I. SULLA DEPRESSIONE, LETTERA A MERRIPI’. DIALOGO TRA UN NEVROTICO ED UNO PSICOTICO (prima parte)

 

Milano, 17 – 2 – ‘98

 

Cara Merripì, mi sono svegliata con la voglia di scriverti.: “meu  coracao amnhaceu pegando fogo (il mio cuore si è sveglia in fiamme), un vecchio samba de Carnaval.

Lo so, ci parliamo al telefono varie volte al giorno, superiamo così la lontananza, ma oggi ho bisogno di pensare insieme a te.

Mi manca il  tuo modo di vedere così diverso dal mio.

E mentre penso con te, tu sei qui con me e mi parli.

Ma ti voglio dire prima di tutto che una delle gioie più belle della mia vita è  che, in qualunque momento del giorno, posso alzare il telefono e sentire una voce, la tua, che mi dice sempre “ciao” con affetto, con simpatia…

Tu non leggi i fumetti, ma è come avere una coperta di Linus sempre tenera  a disposizione.

Una coperta di Linus è come un orsetto di pelouche per un bambino.

Standogli abbracciato si riconcilia con il mondo, sa che non gli è tutto così estraneo e opposto…C’è qualcuno che non è lui, ma che gli somiglia quasi fosse lui, mentre gli dà qualcosa che lui da solo non sa darsi.

” Vita della mia vita, tu mi somigli

o pallidetta oliva o rosa scolorita…” ( Tasso)

Ed è a te che parlo, rosa colorita!…

Per me, che a causa della mia malattia mi percepisco  come l’instabilità vivente, la costanza sta acquistando, negli ultimi anni, un valore addirittura sacro.

Per ora “ a me scialu “, come diceva la mamma in dialetto, me la godo, ammirandola negli altri, in te, in M., in Donatella, in Ma…. ma, in verità, credo di aver imparato qualcosa anch’io, perché ormai vi prendo a modello. Ho preso tanta gente a modello nella mia vita, ma mai qualcuno che sentissi come il mio opposto.

E da due anni faccio proprio questo.

In questi due anni di depressione.

Da sempre ritengo che le difficoltà vadano affrontate subito, con decisione : adesso prendo a modello persone che usano la fuga come difesa, o il lasciar lì, e aspettare che le cose  siano passate. Sono arrivata a pensare che quella che si chiama” viltà” è un valore tanto quanto il coraggio. Non penso al generale russo che ha sconfitto Napoleone ritirandosi, Kutuzov, anche se per me sarebbe già un modello, ma proprio a quelli che fuggono per paura, mollano tutto, e si salvano.

Persone che hanno la sopravvivenza come valore principale. E gli altri valori vengono dopo.

Per me è sempre stato impossibile capire questo.

Qualcosa che non so, me l’ha sempre nascosto. Come se strati d’ovatta avessero sviato quest’istinto che è proprio degli esseri vivi. Forse, io, viva non lo sono mai stata.

Il coraggio è una reazione alla paura, ma se invece ti permetti di sentire questa paura, di riconoscerla, ha qualcosa da dirti, le emozioni hanno una loro saggezza che andrebbe perlomeno ascoltata.

L’anno scorso, quando lavoravo per il Professore, il mio corpo e la mia mente mi hanno dato vari segnali per farmi capire che la situazione era per me insostenibile. Tu non lo sai, ma sono anche diventata sonnambula. Di notte mi alzavo e sbattevo la testa contro le librerie facendomi male.

Dovevo andare avanti in questa logica cieca che le cose si risolvono affrontandole. Invece di chiedere una seduta, mi sono isolata e avvoltolata in me stessa, fingendo un benessere che non avevo. Dovevo mostrarmi guarita: così ero stata presentata ai pazienti e alla supervisora. Ma portavo avanti  un compito che, per me, era impossibile. Anche perché non mi ero mai chiesta cosa volesse dire uno psicotico guarito. Nella mia testa dovevo essere come chi era nato sano. Avevo impresso in quest’esperienza la grande illusione di non essere mai stata malata. Allora una grave depressione mi ha immobilizzato. E’ stato come se corpo e mente dicessero:  “Non vuoi sentire? Quello che tu non puoi dire, lo dico io, e arrivo subito al risultato”. Ho dovuto così rinunciare al lavoro. Entrare in depressione è stata l’unica saggezza che ho potuto attuare. Una saggezza di fatto, diciamo così, e mio malgrado. Il mio corpo e la mia mente si sono ammalati perché il mio io era troppo ostinato a non cedere per orgoglio, e allo stesso tempo debole di fronte ad una coscienza morale crudele, inumana.

