Il mio analista era estremamente controllato, stava quasi sempre zitto, faceva pochissime interpretazioni, quello che palesava erano più che altro “prospettive” (tra l’altro lontanissime dallo stadio in cui mi trovavo), verso le quali avrei dovuto muovermi.
Di conseguenza le occasioni per “metterci del suo” erano davvero molto poche.
Era però collerico, oltre tutto per ragioni a me totalmente incomprensibili e che non si degnava di spiegare, e questo me lo dovevo sopportare. Su di me arrivavano delle specie di scariche elettriche, anche se erano di breve durata e, soprattutto, rare nel tempo: in tanti anni sarà capitato due volte.
Ma questi erano solo temporali d’estate.
La mia pelle “arde” ancora oggi, come uno picchiato le cui ferite non si possono rimarginare, invece, per un episodio che riguarda la mia precedente analisi e che adesso sento il bisogno di raccontare.Un fatto che, per me, è stato traumatico e con il quale non mi sono ancora “pacificata”, anche se sono passati più di vent’anni. Le mie capacità di perdono sono, evidentemente, ancora limitate!
Prima di raccontare, devo aggiungere che negli anni in cui stavo in Brasile, stavo tutt’altro che bene perché prendevo, a differenza di oggi, delle medicine che mi facevano molto poco.
Mi è capitato, mentre raccontavo alla mia terapeuta fatti che riguardavano la Scuola di formazione per analisti che frequentavo all’epoca (stavo parlando molto negativamente di un professore per il quale la mia analista, senza tema di esagerazione, aveva una vera adorazione e che era stato in analisi da lei) di sentirmi dire che “niente di tutto quello che dicevo poteva essere vero e che io ero in franco delirio”.
La mia persona in un attimo era stata “cancellata” e il vecchio stigma mi era arrivato proprio da colei che doveva aiutarmi a rimuoverlo. Non ci sono parole per dire come mi sono sentita, soprattutto se si tiene presente che tra il paziente e l’analista c’è una specie di “rapporto elettrico”, una “vibrazione di onde magnetiche”, non trovo altre parole, per cui quello che l’analista dice può persino, in certi casi estremi, annientarti psichicamente.
Quando poi una mia collega di corso, che non aveva alcun “precedente”, ha confermato la mia versione, la mia analista si è ricreduta subito.
Eppure doveva conoscermi bene visto che ero al settimo anno di analisi e mi vedeva quasi tutti i giorni!
Questo episodio è stato la molla che mi ha convinto ad interrompere il lavoro con la mia analista e a ritornare in Italia.
Per riuscirci ho però avuto bisogno di rimuginarlo dentro di me per tre anni.
Inoltre ho dovuto verificare, in questi tre anni, che noi due, la mia analista ed io, non avevamo più nulla da dirci.
Il nostro lavoro non era, infatti più produttivo, anche se in questo momento in cui sto scrivendo, mi sorge l’idea, che adesso mi pare addirittura ovvia, che il ricordo di quell’episodio traumatico funzionasse su di me come blocco e che io attuassi una specie di sciopero senza rendermene conto.
Di quell’episodio non abbiamo mai parlato; di solito ero io ad aver bisogno “di aprire”, all’inizio della seduta, l’argomento “chiarimenti sul nostro lavoro” perché ho sempre avuto bisogno di un “canale di comunicazione” libero dalle erbacce.
Ma questa volta ero stata zitta.
Ho poi dovuto, e questo è stato ancora più duro, trovare il coraggio di vincere la severissima opposizione della mia analista al fatto che tornassi in Italia.
Lei era una vera lottatrice, con molte frecce al suo arco ed io ero pienamente immersa in una depressione psicotica causatami dal dolore di doverla lasciare e da un fatto grave accaduto alla Scuola di formazione per Psicoanalisti, fatto che non so se mi capiterà di raccontare.
Comunque alla fine ce l’ho fatta e siamo partiti: mio marito, Francesca che aveva tre anni, ed io.