INTRODUZIONE: 9. C’è una dimensione mentale negli psicotici che funziona solo per scambio di doni.

 

INTRODUZIONE: 9. C’è una dimensione mentale negli psicotici che funziona solo per scambio di doni.

 

 

Come ho descritto fin qui, rifare la mia storia era prima di tutto un bisogno mio, una necessità di dare compattezza e consistenza al mio sistema nervoso e psichico.

Per questo, la ragione di questo scritto è egoistica.

 

 

Ma c’è una dimensione mentale negli psicotici che funziona solo per scambio di doni.

 

Quello che riceve dal terapeuta è un dono, è un dono quello che gli dà.

Ed è un dono “senza riserve”.

Gli mette nelle mani la sua vita e riceve da lui la possibilità di viverla.

Come potrebbe perdersi a fare dei conti?

L’aspetto del contratto, della prestazione lavoro-pagamento, pertanto, non viene mai  visualizzato.

E’ un aspetto della mente che si muove solo nel gratuito o nel baratto, e scambia vita con vita, e morte con morte, se “morte” riceve.

 

Questa dimensione è molto presente in me.

Questo lavoro è pertanto l’offerta di un dono.

 

 

Non penso di poter mostrare la strada a nessuno.

Racconto appena la strada che ho percorso io.

Dare voce alla mia esperienza di paziente mi è sembrato un compito ineludibile, un bisogno che negli anni si faceva sempre più urgente, un grido che nasceva già con una forma.

 

Dovevo “parlare”, perché ero stata per troppi anni una “cosa”, un “pacchetto”(è questo il mio modo di dire un oggetto e poi si scoprirà perché), incapace, forse dalla prima adolescenza, di sentirmi “esistente”.

Questa era la mia malattia originaria ed è da questa che non ho finito di guarire. Forse alla fine del libro avrò imparato ad esistere.

 

Dovevo parlare adesso perché adesso potevo: avevo un involucro mio, sufficientemente stabile, un’esistenza serena, addirittura felice. Era questo il momento per correre il rischio di espormi.

 

Scrivere era per me l’ennesima forma di terapia, l’ennesima autoanalisi, che però intraprendevo con entusiasmo, tesa com’ero a verificare fino a che punto ero arrivata a riconoscermi il diritto all’esistenza.

 

Forse qualcuno non capirà cosa voglio dire: tutti esistiamo e tutti abbiamo diritto ad esistere.

Nessuno ce lo contesta.

 

Ma sentire dentro di sé, nella profondità del nostro essere, il diritto ad esistere è un’altra cosa: equivale a sentire contemporaneamente il diritto a morire.

Sono due facce della stessa moneta.

 

Per me, capire e snocciolare questo principio, voleva dire degli aspetti più semplici, come imparare a fare delle cose “per” me e riconoscere che potevo essere io il fine delle mie azioni, e non solo gli altri. Devo dire che a me veniva enormemente facile fare le cose per gli altri, ma non per me, e questo lo dovevo imparare.

 

Nella mia testa sono così cominciate una serie di associazioni o ragionamentini che esporrò.

 

Quando morirò, sarò io a morire e sarò io da sola a morire, è naturale che allora io sia anche il fine delle mie azioni.

Ma per essere il fine delle mie azioni, io prima di tutto devo esistere!

 

A quanto pare, mi accorgo scrivendo, di illudermi che ripetendo  miliardi di volte “io”, alla fine… “io”… esista!

Questi ragionamentini e altri simili, li trovo molto fiacchi perché, secondo me, è una ragione emotiva che impedisce ad una persona di sentire il diritto ad esistere.

Dicendo la prima cosa a caso, per esempio, mi convincerebbe di più la storia del vecchio stigma, o marchio che mi sono data: i pazzi non hanno diritto alla piena esistenza, sono dei paria e devono servire gli altri. Lo scopo della loro vita è espiare ed è per questo che soffrono.

Questo può sembrare un assurdo, ma è un discorso.

Dirmi, invece, che io debbo essere il fine delle mie azioni ha un senso solo se uso questo principio per rieducarmi, come si può fare attraverso il condizionamento operante (Skinner), che è una linea del comportamentismo. Una rieducazione personale è sempre fondamentale in qualunque terapia. Ma se no, sono pure petizioni di principio che su di me, mi pare che non abbiano nessun effetto.

E’ anche vero che le modificazione avvengono per minuscoli passi anche inconsci, per impercettibili trasformazioni e poi ci vuole moltissimo tempo perché vengano acquisite.

 

Il Vangelo dice: “ Ama gli altri come te stesso”.

Questo significa che l’amore per te stesso è metro e misura dell’amore per gli altri.

E che, se non ami te stesso, non puoi amare gli altri.

 

Io mi ero trovata proprio in questa condizione: di aver sempre amato molto gli altri “al posto di” me stessa.

 

Si capisce che il mio non poteva essere un amore del tutto sano.

Sto imparando adesso, alla mia età, ad amarmi e ad amare gli altri contemporaneamente

 

Ma se ancora non esisto pienamente, come posso amare?

 

Qui ci sono due problemi importanti che è meglio enunciare subito con coraggio, anche se potranno essere affrontati solo nel corso del libro:

 

1. Per prima cosa per esistere bisogna avere il coraggio di esistere. Forse, anche se mi ritengo coraggiosa, questo coraggio non ce l’ho, o meglio, non ho il coraggio di morire, il che è la stessa cosa.

 

2. Se tutta la vita mi sono sentita “un pacchetto” ( un oggetto), ho lasciato che le persone intorno a me, si abituassero alla mia

estrema passività, dovuta anche all’estraneità della malattia e alla capacità di sopportare quasi qualunque cosa. Le capacità di sopportazione di un malato mentale, come ho detto, si dilatano e, soprattutto, uno psicotico, mentre è malato, non può permettersi di perdere neanche un filo di affetto, neanche gli venisse da persone che lo maltrattano.

Ma questo non era assolutamente il mio caso.

Inoltre, una persona che sa di essere nata con un handicap grave come una malattia mentale ( una volta un ragazzo mi ha detto che il padre –psichiatra- gli aveva raccomandato di sposarsi piuttosto una puttana che una malata mentale) si abitua a dare mille in cambio di uno.

E anche trasuda gratitudine da tutti i pori.

 

Se però, ad un certo momento, a causa della terapia, “ti svegli” e vuoi “anche” esistere, non puoi sperare che le persone intorno a te ti diano una mano, perché li spiazzi nelle loro abitudini e, cosa ancora più importante, togli loro un capro espiatorio che, nell’equilibrio emotivo di una famiglia, ha una funzione fondamentale.

Devi preventivare , prima di metterti per questa strada, un lungo periodo in cui questa funzione deve essere ridistribuita; questo non può essere fatto che a tue spese nel senso che viene percepito che sei tu ad aver tolto il tappeto da sotto i piedi a tutti.

Ci vuole, allora, molto coraggio, per voler continuare ad esistere: perché non lasciar perdere e lasciare che i miei familiari mi amino come sempre invece di sentirmi odiata?


 

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