Perché per troppo tempo sono stata sorda ai ripetuti segnali di angoscia che il mio io mi mandava. Allora sono stata obbligata a “ non andare avanti ” paralizzandomi del tutto. Il mio corpo ha visto il baratro prima di me e mi ha bloccato. E’ la prima volta che mi succede.

prima volta che mi succede La terapia gli ha dato una voce.

Parlavo della costanza.

Il mio è il vecchio tema del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno. Mi fisso ad esaminare la mia irrequietezza, la giro e rigiro da tutti i lati, ne conosco i segreti più nascosti, ma mi svio, così facendo, da un esame della mia capacità di costanza. Mi sottraggo all’insieme, quando invece ho amicizie da più di quarant’anni anni, sono sposata da più di venti, e ho da quattordici anni la stessa figlia… Cara, al solito, sono incostante in relazione a te, che vivi da sempre su binari tracciati, tagli via tutte le strade che ti allontanano dal tuo cammino, quello previsto e programmato, mentre il perdermi in ogni possibile traversa è il mio svago quotidiano. E’ un’ebbrezza cui non so rinunciare al punto che il disvio sembra quasi l’obiettivo, perché da sempre, la passione per il nuovo, insomma per quello che si chiama più astrattamente “lo sconosciuto”, è risultata essere, forse, l’unica costante in cui mi riconosco.

Quello che conta, così difficile da decifrare. Forse il filo della costanza, che sto cercando di afferrare con mani incerte, ma sotterraneamente determinate, la costanza e la ripetitività, il consueto eletto a valore… Se fossi in grado di riorganizzare la mia persona attorno a questo filo invisibile, un sottile filo di stabilità accettata e voluta, uscirei perlomeno dall’adolescenza alla tenera età di cinquantatre anni. Se facessi questo, uscirei dalla malattia. Mi sono illusa di poterlo fare. Nel lavoro ero stata presentata agli altri come “psicotica guarita”. Mi era stato dato un compito e, ad una fiducia accordatami, posso rispondere anche con la vita. E’ stato così fin da piccola. Ma guarire, nel senso che uno può guarire da una polmonite, non è possibile in una malattia mentale. Ci si può solo adattare. E non è così semplice.

Chi è malato di mente, col tempo, deve poter cogliere dei vantaggi nella sua situazione, deve trasformare un cattivo affare in un buon affare. Forse è quello che sto facendo con questa lunga depressione: trovare un nuovo adattamento che mi permetta di vivere. Devo utilizzarla in modo costruttivo, come una risorsa.

Non posso uscirne finché non ho trovato una risposta. L’unica risposta possibile è essere capaci di vivere nonostante la malattia e a partire dalla malattia. Ma devo scoprire come si fa.

La stabilità mi fa paura, la identifico con la morte e questo è romanticismo della peggior lega.

