SET112013
Lo Stato imprenditore della Mazzucato: un Libro da non perdere
SET112013
“Lo Stato Imprenditore” della Mazzucato è una delle più interessanti pubblicazioni in campo economico e politico degli ultimi anni
Il libro che oggi ti consiglio vivamente di leggere è uno di quelli che sicuramente ti indurrà a riflettere, poiché contieneinteressantissime tesi contro corrente, in grado di far ripensare il rapporto tra stato ed economia e fra imprese e stato.
Già il titolo scelto è anticonvenzionale: ”Lo Stato Imprenditore” (traduzione non letterale di The Entrepreneurial State) infatti, secondo la teoria economica classica, è una contraddizione in termini. Da quando l’ideologia comunista è stata sconfitta, con l’implosione dei sistemi ex sovietici e la fine della guerra fredda, il pensiero unico, padrone della scena accademica internazionale, ritiene che lo stato (con sfumature diverse fra gli economisti schumpeteriani e quelli keynesiani) debba intervenire nell’economia il meno possibile.
La vecchia concezione dello Stato come player di ultima istanza
L’intervento diretto dell’entità statale deve essere limitato ai pochi casi di fallimento del mercato: ad esempio durante le recessioni o stagnazioni per sollecitare la domanda (pensa al new deal dopo la crisi del 1929 in America o più recentemente col salvataggio delle big 3 di Detroit) o nei campi in cui i privati non hanno interesse ad intervenire (sanità, ricerca di base ecc).
Lo stato, considerato alla stregua di un impacciato leviatano Hobbesiano in campo economico, deve essere un player di ultima istanza, deve operare rispettando il principio di sussidiarietà e deve ritirarsi prima possibile, non essendo in grado di scegliere i vincitori: deve lasciare campo aperto agli imprenditori ed ai loro animal spirits (definizione di Keynes) che guidano il processo di distruzione creativa teorizzato da Schumpeter.
Questa più o meno è l’accademia che si insegna nelle università, riecheggiata da giornali e riviste che si occupano della materia. La storia mainstream racconta che i benefici dell’economia digitale, i progressi in medicina, le nanotecnologie sono frutto del lavoro e degli investimenti di imprenditori visionari e venture capitalist che hanno tracciato la via del progresso.
E se invece le più importanti scoperte avvenissero grazie alla ricerca finanziata dallo stato e gli imprenditori beneficiassero spropositatamente delle opportunità create dalla ricerca pubblica comportandosi come “portoghesi” o free riders? Se lo stato lungimirante fosse in grado di scegliere anche i vincitori e di aprire mercati nuovi? Se il leone fosse il pubblico e i privati i gattini come suggerito nella copertina del libro? Sono queste la tesi “eretiche” su cui la professoressa Mazzucato ci invita a riflettere.
The Entrepreneurial State e gli investimenti dello Stato americano
The Entrepreneurial State sostiene che tutte le grandi innovazioni degli ultimi decenni (General Purpose Technology) siano il frutto di investimenti e scelte del settore pubblico Americano (come nel caso delle innovazioni in campo digitale) ed in qualche caso Inglese (biotecnologie) e della ricerca comunque finanziata dagli stati .
La teoria di fondo del libro è che i privati evitano i campi rischiosi, che richiedono ritorni incerti e tempi lunghi, ed entrano in un mercato solo quando lo stato, con i suoi investimenti ed il suo intervento diretto, ha creato le condizioni affinché il settore diventi profittevole in tempi brevi.
Emblematico è il caso delle Big Pharma, le grandi industrie farmaceutiche che, negli USA, spendono più per i buy back (il riacquisto delle proprie azioni in modo da creare valore per manager ed azionisti) che per la ricerca. Infatti la maggior parte delle più innovative molecole (il 75%del totale) contenute nei medicinali sarebbero state create grazie al finanziamento pubblico, mentre la ricerca privata si sarebbe limitata a brevettare le molecole “mee too” (che non rivestono grande importanza per il progresso della scienza medica).
Non solo, il programma statale delle molecole orfane, avrebbe consentito a molte delle più importanti aziende del settore di assicurarsi la maggior parte degli utili iscritti a bilancio degli ultimi anni. Come ringraziamento per le opportunità create e per i facili guadagni mietuti, le big companies sovvenzionano le lobby per far pressione al fine di abbassare il livello di imposizione, richiedere meno controlli e fuggire in paradisi fiscali.
In tal modo le aziende, invece di operare in simbiosi per migliorare il quadro economico, ilprogresso scientifico e alimentare l’innovazione, si trasformano in parassiti, free rider, “portoghesi”. I casi di imprese che devono la loro fortuna ad investimenti statali sono innumerevoli.
