——mini-ricerca sul rapporto MAFIA / SBARCO DEGLI ALLEATI IN SICILIA —“PROSEGUE” CON MAFIA /RISORGIMENTO —mi sembra fatto bene, con documenti che “chi sa” può verificare…

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo sbarco in Sicilia (denominato in codice operazione Husky) fu un’operazione militare, avvenuta durante la seconda guerra mondiale, messa in atto dagli Alleati. Fu la prima operazione delle truppe alleate sul suolo italiano durante il conflitto; e costituì l’inizio della campagna d’Italia.

Sebbene un attacco all’Italia fu deciso da americani ed inglesi durante la Conferenza di Casablanca del 14 gennaio 1943 e la sua pianificazione ed organizzazione vennero affidate al generale Dwight Eisenhower, un “piano Sicilia”, (Italy (Sicily) Project), presentato al generale Donovan, capo dell’Office of Strategic Services (OSS) fin dal 9 settembre 1942[8]

Il documento, firmato da Earl Brennan, futuro direttore dell’OSS in Italia, riguardava il reclutamento e l’impiego di sei agenti di origine siciliana, il cui compito era lo spionaggio, tramite due radio ricetrasmittenti a onde corte.

 

La trattativa fra servizi segreti dello stato americano ed esponenti di cosa nostra passò attraverso l’Office of Strategic Services, diretto dal generale William Joseph Donovan[9]: gerarchicamente, l’OSS in Europa dipendeva da Allen Dulles[10], che aveva la propria sede in Svizzera. In Italia l’OSS era diretto da Angleton e il vice direttore era Earl Brennan. Il diretto dipendente di Brennan era l’italoamericano Biagio Massimo Corvo, di famiglia antifascista e di origini siciliane, noto come “Max”, il quale aveva nome in codice “Marat”, numero di matricola 45.[11]

Max Corvo aveva presentato un proprio piano strategico per l’invasione della Sicilia e fu incaricato da Earl Brennan di organizzare i propri uomini formando un’unità militare[12] chiamata “Gruppo Earl”, ma nota fra le forze armate americane come the mafia circle (il circolo della mafia)[13], come esplicitamente dice un rapporto dell’OSS del 1945 (rapporto 06500/2-245) [14], inframmezzandolo, per non dare nell’occhio, con la partecipazione di elementi insospettabili d’ispirazione socialista. Su indicazione di Allen Dulles, stabilì ulteriori contatti con Victor Anfuso, un avvocato di New York, e Vincent Scamporino, avvocato di Middletown. Max Corvo disse che altri mafiosi come Lucky Luciano, Vito Genovese, Albert Anastasia e altre persone delle organizzazioni criminali italoamericane inserite nell’operazione Underworld, un giovane raccomandato dallo stesso Luciano, Michele Sindona, e anche un certo Licio Gelli[11], non furono mai reclutate. In realtà Walter Winchell, un giornalista, ha riferito che Luciano nel 1947 sarebbe stato proposto per la Medaglia d’oro del Congresso degli Stati Uniti per servigi nello sbarco di Sicilia[15],[16]. Vito Genovese era presente fra il personale dell’AMCOT, ufficialmente come interprete di Charles Poletti [17], Albert Anastasia, era entrato nell’Esercito degli Stati Uniti e fu collaboratore del colonnello Charles Poletti[18], capo degli Affari Civili della VII armata americana, responsabile della Sicilia.

 

 

Piano di sbarco e dislocazione delle forze dell’Asse in Sicilia

Max Corvoe la sua squadra vennero sbarcati in Nord Africa a maggio 1943. Poi, tre giorni dopo l’attacco, l’unità prese terra a Falconara, vicino a Gela, e si stabilì nel castello della cittadina. A Melilli Max Corvo incontrò padre Fiorilla, parroco di San Sebastiano, e parente di uno dei suoi uomini e poi andò ad Augusta, sua città natale, per reclutare collaboratori locali. Intanto gli agenti dell’OSS, al comando di Max Corvo e di Vincent Scamporino, occuparono le isole più piccole intorno alla Sicilia, fra cui Favignana e liberarono dalla prigione numerosi boss della mafia[14], che furono arruolati nel nascente servizio dell’OSS in Italia, Servizio informazioni militare, circa 850 “uomini d’onore” raccomandati dai capi mafiosi siciliani, che dopo l’occupazione assunsero cariche pubbliche nell’amministrazione militare del colonnello Charles Poletti: in provincia di Palermo ci furono 62 sindaci mafiosi.[11].