La stabilità mi fa sentire incastrata. Eppure io sono un’innamorata della continuità.  Una volta il terapeuta mi ha domandato: “Quando ci sono motivi validi per rompere un rapporto?” Non credo di aver risposto allora, troppo intenta com’ero a capire da dove venisse fuori questa sua domanda. Ma la mia risposta è mai. Niente che possa succedere tra due persone giustifica una rottura, perché tutto può essere compreso e perdonato. C’è una bellissima poesia di Borges sul perdono: Caino e Abele si ritrovano dopo tanto tempo e uno non sa più chi è l’altro. Immedesimarti nell’altro fino a capire le sue ragioni al punto che ti senti l’altro e non è più importante chi ha fatto il torto e chi l’ha ricevuto. E’ un attimo, se no ti perdi, ma devi viverlo e, poi, tornare te stesso “vestito di nuovo”. Perdonare significa “fare un dono per eccellenza”, il “per”, qui, è un accrescitivo, e quello che doni è te stesso, quel te stesso che si è ferito lo regali, lo lasci cadere, te ne spogli. Tu mi capirai, tu e C., tuo marito: il perdono è la legge quotidiana di un rapporto, è quello che fai quasi ad ogni istante, specialmente in quell’impossibile rapporto a due che si chiama matrimonio. Hai una gomma sempre in mano per cancellare il momento passato. Continuamente riparti da zero, continuamente ridai una fiducia intatta all’altro e a te stesso. Il rapporto è proprio il sedimentarsi di questi doni reciproci.

Reciproci fin dove è possibile, c’è sempre qualcuno cui è più facile perdonare: chi ha più sale in zucca lo metta, diceva la mamma, non si può fare una contabilità.

L’importante è la continuità.

Perché?

E’ difficile dirlo, ma con gli anni, con tanti anni, impari a guardare l’altro con la stessa simpatia che potresti accordare a te stesso, anzi una simpatia più giocosa perché l’altro è diverso. Impari a godere dei suoi gesti, del modo di ridere, respiri la felicità di lasciarlo essere, un “estraneo”, che è un “vicino”, puoi alzare un braccio e toccarlo.

Mentre dici “tu”, sai che sei un “io”.

E, in molti momenti, sei un “noi”.

Non è solo questo. Con gli anni, con tanti anni, se riesci davvero ad accogliere l’altro, a poco a poco la tua visione del mondo si amplia e si diversifica in modo straordinario. E vivere, guardando questo mondo dilatato, diventa enormemente più divertente, perché il tuo respiro si allunga e l’aria diventa più azzurra. In questa apertura che ti è data, ti senti fluire mentre accogli un altro e, insieme, diventi più solido, anche se non so spiegarlo, come un albero centenario che dispieghi i suoi rami sempre più  verso il cielo.

Forse posso dirlo così. Vivendo le vite di tanti altri, le tue radici si ampliano insieme al terreno in cui vivi e  contempli un orizzonte più lontano.

Non c’è bisogno delle vite di tanti altri. Se riesci a farlo con la vita di una persona sola, percorrendo tutti i viottoli ritorti dell’altro e di te stesso, dopo, puoi capire quasi chiunque.

Racconto a te queste cose e non mi capirai. Non mi capirai come vorrei essere capita.  Non riuscirai a risentire in te le mie ragioni. Anche differenziandotene. Mi sembra di cantare con uno strumento sordo. Il mio interesse per gli altri ti è sempre sembrato un segno della mia malattia. E, forse, hai ragione.

La tua vita è straordinariamente centrata su te stessa, anche se non sei affatto egoista. I tuoi punti di vista sembrano immodificabili col tempo.  Sembra quasi che, nel periodo della formazione, tu ti sia fatta alcune idee chiare sulle quali hai poi impostato una vita senza sentire il bisogno di modificarle.

Ma sarà vero ?

Invece, io sono sempre stata in “ lavori in corso”, come un cantiere che non ha mai finito…

In casa dicevano : “ Con Chiara è come stare su un ponte rotto…”

La tua, però, anche se a mio modo di vedere ateriosclerotica, è una vita sana e riuscita, soddisfacente sotto tutti i punti di vista. Il tuo grande segreto: “non registrare nulla”, vivi-l’attimo-e- ti scordi-riprendi-da-un-altro-attimo-bianco e così via.

E la mia?

Tu sei sempre stata il mio osso più duro in questa ricerca d’assimilare il diverso perché, con te, il diverso diventa l’opposto. E questa lettera, che procede a sbalzi, è lo specchio dell’inquietudine che mi dai. Il tono un po’ vago che ci sento, deriva, forse,  dal fatto che non ti parlo delle grandi lacerazioni cui ha dato luogo il nostro rapporto in tutti i tempi. Succede in tutte le famiglie e con tutti i tipi di figli. Ho potuto osservare che questo fenomeno è più acuto quando si tratta di due sorelle.  Queste si spartiscono il campo con più accanimento, con più forza devono dimostrare di essere figlie uniche e accaparrarsi tutto l’amore dei genitori e parenti.

