“Oppure è come
se si potesse entrare
in una relazione nuova
e piena di speranza
con tutta l’esistenza
se soltanto
ci decidessimo a pensare
con il cuore.”
(Hofmannsthal)
“Oppure è come
se si potesse entrare
in una relazione nuova
e piena di speranza
con tutta l’esistenza
se soltanto
ci decidessimo a pensare
con il cuore.”
(Hofmannsthal)
“Oppure è come
se si potesse entrare
in una relazione nuova
e piena di speranza
con tutta l’esistenza
se soltanto
ci decidessimo a pensare
con il cuore.”
(Hofmannsthal)
1.1
All’origine del delirio c’è una desolazione e un abbandono senza nome.
Un dolore e un panico che oltrepassano i limiti della condizione umana.
Le trasformazioni
che avvengono
nel sentire
nel pensiero e
nel modo di vivere
della persona che delira,
servono
a sopportare
qualcosa
che sopportabile
non è.
– ma questo è così “alla lettera” –
Nonostante tutto questo sia vero,
bisogna affermare che
il delirio è, per le malattie mentali,
una straordinaria risorsa,
come la febbre lo è per altre malattie:
ci serve
ad evitare la morte della nostra mente
anche se non può evitarci di vivere,
ad ogni istante,
con gli occhi fissi nel suo sguardo.
Il modo che ho trovato di spiegarmi “perché il delirio?”
(ma si tratta appena di qualche tratto
di un processo così
complesso da essere, a mio parere,
“irrappresentabile”),
a partire dalla mia esperienza, è questo.
La nostra parte di mente che,
per motivi vari, si è ammalata,
per potersi recuperare,
ha bisogno di sottrarsi,
per un certo periodo,
alle leggi della realtà e della verosimiglianza.
Le stesse che l’hanno fatta ammalare.
Deve poter tornare “indietro” ” o di lato” o, “avanti” nel tempo
………raccolta in un grembo lontano da tutto…….
attenta a “sognare” il mondo
e a crearlo onnipotentemente,
tenendo conto solo
dei propri bisogni,
e di quei “desideri” illimitati
che la nostra realtà,
così come la conosciamo,
non ha potuto mai realizzare,
né potrà mai in futuro.
Nel delirio possiamo “vedere realizzati” i nostri più straordinari desideri”per sempre”.
Il nostro tempo, infatti, nella malattia, è l’eterno, l’assoluto:
il relativo appartiene alla realtà comune.
Il malato ha bisogno di una “sua” realtà specifica
così come ogni malato ha bisogno di cure specfiche:
e la malattia del malato mentale è la realtà sociale,
stante una predisposizione che deve esserci
“altrimenti non si può ammalare”.
(affermazione, questa, raccolta dal Prof. Gian Franco Placidi, psichiatra, cattedrattico a Firenze).
E tutto questo deve avvenire “per necessità”
(se nessuno interviene con una cura)
perché per la persona che entra in delirio,
la realtà, così com’è, la sua realtà esterna-interna,
non la sopporta più:
“non ci sopravvive più dentro”, letteralmente.
E’, quest’evasione dal mondo,
l’olio benefico che il malato passa sulle sue
parti piagate,
fino a poterle – molto lentamente – cicatrizzare.
Come si trattasse di staccare un coltello che, altrimenti, continuerebbe ad affondare nella ferita. Il delirio è un “basta” al massacro della nostra mente e , insieme, ti offre una realtà alternativa dove vivere “come se”… fosse vera, ma a differenza di questa da cui scappiamo, non lacera più il nostro cervello.
Quando il tessuto mentale si è rifatto,
il lavoro del delirio è compiuto
e
la mente può tornare ad affrontare,
anche se molto gradualmente,
la realtà.
Questo lieto fine è abbastanza raro e dipende moltissimo dalle persone da cui il malato è circondato, insomma dall’habitat che gli è connaturale e che ha partecipato all’origine e all’esplodere della sua malattia.
(Senza citare il necessario, in genere, intervento degli esperti).
E’ inutile, infatti, e dolorosissimo per lui, fare il grande lavoro di curarsi, se poi viene lasciato im mezzo agli stessi spifferi (d’accordo ci era predisposto) che gli hanno procurato quell’orrenda polmonite!
PARTE IMPORTANTE:
Per far capire, inoltre,
perché si soffre così atrocemente
durante questa malattia,
bisogna aggiungere che
non tutto nel delirio è “evasione” dalla realtà interna-esterna:
— la consapevolezza di questa, infatti, non si spegne mai. —
Posso testimoniare che,
anche nei momenti di più intenso vaneggiamento,
la mia “parte sana”,
ancora agganciata alla realtà,
è sempre stata presente e vigile, pronta ad intervenire per salvarmi la vita.
Questa sofferenza
impossibile da comunicare
viene proprio
dal continuo confronto
(TRA QUELLA CHE ABBIAMO CHIAMATO “PARTE SANA”
E L’ALTRA PARTE CHE E’ “MALATA”)
dall’immediato GIUDIZIO MORALE che pronuncia
(che si moltiplica con quello degli altri intorno)
che questa nostra parte,
legata al reale e alle sue leggi,
stabilisce tra sé e la
nostra parte pazza:
la vergogna,
il disorientamento logico,
la paura che
quest’assillante esame ci trasmette fino al panico,
e al terrore totale che scuote tutto il nostro corpo,
non sono facili da trasmettere.
Ma è proprio
attraverso questa operazione di confronto-riparazione
fatta ad ogni istante,
fino allo stillicidio
(quanto maggiore è la lucidità),
che la parte rimasta sana si recupera
arrivando ad egemonizzare almeno una parte
della cosiddetta malata…
se lei, sana,
è abbastanza “consistente”,
se “regge” la sofferenza,
se ha “imparato” dall’esperienza,
e se ha un po’ di buona sorte, e la protezione degli dei.
Ho conosciuto una persona che viveva in delirio da più di vent’anni ( Martino);
guardandolo dall’esterno,
“con i miei occhi miopi”,
tipici “di colui che non sa”,
non riuscivo a vedere in lui nessuna “consapevolezza”,
quasi la sua parte sana avesse mollato gli ormeggi.
Questa esperienza mi porterebbe a dire
che possono esistere delle persone in cui la parte sana si è
addormentata per sempre,
sfinita di troppo lottare. (se vuoi, vedi articolo-lettera su Martino in “Come ho imparato a lavorare ecc.)
Ma mi rifiuto di credere che sia così:
preferisco pensare alla
precarietà dei nostri mezzi di osservazione e di intervento,
cui, con un minuscolo intervento,
vorremmo contribuire anche noi.