzata nel deserto oppure in località sicure perché “protette”, tra cui scuole, strutture sanitarie, ambulatori e ospedali. Diventando così sia una minaccia esistenziale per lo Stato di Israele sia un potente fattore di destabilizzazione regionale. Se personalità molto influenti e diversi analisti (il sottoscritto compreso) pensavano che la riconciliazione tra le fazioni palestinesi fosse una necessaria precondizione ai fini della soluzione “due popoli e due Stati”, la leadership di Ḥamās aveva preso una strada totalmente diversa.

Durante gli ultimi 15 anni in cui hanno avuto il controllo di Gaza, i vertici di Ḥamās non hanno mai avuto dubbi su cosa scegliere tra welfare e warfareHanno preferito armarsi sino ai denti trasformando i 360 chilometri della Striscia in una gigantesca base militare. Nel frattempo, i dirigenti dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa) si voltavano dall’altra parte, se non peggio. Non mi sarei mai immaginato che Moyal avesse previsto così lucidamente lo scenario di guerra che si sarebbe materializzato 15 anni dopo.

 

Il massacro del 7 ottobre 2023 illumina anche un altro aspetto di grande rilevo storico rimasto in ombra.

Nessuno ha mai risposto alla domanda sul perché, dopo aver vinto le elezioni del 2006 e con Isma‘īl Haniyya (Ismail Haniyeh) in carica come primo ministro del governo di unità nazionale, Ḥamās abbia deciso di arroccarsi a Gaza dopo aver scatenato una violenza fratricida inaudita. Lo stesso filo di sangue e di crudeltà atroci collega il golpe del giugno 2007 all’attacco dello scorso ottobre. Chi è capace di trucidare i propri fratelli, cosa non sarà capace di fare con i propri nemici?

 

Dopo il recente massacro nel Sud di Israele, il golpe contro Fatḥ appare diversamente ai nostri occhi. Per spiegare il mio punto di vista anche in questo caso prendo spunto da un ricordo personale. Tra il 2 e il 14 giugno 2007 mi trovavo a Montecatini per il primo Forum israeliano-palestinese, il secondo si sarebbe tenuto a Pisa l’anno successivo. La mattina del 12 giugno 2007, mentre conversavo con il compianto Ron Pundak (uno dei più intelligenti negoziatori di Oslo) e Riyad al-Maliki (oggi ministro degli Esteri dell’Anp) da Gaza arrivarono notizie sempre più inquietanti. I reparti speciali delle Brigate al-Qassām avevano preso d’assalto le forze di sicurezza dell’Anp ed erano in corso scontri violentissimi.

Da quel momento i combattimenti fratricidi furono seguiti minuto per minuto via cellulare da tutti i componenti dalla folta delegazione palestinese con stupore, angoscia e amarezza. Non c’è lo spazio per entrare nei particolari. Basti ricordare che nel giro pochi giorni i miliziani delle Brigate al-Qassām, dopo aver ucciso o ferito gravemente circa 700 appartenenti alle forze di sicurezza dell’Anp, presero il totale controllo della Striscia. E lo hanno mantenuto per i 17 anni successivi, cioè dal 14 giugno 2007 al 7 ottobre 2023.

 

Con il senno di poi non è difficile spiegare perché Hamas avesse agito in un modo che all’epoca sembrava incomprensibile.

L’attuazione degli accordi di Oslo nel comparto della sicurezza, in particolare l’addestramento militare delle forze dell’ordine e dei servizi di sicurezza palestinesi da parte occidentale, è stata percepita da Hamas (e da Teheran) come una minaccia esistenziale al suo dominio politico, religioso e militare della Striscia. Senza il golpe fratricida i miliziani delle Brigate al-Qassām a Gaza non avrebbe potuto continuare ad agire indisturbati. Hamas poteva accettare tutto, tranne perdere Gaza. Ovvero la base logistica da cui combattere e possibilmente annientare Israele, lo scopo per cui l’organizzazione era nata nel lontano 1987.

 

Tra l’11 e il 14 giugno 2007 la battaglia intrapalestinese è stata durissima. Hamas ha usato tecniche di combattimento feroci contro i “fratelli” palestinesi fedeli ad Abu Mazen. Troppo poco è stato scritto su questa importante vicenda storica. Sarebbe molto utile che qualche giornalista intervistasse i poliziotti dell’Anp che da quel tragico momento sono stati costretti a passare le loro giornate su una sedia a rotelle. Ricordo che la crudeltà delle Brigate al-Qassām (soprattutto di alcuni reparti speciali) colpì moltissimo i medici palestinesi che curarono i feriti. Alcuni si chiesero da chi, come e dove i miliziani di Hamas fossero stati addestrati per essere così brutali.