E, poi, tu sei la prima, e sei stata per molti anni senza rivali.

La cosa si è inoltre complicata perché, da bambina, sembravo possedere tutte le doti che tu non avevi. Ho sentito la tua invidia puntata su di me come un coltello. Non ti andava bene niente di quello che ero. Mi è sembrato che mi spingessi fuori di casa. Lo so, dirai che dico sempre le solite stupidaggini.

Non pretendo di dire che era così, riferisco solo i miei sentimenti di allora, i quali sono solo miei, sono io che li immagino e io che li racconto. Tu non c’entri.

Molto rapidamente, dopo la mia crisi a quindici anni, le parti si sono radicalmente invertite. Io sono diventata un insuccesso vivente, e tu molto in gamba in tutto, oltre che bellissima. E io uno straccio. Due vasi comunicanti. Hai mantenuto (e anch’io…!) questa posizione fino ad oggi.Ti invidio ? Forse.

La mia invidia deve essere, più di tutto, fatta d’ammirazione visto che ti prendo a modello. E non solo per la stabilità, ma per il modo da passerotto sempre attento e vigile e impertinente che hai di stare al mondo…La tua fede così pura nel Signore ti dà quel lungo fiato. E poi ti voglio molto molto bene. Te lo meriti?

Quando uno entra in depressione, di solito, gli si chiede:

“ Cosa hai perso?” Immediatamente direi che con questo lavoro ho perso tutto. Un’immagine di me capace di lavorare  e di essere apprezzata. Ho perso l’illusione di essere sana, di non essermi mai ammalata. Sono stata costretta a rientrare nei miei limiti e nella mia vita inutile di povera cosa.

Ero in una situazione in cui stavo imparando molto. E imparare è sempre stata la mia più grande allegria. Avevo una prospettiva e una prospettiva piacevole. Finalmente potevo tirar fuori le mie capacità e lavorarle. Dopo tanto tempo che erano state sepolte. Quell’habitat dello studio del Professore mi dava sicurezza, una sicurezza che rimaneva anche quando rientravo in casa per affrontare i soliti conflitti di tutte le famiglie. “Le famiglie” che conosco sono la nostra. Non posso neanche immaginare una famiglia senza liti più o meno continue. Ma ci saranno?

Nel lavoro per la prima volta avevo uno spazio privato che non era la famiglia. Dopo tanto tempo mi sentivo utile. E’ difficile dare l’idea della sterile angoscia di una vita totalmente inutile.

Potevo mostrare a mia figlia che lavoravo come tutti gli altri e questo mi sembrava un fatto straordinario, ero inserita in una comunità.

E tutto questo è durato tre anni. Avevo l’illusione di aver raggiunto una stabilità che sarebbe durata per sempre.

Come vedi, ho perso proprio tutto. Spogliarsi di un’immagine di se stessi con la quale hai verificato di poter vivere bene, è una cosa così violenta che può spingere al suicidio. Dà una colpa terribile, una colpa in relazione a se stessi, più forte di qualunque altra colpa. Per un sentimento così, nell’Iliade, Aiace si uccide, pur sapendo che, alla sua morte, la moglie e i figli sarebbero stati venduti come schiavi.

Ma vorrei provare a raccontarti che la depressione, se è una sofferenza terribile, è anche una gran risorsa. Non credo sia possibile operare delle reali trasformazioni in noi stessi se non attraverso una depressione. A questo, in generale, gli psichiatri non credono. Perché diventasse credibile bisognerebbe spiegarlo.

Provo a parlartene, come parlerei a me stessa, ma non ho la pretesa di spiegare niente. Il mio è piuttosto un pensare insieme a te.

Tu che mi conosci bene…

Nella depressione si ammala la volontà, non riesci più ad alzarti dal letto, a lavarti e a vestirti, non puoi fare assolutamente nulla perché le cose più semplici ti costano uno sforzo inumano.

