La psicoterapia che ho fatto io è sempre stata la psicoanalisi, se si escludono due anni di terapia con uno psicologo, sempre di orientamento psicoanalitico, nel periodo che ha preceduto la prima crisi di mania.
Per quello che ne so, ci sono delle differenze nella formazione di uno psicologo e di uno psicoanalista. Gli psicoanalisti, per essere tali, devono aver fatto un corso specifico dopo la laurea di quattro anni, un “training” di supervisione dei casi che stanno trattando, e, soprattutto, un’analisi personale che può essere anche molto lunga.
La mia terapeuta in Brasile come il mio terapeuta in Italia erano psicoanalisti, entrambi appartenenti a Società di Psicoanalisi affiliate alla Società Internazionale di Psicoanalisi (o IPA), per cui si può dire che appartenevano allo stesso tipo di Scuola.
Ma, dal mio punto di vista di paziente, lavoravano molto diversamente anche se entrambi mi hanno dato moltissimo.
Quello che, però, vorrei mostrare con le mie parole è che, esclusivamente per la cura della mia psicosi, ho beneficiato di più del metodo seguito dallo psicoanalista con cui ho fatto analisi in Italia.
Non vorrei azzardarmi in nozioni storiche che non conosco, ma è anche probabile che nel ’76, anno in cui ho iniziato la mia cura in Brasile, la terapia degli psicotici non fosse così sviluppata come dieci anni dopo quando sono ritornata in Italia.
Comunque sia, cercherò di fare un confronto con le mie parole.
La mia analista in Brasile seguiva quella che si conosce come “la psicoanalisi”: lettino e sedute frequentissime, sei volte alla settimana, quasi a dover dare una poppata continua ad un bambino appena nato.
Forse è proprio questa forma di contatto, così “pelle a pelle”, che mi ha permesso di riacquistare l’idea di madre.
Quest’idea l’avevo persa da tantissimi anni. Era sotterrata da strati profondissimi di odio, dovuti a tante incomprensioni, ma originalmente all’“abbandono”, cui mia madre era stata costretta a causa del lavoro, quando ero piccolissima. (Tutte cose che racconterò in seguito).
Questo risultato, aver riacquistato l’idea di madre che è la base di ogni personalità, sarebbe già tantissimo, specialmente se si considera che questa idea si è fissata stabilmente dentro di me.
Ma la mia analista ha fatto, per me, molto di più: mi ha fornito un’idea positiva, molto allegra, e, direi, addirittura divertente, di mia madre. Questa nuova visione ha, molto lentamente, cancellato quell’immagine cupissima che ne avevo io.
Mi ha, inoltre, mostrato tutti i vantaggi che si hanno ad avere una madre molto forte cui potersi appoggiare mentalmente.
Questa nuova rappresentazione, sostenuta e resa possibile dal gigantesco cambiamento di mia mamma nei miei confronti, dopo l’evento del mio internamento, si è talmente “intagliata” nel mio mondo interno, da costituire una “tremenda” risorsa di energia, anche dopo la morte di mia madre, per tutta la durata della malattia e per il mio recupero attuale.
Per tutto questo che racconto, e che considero così essenziale per la mia vita, ho una totale gratitudine per la mia analista e certamente il mio amore per lei supera di gran lunga qualunque critica le farò.
La forma di comunicazione che esisteva tra di noi era una specie di dialogo continuo( così a me sembrava), nel quale dicevo una frase, e subito mi arrivava una risposta, che poteva anche suonare incomprensibile, soprattutto agli inizi.
La ragione di questo è che si trattava di una “interpretazione”.
Un’interpretazione, per quello che ho capito io, significa che l’analista riceve un messaggio del paziente (qualcosa che lui dice e di cui ha coscienza), e ne tira fuori il messaggio nascosto (di cui il paziente non ha nessuna coscienza).
Da questa che possiamo anche chiamare “traduzione di linguaggi”, deriva quell’estraneazione che può nascere nel paziente nell’ascoltare la proposizione che gli viene proposta come sua: “Ma io ho detto proprio così?”
So che non è il mio campo, parlo a partire dalla mia lunga esperienza di paziente ( e su questo, poi, vorrei scrivere due righe, magari alla fine del capitolo), ma credo che il nostro inconscio possieda risposte infinite quasi ad ogni possibile proposizione che abbia un significato.
Perciò, quello che l’analista ci propone è sempre una sua “scelta” personale e, forse proprio per questo, per il fatto che sia qualcosa “che passa attraverso la sua persona”, ha valore.
Ma credo anche che, come tale, andrebbe proposto al paziente; come una delle infinite possibilità di lettura di una comunicazione che, però, acquista una sua forza speciale dalla “scommessa”, se così si può dire, che l’analista, con la sua formazione, la sua intuizione e la sua esperienza, fa su di essa.
Se così non fosse, a mio modo di vedere, si entrerebbe in una specie di “liberalismo”, anche se il termine deve essere improprio, che mi pare renderebbe impossibile qualunque terapia.
Si può parlare di partecipazione dell’analista anche in un senso più “terra terra” quando si vuol dire che la sua emotività, i suoi schemi mentali, le sue teorie ecc., lo sviano dal vedere il paziente.
Questo lo sanno bene tutti gli psicoanalisti, anche se è un problema che preferisco non toccare perché è un aspetto teorico su cui gli psicoanalisti hanno scritto fiumi di parole che non conosco.
Come paziente questo tema ha avuto però su di me delle conseguenze.
Il fatto che l’analista “ci metta del suo”, l’ho sentito e sofferto sulla mia pelle in tantissimi episodi che adesso non ricordo neanche più, ma che certamente hanno profondamente influito su di me, perché sono sempre stata molto attenta e “in stretto contatto” con il terapeuta.
Questo è però successo maggiormente con la mia analista, una persona molto spontanea, che viveva nell’ “hic et nunc”, sempre molto attenta al proprio mondo interno che sentiva legato profondamente al mio inconscio, come lei stessa mi comunicava.
Dato questo atteggiamento in cui tutto avviene “adesso e lì”, a mio parere, può succedere di tutto, soprattutto se l’analista pensa di dover lavorare con la mente sempre completamente sgombra, senza ricordarsi delle sedute passate e senza fare dei progetti sui prossimi passi della terapia.
Non voglio azzardare giudizi, che comunque rifletterebbero solo la mia piccola angolazione di paziente, ma è proprio per questa impostazione che, secondo me, diventa poi difficile lavorare con degli psicotici.
Ho conosciuto due persone in Brasile con la mia malattia che non potevano fare analisi perché non tolleravano queste continue interpretazioni dell’analista. Prendevano solo le medicine e stavano sempre peggio da una crisi all’altra.