 

L’operazione Husky costituì una delle più grandi operazione anfibie della seconda guerra mondiale. Le grandi unità impegnate appartenevano alla 7ª armata statunitense, al comando del generale George S. Patton, e l’8ª Armata britannica, al comando del generale Bernard Law Montgomery, riunite nel 15º Gruppo di Armate, sotto la responsabilità del generale britannico Harold Alexander. Lo sbarco in Sicilia ebbe decisiva influenza in Italia: favorì la destituzione di Benito Mussolini, la caduta del fascismo e il successivo armistizio di Cassibile.

 

 

Soldati britannici in marcia durante la campagna in Sicilia


soldati britannici durante la campagna in Sicilia

 

 

 

 

 

 

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Mafia e Risorgimento

 


Il fenomeno mafioso e i suoi rapporti speciali con le autorità statali, particolarmente in Sicilia, rimandano alle condizioni in cui, nella seconda metà dell’Ottocento, lo Stato unitario si impose contro la resistenza del Regno di Napoli, detto Regno delle Due Sicilie, che controllava l’isola e tutto il sud della penisola. Se il Risorgimento fu per l’Italia un processo di rivoluzione borghese, fu una rivoluzione borghese incompleta.

La Sicilia ha conosciuto lungo tutta la storia l’esistenza di società segrete ed armate che si presentavano come organizzazioni di resistenza all’occupante straniero, oppure di difesa dei poveri contro i potenti, pur intrattenendo con questi potenti relazioni ambigue. D’altra parte, ben prima dell’unità, gli aristocratici siciliani mantenevano uomini armati e milizie private per imporre ai contadini il rispetto dell’ordine feudale, e tra l’altro il pagamento delle tasse e il rispetto dei loro obblighi nei confronti dell’aristocrazia. L’abolizione del feudalesimo nel 1812 non fece altro che rafforzare tale necessità. Non fu la fine della proprietà latifondistica; invece aprì la strada ad un lento processo di disgregazione del sistema fondiario. I latifondisti vissero sempre di più nelle città dando la gestione dei loro feudi ai gabellotti, amministratori il cui compito era prelevare le tasse dovute dai contadini. Con l’aiuto dei campieri, prelevano in particolare la gabella, termine utilizzato in Sicilia per indicare gli affitti dovuti ai proprietari.

Contemporaneamente la pressione dei contadini per ottenere il diritto alla terra aumentava, portando nell’ultimo periodo del regime dei Borboni di Napoli a sussulti e anche insurrezioni contadine, a cui i gabellotti risposero ricorrendo ai metodi tradizionali e organizzando le loro proprie bande armate. La nuova borghesia rurale rappresentata dai gabellotti si faceva giustizia da sé, il che non era altro che proseguire le vecchie abitudini dei latifondisti, per conto di questi ultimi ma anche per proprio conto, man mano che gli stessi gabellotti concentravano nelle loro mani una parte della proprietà fondiaria.

La borghesia del Nord voleva costituire uno Stato esteso a tutta la penisola, che a sua volta le avrebbe garantito la disponibilità di un mercato dalle stesse dimensioni. Ma il regno di Napoli si appoggiava alle classi possidenti delle regioni del sud, cioè innanzitutto la vecchia aristocrazia proprietaria dei latifondi, alleata ad una borghesia cittadina ancora debole, che solo a Napoli conosceva l’inizio di uno sviluppo.

Si tende a ricordare di questo periodo dell’unificazione dell’Italia solo l’avventura eroica di Garibaldi e delle sue mille “camicie rosse” sbarcate in Sicilia nel maggio 1860 per liberare l’isola dal dominio borbonico e conquistarla al nuovo Stato, che doveva essere quello di tutto il popolo italiano. Ma il re di Sardegna e il suo ministro Cavour, che dirigevano il processo di unificazione, utilizzarono Garibaldi entro stretti limiti. Capivano l’interesse di utilizzare l’uomo per dare al processo un’apparenza rivoluzionaria, e così assicurarsi il sostegno della piccola borghesia patriottica. Ma dietro questa facciata, la borghesia e lo Stato del Nord non volevano una mobilitazione delle masse, che avrebbe rischiato di prendere un carattere rivoluzionario e di stravolgere il fragile equilibrio sociale delle regioni meridionali.