Poca gente lo capisce.

Poca gente lo scusa.

Tu, per prima.

Tu che mi parlavi di volontà.

Ho conosciuto una ragazza in Brasile, mia paziente, un’ingegnere specializzata in marketing, che per la depressione ha perso il lavoro. Con questo manteneva lei e una figlia, non aveva altri introiti. Eppure non ha potuto fare diverso, aveva qualche soldo da parte e oltre a vivere doveva pagarci la terapia. Perché conosco queste cose, tutti i bravi familiari ed amici, pieni di buone intenzioni, che si affannano su un malato di depressione con la ricetta della “buona volontà”…saranno anche ignoranti, ma nessuno impedisce loro di documentarsi!

Ci sono tante forme di depressione e quelle più lievi sono familiari a tutti. Uno sforzo che non porta risultato, una delusione dell’altro o di noi stessi, una malattia fisica. Una tristezza che può prendere davanti alla bellezza che svanisce.

Un’incertezza che sentiamo in certi giorni plumbei in cui il tempo sembra rallentare. E quando subiamo una perdita.

Ma la depressione di cui parlo è una forma d’annientamento della vita a cui si assiste impotenti. Non c’è più sabbia nella clessidra, il tempo si ferma attonito di tanta immobilità.

E’ difficile parlare di questa sensazione perché le parole vivono dentro un mondo comune, di un ritmo che segue lo scorrere del giorno e della notte. In questa depressione l’unico fluire lento è quello della vita. Contempli la morte senza possibile riposo, ma non ti appare come morte. Questa sarebbe già una presenza umana. E’ un vuoto metafisico del quale fai parte, dove l’aria è così rarefatta che i battiti del cuore rallentano e la paura è panico. Ti senti fluttuare in spazi gelidi che non sono spazi, ma ombre informi. E tu stesso sei solo parte di queste ombre lunghe, grigie, che passano lentissimamente una nell’altra. Il tempo è eterno. L’unica cosa che puoi fare è stare a letto, al buio, immobile, col fiato sospeso,  nella speranza che questa paralisi ti mantenga in vita. Rimani vivo in quest’attesa. Ma non hai speranza perché non hai più sentimenti, né pensieri. Quelli che fai sono gesti istintivi, meccanici. E non sono neanche gesti, perché ti immobilizzi rannicchiato in te stesso come un mucchio di cenere. In bocca hai gusto di sabbia. La solitudine è assoluta come prima che il mondo nascesse. E l’angoscia  sottile, come arrivata al limite dell’intensità. Non puoi mettere in parole quello che senti, perché le parole sono scomparse. E’ un mondo mai sfiorato da presenza viva. Come uno avesse varcato i limiti dell’esperienza umana. In questo, è come il delirio nella mania.

Lentamente, con le medicine e la terapia, questo stato d’animo così informe ha lentamente preso un volto umano. A poco a poco il mio silenzio si è sciolto a contatto con il terapeuta che cercava di immaginare dove mi trovassi e lentamente riportarmi alla vita. Avevo paura di tanto rumore. Sono state le sue parole a restituirmi le mie. Il suo accogliermi come una persona, qualcuno appartenente al mondo comune, che accettava lo sguardo amoroso di un altro, mi ha comunicato un’ancora confusa sensazione di essere viva. Il terapeuta ha lentamente preparato un ponte, fatto di presenza, di pensieri sognanti e vivi, al quale potessi afferrarmi. Un cordone ombelicale nel quale scorrevano particelle di calma energia continua. Era diventato il mio mondo esterno e in lui trovavo un’appartenenza possibile. Attento ad un mio minuscolo gesto per accoglierlo devotamente e portarmi un passino più in là.

Ma riusciva a nascondermi l’obiettivo verso cui mi conduceva passo per passo per non terrorizzarmi. Ero terrorizzata dalla vita in quel luogo dove mi ero raccolta per difendermi. C’è voluto tempo per ritornare da tanto lontano.

Ma sono ritornata.

Sono passati due anni.

