SILENZIOSA NOTTE, NOTTE SACRA…ELVIS PRESLEY
ADORAZIONE DEI MAGI DI ALBRECHT DURER
chiara: fortunatamente non erano capanne così! (vedi il racconto sotto)
La ligèra (o leggera, e anche lingera) è la definizione gergale della microcriminalità presente a Milano fino alla prima metà del XX secolo (Wikipedia). Qui da noi, in Liguria di Ponente, ha questo senso, ma è usato anche in senso più bonario : “u l’è una meza lingera”, per dire uno che si arrabatta, al lavoro diciamo che non ci si affeziona proprio, vive di piccoli espedienti, allunga la mano quando può…INSOMMA: UNA MEZZA LINGERA!
“Un cicchetto” è un goto de vin (bicchiere di vino)
Cantico di Natale anni ’50 a Sanremo.
L’aria è molto fredda, il cielo è grigio e distante. La porta della nostra drogheria è semichiusa per attutire il gelo che viene dalla piazza. La vigilia di Natale è arrivata, ma c’è un po’ di tristezza nell’aria. Gli affari non vanno per niente bene perché di soldi ne circolano pochi.
Nostra mamma, come in tutte le feste, ha fatto una bella vetrina, con carta argentata , ciotole di canditi, uva sultanina, scatole di cacao , di the, di caffè. Per noi bambini questo è l’autentico segnale del Natale che sta arrivando, insieme alle vacanze scolastiche che sono già iniziate da un giorno. Ci divertiamo a stare in negozio come i grandi e a vedere entrare ed uscire le persone . E’ bello anche guardare fuori: dal mattino presto si sono installati in piazza con un banco provvisorio, sicuramente abusivo, fatto di due cavalletti e un asse abbastanza lungo, due o tre individui che da noi si chiamano “lingere”. Sono giovanotti, ma nemmeno tanto giovani, mal messi e con una fama da “faignants”, da fannulloni. Quello di loro che viene abitualmente chiamato “Rovinafigli”, in memoria di un’epica lite da lui sostenuta contro alcuni suoi stretti famigliari, è a capo dell’impresa. Hanno costruito con cartoni e colla delle capanne un po’ storte che probabilmente non vedranno mai nascere il Bambino. Speravano di fare un po’ di soldi, ma in tutta la giornata non sono riusciti a vendere niente. Si fa scuro e il freddo si sente di più. Entra da noi in negozio, per riscaldarsi, Gambin (così è chiamato da tutti nella piazza ma non sappiamo il perché). Possiede un baracchino (lui lo chiama azienda) dirimpetto al nostro negozio. Vende ostriche ed altri frutti di mare e normalmente si tira su, inverno ed estate, bevendo” cicchetti” uno dopo l’altro, reggendo straordinariamente bene tutti i generi di alcolici. Mia mamma, che si immedesima nel fallimento dei venditori di capanne (“non sono nemmeno al coperto e si prendono tutto il freddo di quella Vigilia gelida”) esprime la sua pena per loro: vorrebbe avere tanti soldi per comprargliele lei tutte quelle capanne. Gambin sostiene invece che non darebbe nemmeno un soldo a degli scansafatiche poco di buono che dovrebbero solo andare a lavorare. Si rompe inevitabilmente l’atmosfera di comprensione universale e siamo riportati tutti sulla spietata terra.
Ormai è venuta l’ora di chiusura, i negozi stanno tirando giù le saracinesche, anche Gambin è andato a chiudere la sua azienda. Nella quiete un po’ sorda della sera natalizia sentiamo delle urla nella piazza. Finalmente qualcosa di interessante da vedere, anche per noi bambini: Rovinafigli, ormai in preda ad una rabbia violenta e ai tanti bicchieri bevuti per scaldarsi, sta scagliando a terra, una per una, le capanne invendute, praticamente tutte. Bestemmie volano insieme ai sacri manufatti, qualche passante si ferma incuriosito, tutti noi, grandi e piccini, assistiamo senza fiatare alla fine violenta di grandi speranze. L’ostricaio è l’unico che tenta di opporsi a quella tempesta distruttiva .”Ma dai, non fa cuscì.! Ti purerai vendile l’annu proscimu” (Ma dai, non fare così! Potrai venderle l’anno prossimo). e intanto afferra una capanna. “ Ti vei, ‘sta chi a l’è bèla, tegnila!”(Vedi, questa è bella, tienila!). Ma Rovinafigli è ormai al di là di ogni ragione. “Na, a veuio buttà tutto. A sun disgrasiau. Maledete ste feste e chelu che u l’ha inventae!”(No, voglio buttare tutto. Sono disgraziato. Maledette queste feste e quello che le ha inventate!). Gambin, con aria quasi paterna e un po’ falsa, prende in mano un’altra capanna: ” Sta chi damela, ciutostu che butala, cuscì duman a fassu u presepe a ca mea . In fundu i nun sun cuscì brute” (Questa dammela, piuttosto che buttarla, così domani faccio il Presepe a casa mia. In fondo non sono così brutte).
Di fronte alla valutazione decisamente modesta del suo lavoro, l’ira sale ancor di più: ”Na, a devu buttà tutu, lascime sta, a sun nasciu disgrasiau! Ti u dixi anche tu che i sun brute”(No, devo buttare tutto, lasciami stare, sono nato disgraziato. Lo dici anche te che sono brutte). La rabbia e la violenza sono contagiose: finalmente anche l’ostricaio esprime il suo vero e più profondo parere e al diavolo l’amore per il prossimo. Tenendo la capanna in mano, quella che non era poi così brutta, esclama inesorabilmente il suo giudizio: “ Sci, ti l’hai raixiun. I sun brute. Adessu a posciu ditelu che i sun propiu di brutesci! Aspeita ca te do ina man ! ” (Sì’, hai ragione. Sono brutte. Adesso posso dirtelo che sono dei brutessi (cose disgustose). Aspetta che ti do’ una mano!) e giù a buttare capanne per terra e a saltarci addosso con i piedi. Davanti a tutto quel furore, un po’ di gente si è radunata e guarda divertita. Nessuno tenta di fermare i due invasati, qualcuno dice che è sacrilegio distruggere in quel modo delle cose destinate al Bambino. Mentre il gruppetto di curiosi si scioglie, si sente un commento anonimo ad alta voce:” Però i l’eira propiu brute! U l’è staitu meju sciapale” (Però erano proprio brutte! E’ stato meglio spaccarle).