Al contrario, nei confronti delle classi possidenti di queste regioni lo Stato piemontese cercava il compromesso. Voleva dimostrare che il nuovo Stato unitario poteva essere un miglior protettore, un garante più sicuro del loro dominio sociale di quanto non lo fosse lo Stato dei Borboni di Napoli in fase di decomposizione. Nel 1848 Ferdinando Secondo di Borbone si era ridotto a fare bombardare Messina per mantenere il suo dominio sulla Sicilia. Bisognava dimostrare alle classi possidenti dell’isola che il nuovo potere sarebbe stato almeno tanto duro quanto questo sovrano, che si era conquistato con l’avvenimento di Messina il soprannome di “re bomba”.

Lo stesso Garibaldi fu ben presto portato a dare questa dimostrazione, poco dopo lo sbarco in Sicilia, quando le masse contadine interpretando il suo arrivo come il segnale della loro liberazione cominciarono a sollevarsi contro l’aristocrazia terriera e ad occupare i grandi demani per proprio conto. Il “rivoluzionario” e le sue mille “camicie rosse” inviate da Cavour si rivolsero immediatamente contro le masse. Garibaldi, che si era proclamato dittatore per conto del re, organizzò la repressione del movimento contadino, con grande sollievo dell’aristocrazia siciliana. Così il passaggio di potere dalle mani dei Borboni a quelle del Regno piemontese, e la presa di controllo di quest’ultimo sulla Sicilia e il Meridione, poterono portare secondo la famosa frase del principe Salina, eroe del romanzo “Il gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a “cambiare tutto perché tutto rimanga com’è”. Il dominio di classe dei grandi latifondisti si mantenne, cambiando solo il protettore.

Al tempo stesso però questa scelta impediva al nuovo Stato di conquistare una larga base sociale in seno alla popolazione del sud. Lo sbarco di Garibaldi e l’instaurazione dello Stato unitario in Sicilia e in tutto il Meridione non furono la profonda rivoluzione che, sgomberando tutto il campo sociale, avrebbe potuto sconvolgere i rapporti di classe, e tra le altre conseguenze togliere la loro funzione alle bande armate dei gabellotti. Al contrario, il mantenimento della vecchia struttura sociale, il compromesso tra le vecchie classi possidenti e il nuovo Stato, aprivano uno spazio allo sviluppo e al consolidamento di queste bande. Le organizzazioni mafiose poterono imporre la loro esistenza come quella di una specie di potere occulto, necessario intermediario tra la società siciliana e uno Stato unitario troppo distante.

Una forza armata della borghesia siciliana

La stessa origine della parola “mafia” è ancora oggetto di discussione fra gli storici, anche se molti oggi la individuano nella parola araba “muhafiz” che significa “protettore, custode”. La storia della mafia siciliana rimane poco conosciuta per l’evidente motivo che si tratta di un’organizzazione segreta, e tale cerca di mantenersi ad ogni costo. Nelle sue ricerche sul fenomeno mafioso alla fine dell’Ottocento, lo storico Salvatore Lupo dimostra come il ceto dei ricchi contadini e dei notabili, e tra l’altro dei gabellotti, riuscì a trarre vantaggio dal contesto sociale per imporre la sua presenza ad un’aristocrazia declinante e al potere di uno Stato che rimaneva senza forti collegamenti con la società.

Non esitando a ricorrere alla violenza armata, all’intimidazione e all’assassinio, in un contesto di debolezza dello Stato e della sua autorità, i mafiosi riescono allora ad imporsi come gli intermediari necessari per risolvere i conflitti. Un furto di bestiame, un conflitto sul pagamento di un debito, trovano una soluzione non tanto grazie all’intervento dello Stato e della giustizia, ma nell’ambito di una “componenda”, una transazione in cui il mafioso locale fa da arbitro, non dimenticando di trattenere la sua commissione. Questa specie di tribunale dei conflitti impone tanto più facilmente il suo arbitrato in quanto tutti cominciano a sapere, almeno in seno alla popolazione povera, che chi non lo dovesse rispettare rischierebbe un bel giorno di ritrovarsi cadavere crivellato di pallottole in qualche campo, senza che sia mai possibile trovare un colpevole e neanche un testimone, perché la legge del silenzio, l’omertà, s’impone a tutti. Da parte loro, aristocratici e grandi proprietari, un po’ più rispettati dai mafiosi, non rischiano in generale di subire tali estreme conseguenze. Ma se volessero fare a meno dell’arbitrato mafioso, anche loro potrebbero subire qualche ritorsione, rapina o avvelenamento di pozzi. L’esperienza dimostra anche a loro che è più ragionevole accettare questo arbitrato, che non quello di un lontano potere statale.