 

Oggi si può affermare che le implicazioni identitarie e strategiche della ferocia dei miliziani di al-Qassām – emersa negli scontri del 2007 – sono state un segnale sottovalutato dalle analisi politiche e di intelligence. Più in generale, forse perché distratti dalle vicende dei foreign fighters e dallo Stato Islamico (Is), è mancata negli ultimi 15 anni un’analisi accurata e un monitoraggio costante della crescita esponenziale del potenziale bellico di Hamas e delle sue strategie di deception  (inganno ), che hanno fatto presa su una parte della politica e dei media israeliani.

In numerose occasioni Netanyahu si è illuso di poter usare Hamas per contrastare l’Anp di Abu Mazen. La destra religiosa ha fatto di peggio. Emblematico in proposito il caso di Bezalel Smotrich, leader del partito sionista religioso e ministro delle Finanze, che già nel 2015 ha definito pubblicamente l’Anp “un fardello” e Hamas “un asset” (risorsa ).

 

Nessun sa ancora come e quando finirà la tragedia della guerra in corso. Quel che è certo è che Moyal aveva ragione ad arrabbiarsi: paradossalmente nessuno si aspettava che sarebbero stati i falchi a mettere così gravemente a rischio la sicurezza nazionale di Israele. Non c’è niente di male nel criticare le scelte politiche o militari israeliane (basti citare l’avvertimento del presidente americano Joe Biden inascoltato da Netanyahu). A mio avviso è opportuno anche ricordare che l’errore più grave del governo israeliano e degli amici di Israele è stato quello di tollerare che per 17 anni i flussi finanziari e materiali più disparati arrivassero a Gaza per armare Hamas, tutto a vantaggio di Teheran, Ankara e Riyad.

 

Al contrario, dopo il 7 ottobre le narrazioni dominanti hanno puntato con successo a cancellare i 17 anni di onnipresenza di Hamas a Gaza. Esse sono ispirate dalla disinformazione russa che – come accaduto per i No-Vax e per l’Ucraina – domina la scena. Alcuni anni fa quando mi occupavo di cybersecurity nei circoli diplomatici si stimava una presenza tra Mosca e San Pietroburgo di 1.500/1.800 influencer a libro paga del circuito Telegram, Russia Today e Sputnik News. Oggi temo che il numero sia ben maggiore. L’ignoranza sui fatti è intollerabile e rende molto più efficace la disinformazione.  Nelle ultime settimane ho scoperto che i ragazzi italiani non sanno neppure che per 17 anni anche l’angolo più sperduto della Striscia di Gaza era controllato dalla dittatura militare di Hamas. Un discorso analogo a quello sulla disinformatia vale anche per la politica internazionale.

Negli ultimi 15 anni il primo ministro Benjamin Netanyahu ha condotto una politica estera estremamente ondivaga, difficile da decifrare. Il premier israeliano ha intrecciato stretti legami di amicizia e di collaborazione con il leader russo Vladimir Putin, con Donald Trump e suo genero Jared Kushner, con l’Arabia Saudita e altri paesi arabi moderati. Ma nessuno gli ha ancora chiesto a cosa sono servite tutte queste relazioni se, nonostante l’inaudita gravità del massacro del 7 ottobre, Hamas ha trovato subito solide sponde al Cremlino, a Teheran, a Ankara e in altre capitali arabe come se niente fosse successo? E ancora: è stato lungimirante promuovere gli accordi di Abramo scavalcando e umiliando sistematicamente l’Anp? Sono tante le domande a cui si deve rispondere: temi ineludibili per gli apparati di intelligence e per i decisori politici. Anche del nostro paese.

 

 

Carta di Laura Canali - 2023
Carta di Laura Canali – 2023 

 

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1 risposta a MARCO MAYER, LASCIARE GAZA A HAMAS È STATO UN ERRORE STORICO – LIMESONLINE — 14 FEBBRAIO 2024

  1. DONATELLA scrive:

    Se ho capito qualcosa di questa storia molto complicata, Israele ha “appoggiato” in qualche modo l’ala più estremista dei Palestinesi, sperando che si distruggessero tra di loro. Si è trattato di un gioco molto pericoloso, che ha permesso ad Hamas di prosperare, mentre la parte più dialogante dei Palestinesi è stata pressoché messa da parte. Purtroppo oggi si può drammaticamente vedere i frutti di questa politica guerrafondaia da una parte e dall’altra. Quando la religione, qualunque essa sia, viene usata come strumento di guerra ( Dio è con noi) è sempre una catastrofe. Mi piacerebbe che un eventuale Dio mandasse immediatamente un fulmine su chi osa bestemmiarlo in modo così irriverente.

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