La Apple e il falso mito della società che inventa tutto da zero
Emblematico è il caso della Apple, i cui successi sono anche frutto del genio visionario di Steve Jobs: ma senza le scoperte sollecitate, finanziate, immaginate e mediate dall’agenzia Darpa probabilmente nessuno parlerebbe oggi della mela morsa.
Senza gli investimenti della difesa americana non avremmo infatti le CPU, le tecnologie GPS e touch screen, Internet e le tecnologie necessarie per lo sviluppo del sistema SIRI di riconoscimento vocale. Apple secondo l’autrice non ha inventato alcuna tecnologia innovativa ma si è limitata a fare un mesh up di quanto di meglio in circolazione acquistando aziende e brevetti le cui tecnologie, senza l’intervento pubblico, non avrebbero visto la luce (un dato inquietante è che nonostante i suoi profitti siano mostruosi, la percentuale in ricerca e sviluppo del gruppo decresca in rapporto al fatturato).
La società di Cupertino è stata abilissima a cavalcare un’onda generata però dallo Stato. Infatti la Darpa, ideata per rispondere allo scompiglio creato dal lancio sovietico dello Sputnik con la sua grande autonomia non si è limitata a finanziare la ricerca di base nel settore IT (c.d. blue sky) ma è andata ben oltre: provvedendo anche alla ricerca applicata, assumendo un ruolo attivo di brokeraggio, consentendo il primo spin off della storia, acquistando le prime tecnologie prodotte e garantendo la sopravvivenza delle imprese che poi sarebbero divenute giganti.
Lo stato è entrato attivamente anche nella fase di lancio commerciale (cosa che secondo la teoria economica ortodossa non dovrebbe avvenire) ed ha “inventato” un vero mercato. Non solo ha avuto anche il ruolo di early investor (comportandosi da venture capitalist) nella giovane società di Jobs e Wozniak. Ed Apple non costituisce un caso isolato. La stessa storia si è ripetuta con altre aziende IT (Google, Intel) e in altri campi. Perché dal dibattito pubblico una tale narrazione non emerge mai? È questo l’inquietante interrogativo che pone “lo stato imprenditore”.
La miopia di USA e UK nel settore delle energie rinnovabili
I fallimenti del settore pubblico vengono sbandierati ai quattro venti mentre i successi passano in sordina. La Mazzucato, inoltre, usa le sue ricerche per lanciare un j’accuse contro America e Inghilterra che, per mancanza di visione e con politiche vacillanti nel campo delle energie rinnovabili, stanno perdendo il treno dell’ultima frontiera tecnologica a scapito della Cina e dellaGermania che, grazie alla “ mano visibile” dello stato, stanno dettando i tempi della sfida.
A prescindere dalla validità delle prove e dalle discussioni che le tesi innescheranno o hanno innescato, la rivalutazione del ruolo effettivo che lo stato ha nell’emergere dell’innovazione (come market maker o market shaper) merita un più ampio ed approfondito dibattito.
Il mantra meno stato, meno tasse, meno burocrazia, più privato, merita di essere dissezionato e passato ai raggi x. Anche i dogmi del fiscal compact e dell’austerity al di qua ed al di là dell’oceano devono essere oggetto di più approfondito esame: è questo il contributo più interessante del lavoro della Mazzucato.
Lo Stato deve intervenire ed avere una visione a lungo termine
La professoressa non chiede più burocrazia, ma vuole uno stato che non si limiti a favorire ma intervenga direttamente avendo una “pazienza” ed una visione a lungo termine che i privati non possono avere poiché esigono ritorni speculativi impossibili in settori profondamente innovativi, in cui vige la regola dell’incertezza di Knight con rischi non calcolabili.
Oltre alla tesi di fondo che da sola varrebbe un’infinità di riflessioni, molto importanti sono alcune osservazioni critiche che la Mazzucato compie nei riguardi di dogmi dati per assodati (del tipo: ”le imprese vanno dove trovano il regime fiscale più favorevole”, o ”piccolo è bello”) o sull’importanza del tipo di brevetti rispetto al numero rilasciato ogni anno, o sul valore reale dei venture capitalist e delle development bank.
In altri termini il libro è una vera e propria miniera! Purtroppo temo che le conclusioni a cui giunge la Mazzucato, se pur valide in astratto, non siano replicabili in ogni stato. Nell’Italia degli aiuti a pioggia, del capitalismo di relazione, della burocrazia che perpetua se stessa, dei politici privi di visione, del nepotismo e delle baronie, del merito soffocato, dei portali di bandi pubblici che vanno in crash nel giorno del termine di presentazione delle domande, un intervento diretto dello stato nell’economia non farebbe che peggiorare le cose gonfiando il nostro apparato burocratico “monstre” e svuotando le già esangui patrie casse.
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