Oggi il mio stato d’animo è diverso. Quello che cerco di fare è utilizzare la depressione come una risorsa e lo posso fare perché si tratta di una depressione più blanda. Anche in questa depressione più umana non riesci ad affrontare la più piccola cosa perché la senti al di là delle tue forze. Tutto è più difficile al mattino, anche se, in genere, sei sveglio da ore. Da tempo lotto con il sonno e, nella depressione, questo fenomeno si acuisce. Durante il giorno non faccio nulla.

Ma questo blocco della volontà che ti viene imposto, ti dice che è venuto il momento di fermarti per capire cosa c’è che non va. Quando la macchina ti si ferma, la porti da un meccanico. Ecco la depressione è come mettersi in un’officina.

Proprio questa impossibilità di fare, ti permette di metterti come tra parentesi, e lavorare. Certo bisogna che qualcuno te lo dica.  Ti dica: “Usa questo tempo per scoprire cosa non funziona”. Altrimenti lo passi a lamentarti.

Io credo che anche passando il tempo a lamentarsi, il nostro inconscio lavori per noi, ma ti devi alleare al suo lavoro. Se le medicine e la terapia,  ti permettono di appendere un cartello “lavori in corso”, e ti lasciano lavorare, mi riferisco a questa lavoro psichico, il risultato ci può essere.

Voglio dire che devono prima di tutto toglierti dalla paralisi, e da una disperazione senza nome, dal pericolo del suicidio, poi puoi incominciare a farti delle domande.

Se è minata la volontà, in qualche modo capisci che il difetto è nella coscienza morale, quella che guida le azioni, che ti dice cosa è bene e cosa è male e ti impegna a diventare sempre di più come vorresti essere. Se sei fortunato, quello che vorresti essere non è tanto lontano dalla tua realtà.

Puoi sorridere alla tua immagine nello specchio. Credo sia questo il tuo caso, ma non il mio.  Mi sembra di avere addosso un catafalco che mi impedisce di vivere, di essere quella che sono realmente. Troppe arie  di grandiosità che vengono fuori nella mania. Mentre, di solito, ho di me un’immagine così impoverita che mi fa sentire priva del diritto di vivere. Non riesco ad avvicinare due immagini di me che sono opposte.

Non riesco a farle diventare una e umana.

Il mio modello è una frase presa dal diario di Tolstoj: “ Da giovane decidevo e sceglievo fra i due opposti: ora mi accontento di un’armonica oscillazione ”Quello che mi manca è quello che in portoghese si chiama “jogo de cintura”, un’espressione forse presa dalla boxe. Sono fissa lì o su un’immagine troppo alta o troppo bassa, come non ci fosse un tessuto connettivo che le leghi, uno spazio intercellulare che permetta appunto un’armonica oscillazione, una flessibilità.

E’ il mio io che vive annichilito di fronte ad una coscienza morale che gli ruba ogni spazio. Lo sovrasta talmente da non permettergli il più piccolo diniego. Lo sfianca comunicandogli la sensazione di essere un incapace, perennemente impotente a raggiungere quell’immagine luminosa che gli viene sventolata sotto al naso. La mia coscienza morale è fatta di tanti blocchi che sembrano incomunicabili.

C’è la mia coscienza fino ai dodici anni, con poche proibizioni date distrattamente, dove potevo essere quella che ero. Quella successiva, con minacce terribili e un’immagine di me stessa decisamente sui trampoli. E poi, quello che sono diventata nella terapia.

Ho acquisito una parte benevola che tenta di proteggermi, quando ce la fa, presa com’è in un reticolo che tende ad immobilizzarla. Avrebbe più forza se  sentissi di esistere.

Ma puoi sentire di esistere solo se sai che sei limitato. Se senti che hai la morte addosso. Che è lì per te. Solo allora l’istinto di sopravvivenza si sveglia. E sei capace di contemplare la bellezza del cielo.

Un cielo che un giorno svanirà.

Ma quei blocchi più antichi non sembrano modificati. Un’analisi, per quanto sia efficace, non ce la fa a rifarti una storia da capo. Per tanti anni ho fatto un esercizio di cui non ho mai parlato in terapia. Forse mi sembrava ridicolo e poi non avevo le parole per spiegarmi chiaramente.