In due occasioni ancora, dopo l’unità d’Italia, il potere mafioso fu portato ad esercitare una violenta repressione contro la popolazione siciliana. Fu il caso nel 1866, quando l’esercito schiacciò nel sangue l’insurrezione di Palermo, organizzata in parte da elementi del vecchio regime, ma basata su un profondo malcontento popolare. Poi, nel 1891-1894, fece fronte al movimento ben più largo e più cosciente dei fasci siciliani dei lavoratori. Anche se 25 anni dopo Mussolini avrebbe rubato il loro nome, questi fasci siciliani della fine dell’Ottocento ovviamente non avevano alcun rapporto con il movimento fascista. Organizzazioni della popolazione povera, contadini, braccianti, mezzadri, operai, minatori, artigiani, i fasci, nati in tutta la Sicilia, erano l’espressione delle rivendicazioni di questi ultimi e tra l’altro della fame di terra dei contadini, ma erano anche improntati ad uno spirito ugualitario e socialista. L’esercito rispose al movimento dei fasci reprimendo le occupazioni di terra, tra l’altro con l’eccidio di Catalvuturo nel gennaio 1893. Ma di fronte a questo movimento di massa, che divampava in tutta la Sicilia, il governo liberale di Giolitti fu costretto a fare concessioni, prima di essere sostituito alla fine del 1893 dall’ex garibaldino e uomo della sinistra storica Francesco Crispi. Quest’ultimo, obbedendo alla pressione delle classi possidenti siciliane, organizzò una vasta repressione e mandò in carcere i dirigenti del movimento. Quanto alla mafia, anche se a livello locale alcuni dei suoi membri aderirono al movimento dei fasci, il suo intervento fu innanzitutto di aiuto alla repressione.

“Lo Stato è una banda di uomini armati” ha riassunto Engels in una famosa formula, indicando così, in una società divisa in classi, la necessità di un potere basato su una forza armata che faccia rispettare questa divisione a vantaggio della classe possidente. Ma nelle condizioni di instabilità della Sicilia post unitaria, la sola forza armata dello Stato italiano si rivelava insufficiente per adempiere a questo compito in modo durevole, e la mafia diventava per le classi possidenti un complemento indispensabile.

Le condizioni originali della rivoluzione borghese in Sicilia e in tutto il Meridione, quindi, hanno fatto sì che alla banda armata dello Stato italiano se ne aggiungesse un’altra, occulta ma non meno necessaria della prima al mantenimento dell’ordine borghese. Espressione di una parte della borghesia locale, al tempo stesso rivale e ausiliaria del potere di Stato ufficiale, questa banda, la mafia, divenne un elemento inevitabile della società. Essa stessa aveva bisogno di darsi un’organizzazione, e lo fece sotto il nome di ’”Onorata società”, sotto la direzione di Don Vito Cascio Ferro, che pare sia stato, alla fine dell’Ottocento, il primo autentico capo della mafia. Fu sotto il suo controllo che la mafia si dette una struttura centrale, un’organizzazione territoriale, definendo i feudi di ogni “cosca”… e un finanziamento sistematico tramite il pizzo, prelievo mafioso sui redditi di ciascuno. L’organizzazione mafiosa avrebbe poi preso il nome di Cosa nostra, reimportando dagli Stati Uniti il nome preso dalla mafia italiana in questo paese.

Questa “Onorata società” e i suoi membri, gli “uomini d’onore”, trovarono inevitabilmente delle complicità e anche dei rappresentanti all’interno del potere di Stato. Organizzazione nata in una società ancora precapitalista, seppe poi seguire le evoluzioni economiche e prendere posizione nel mondo degli affari, specializzandosi ovviamente in tutti quelli per cui era necessario fare largamente a meno della legalità borghese.

