Adesso mi viene bene esprimere quello che credevo di voler raccontare alla fine del capitolo precedente.
Ancora una volta dico con fermezza che nessuno deve offendersi se tratto con tanta prosopopea di tanti aspetti della psicoanalisi, perché tutto quello che dico rispecchia “limpidamente ed esclusivamente” il mio pensiero di paziente, anche se ho l’infarinatura di una Scuola di formazione per analisti, fatta più di vent’anni fa, che mi è servita appena per sapere cosa osservare.
Io racconto un vissuto ed esclusivamente un vissuto, un’esperienza emotiva, qualcosa che ho sentito sulla pelle e, mi permetto di dire, anche pagato con la mia pelle o con la mia salute, il che è lo stesso.
Non tutto nella mia esperienza di terapia è stato, come si dice, “rose e fiori”.
La psicoanalisi, in questi ultimi trent’anni, come del resto la psichiatria, ha avuto un’evoluzione, ed io, questa storia, l’ho proprio vissuta in prima persona, in tutta la sua drammaticità.
Che io mi permetta di parlare solo ed esclusivamente dal punto di vista di paziente (né del resto potrei parlare ad altro titolo), ne sono tranquillamente certa perché da questo particolare punto di vista non ho nessuna intenzione di allontanarmi, anzi, me lo voglio tenere ben stretto, e per una ragione ben precisa che adesso dirò.
Per quello che ne so io, sugli psicotici hanno scritto psicoanalisti e psichiatri.
Non conosco, invece, nessuna testimonianza, a parte quelle poche famosissime, di psicotici “recuperati” che raccontino la loro vita.
Tra le tante ragioni, e sono davvero molte, che mi hanno portato a scrivere, oltre al bisogno di scrivere che credo sia il motivo principale, c’è questa mia intenzione di dire qualche cosa sulla psicosi, sulla terapia fatta, sul delirio e sul recupero, esclusivamente con le mie parole di paziente.
Questo, sia ben chiaro, è tutt’altro che disprezzo, da parte mia, per i professionisti e per la cultura, tutt’altro.
Ritengo che chi ha vissuto un’esperienza sulla propria pelle, se è capace di metterla in parole sue, senza ricorrere a slogan, frasi fatte o a parole d’altri, è non solo degno di parlare, ma, a mio parere, può dare anche una testimonianza utile, ammesso che non sia uno scemo totale.
Questo libro, inizialmente, si componeva di due parti: nella prima parte raccontavo delle crisi di mania, del delirio e del recupero dalle crisi.
Nella seconda parte, della lunga depressione che sempre segue una crisi di mania e di come ci si può tirar fuori dalla depressione.
Alla seconda parte ho rinunciato perché il libro era troppo lungo e neanche un santo me l’avrebbe pubblicato.
Mi sono così dedicata a rivedere solo la prima parte.
Meno completezza, ma più realismo!
Comunque sia, l’intento generale è sempre quello di parlare a nome di quei pazienti che ancora non possono parlare.
Se mai trovassi qualcuno che pubblica questo testo ridotto, magari altri pazienti “recuperati” si invoglierebbero a scrivere.
Anche se credo che queste operazioni culturali non avvengano mai spontaneamente; bisognerebbe convincere un gruppo di psicoanalisti e di psichiatri ad elaborare un progetto e a dargli delle gambe.
Allora sì che questi testi, quando fossero un certo numero, acquisterebbero quel significato e quell’utilità che un unico testo non può assolutamente avere.
Ma tutto questo è parte di un bel sogno: una letteratura clinica che nasca “dal basso”, dall’esperienza, e che si offra al vaglio dei professionisti, almeno come parziale verifica delle terapie.