Non le ho neanche oggi.

Succede che se mi metto sulla strada di fare le cose, parlo di quando non sono in depressione, non posso più fermarmi.

Un’energia ossessiva che mi costringe a fare.

E così è quando non le faccio, non posso farne neanche una.

Così mi trovo una via di mezzo nella pratica.

Dopo aver fatto una cosa o due, mi fermo e dico: “ Adesso lascio il resto a domani”. Quando non faccio niente, mi sforzo di farne almeno una. E’ un esercizio di ginnastica. Credo che il nostro io sia come un muscolo che vada allenato a lavorare,  a tendersi e a rilassarsi. In questo modo, mi ribello  alla coscienza morale o almeno mi sottraggo agli estremi. E irrobustisco il mio io che imparato a limitarsi e a controllare quelle energie che mi porterebbero in un senso o nell’altro.

Non so neanche dire se abbia un’utilità, ma perlomeno mi trovo un po’ di equilibrio. Ho l’illusione che, a poco a poco, si formi questo tessuto connettivo. Che il mio io si sviluppi e, poco per volta,  riesca a regolare queste parti così sfrenate ed opposte.

Ciascuno di noi potrebbe fare una ricerca su come si è formata la sua coscienza morale, non è così difficile ricostruirne la storia partendo dalla famiglia, dalla scuola, i valori e le persone, tante immagini che ora fanno parte di noi.

Più difficile è ricostruire i bisogni che ci spingevano,  le tonalità affettive e le immagini che ci guidavano. Eravamo noi, a partire dalla nostra natura e dai nostri rapporti che vedevamo e giudicavamo. Se uno lo facesse, lo dico perché cerco di fare proprio questo, si troverebbe in un ginepraio, soprattutto qualcuno  che ha la mia malattia, ma vale, credo, quasi per chiunque. Si accorgerebbe che ha dentro valori che sono in contrasto, un numero inverosimile di immagini di sé, proibizioni opposte, che solo con molta fatica disegnano una strettissima mulattiera in un bosco fittissimo. E anche che quest’ideale stradina, in molti punti, è interrotta, perché la coerenza non è possibile in questo mondo incerto.

Mi dilungo così tanto perché queste cose mi appassionano, mi appassionano perché le vivo e poi mi appassiona raccontarle.

Vorrei poterne parlare più a lungo, ma come farlo senza annoiarti?

Del resto i sani non hanno bisogno di occuparsi di queste cose, perché il loro giocattolo non è rotto e non devono perder tempo ad  aggiustarlo. Ci sono dei sani, e non penso a te, che qualche piccolo rattoppo se lo vorrebbero fare. Sarebbe questo il compito di un malato. ”Sarebbe”, se fosse accettato.

Avrebbe la possibilità di far sorgere la curiosità sul mondo interno, che è poi così affascinante quando non fa più paura,  perché la soluzione, per chi sente difficoltà, è imparare ad analizzarsi.

Tutti si guardano dentro, chi più chi meno, anche se l’autoanalisi si può imparare solo in una terapia, se hai la fortuna di incontrare qualcuno – come è successo a me – che dopo molti anni ti dice: ” Adesso lei è in grado di fare autoanalisi, io le faccio da supervisore”. E abbiamo lavorato cosi’ un anno intero.

Ma anche senza una vera autoanalisi, si può imparare ad osservarsi. Avere qualche idea sulla coscienza morale è importante perché in genere, chi si ammala di depressione, si ammala lì.

Uno è malato perché ha dei bisogni che la sua coscienza respinge oppure la sua coscienza, la sua immagine di sé, gli chiede delle cose che la vita non può dargli o che lui non è in grado di darsi.

Tu, se posso azzardare un suggerimento, tieni sempre  ferma un’alta immagine di te stessa e quello che fai non può che essere sempre un bene. In qualche modo sfuggi al dilemma bene-male. Forse hai bisogno di fare così per sopravvivere.

Io, invece…sai che non lo so?

(continua)

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