Mafia e borghesia mafiosa

In Sicilia già alla fine dell’Ottocento si può parlare dell’esistenza di un’autentica borghesia mafiosa. L’assassinio di Emanuele Notarbartolo, nel febbraio 1893, solleva uno scandalo nazionale perché la vittima è un ricco borghese, che è stato sindaco di Palermo dal 1873 al 1876, poi direttore generale della Banca di Sicilia fino al 1890. Ma il mandante dell’assassinio è anche lui un potente notabile, Raffaele Palizzolo, deputato eletto grazie alla rete di clientele politiche a cui dispensa favori. Si conoscono i suoi numerosi conflitti con Notarbartolo, che gli rimprovera i suoi intrallazzi finanziari, conflitti a cui l’assassinio di Notarbartolo da parte di un sicario di Palizzolo permette di porre termine. Nonostante tutto, lo scandalo porta Palizzolo in carcere davanti ai tribunali del Nord, prima di essere finalmente liberato per insufficienza di prove, e di tornare trionfalmente in Sicilia con l’aureola del martirio. Comunque il caso dimostra che la mafia ha già cambiato epoca e che, da organizzazione della borghesia rurale, è diventata anche quella di una parte della borghesia urbana, e dispone di importanti complicità in seno al sistema politico. Messa sotto accusa dalla stampa nazionale, alla quale lo scandalo dà l’occasione di scoprire la sua natura mafiosa, la buona società siciliana risponde ovviamente che la mafia non esiste: è solo un’invenzione della gente del Nord, un nuovo modo per denigrare, ancora una volta, la gente del Sud e i suoi costumi.

In seguito, il periodo fascista – cominciato nel 1922 – fu difficile per la Mafia, o almeno per un certo numero di mafiosi. Mussolini voleva dimostrare che la sua dittatura non tollerava che una parte del paese potesse sfuggire al suo controllo. Inviò nell’isola il prefetto Mori, con l’ordine di fare la guerra alla mafia con tutti i mezzi dello Stato. Egli organizzò vere e proprie operazioni militari, portando all’arresto e alla deportazione di centinaia di mafiosi, di cui alcuni si salvarono solo con la fuga, verso gli Stati Uniti in particolare. La repressione del prefetto Mori, che in questa occasione meritò il soprannome di “prefetto di ferro”, fece sparire una parte della delinquenza mafiosa, ma in realtà toccò solo il livello degli esecutori, degli sgherri, delle famiglie che controllavano questa o quella parte del territorio. Non solo il livello più alto dei finanzieri e dei grandi latifondisti non fu toccato, ma essi riuscirono a darsi una rappresentanza in seno al partito e al potere fascisti. Lo stesso “prefetto di ferro” cadde in disgrazia, e in realtà il solito compromesso tra Mafia e potere fu mantenuto, anche se in modo meno vistoso.

Passato quel periodo di mezza clandestinità, la Mafia poté risorgere con forza dopo lo sbarco anglo-americano del 1943, che essa facilitò, e la fine del potere fascista nell’isola. Riprese rapidamente il controllo del territorio, con l’appoggio delle autorità d’occupazione, soddisfatte di trovare interlocutori autorevoli e capaci di controllare la popolazione. Una parte della Mafia appoggiò anche un effimero movimento per l’indipendenza della Sicilia, dichiarando che l’isola sarebbe divenuta il cinquantesimo Stato degli USA.

Ma innanzitutto, la Mafia affermò ancora di più il suo potere sulle campagne siciliane, nel momento in cui, con la fine della guerra, il movimento contadino riprendeva a crescere. Sindacalisti contadini e militanti del Partito comunista organizzavano nuove occupazioni delle terre dei latifondisti, la cui influenza si era piuttosto rafforzata nel periodo fascista. Una convergenza si organizzò allora, tra le forze di repressione del cosiddetto Stato Democratico che si stava instaurando e la Mafia. Già nel 1944 a Villalba, feudo del boss mafioso Calogero Vizzini, quest’ultimo diede l’ordine di sparare su un comizio del dirigente comunista Li Causi. L’episodio più famoso fu però la strage di Portella della Ginestra, il 1° maggio 1947, quando la banda di Salvatore Giuliano aprì il fuoco sui contadini riuniti lì per un comizio, facendo una decina di morti. Ma ogni giorno i sindacalisti contadini rischiavano la vita, minacciati dai mafiosi, i quali erano coperti da numerosi complici in seno all’apparato di Stato e fino a Roma.

Lo stesso Salvatore Giuliano, la cui banda fu utilizzata dalla Mafia, fu ucciso nel 1950 dal suo luogotenente Pisciotta, il quale a sua volta sarebbe morto in carcere quattro anni dopo, per avere bevuto un caffè avvelenato. In tutti questi casi le complicità risalgono fino al ministro degli Interni dell’epoca, Mario Scelba, uomo forte della Democrazia Cristiana. Grazie a questi omicidi successivi, eliminando testimoni fastidiosi, si riuscì ad evitare di sapere di più su chi li aveva coperti.

Così ristabilito “l’ordine”, il periodo che si apre col secondo dopoguerra mondiale sarà favorevole. Gli anni 1950-1960 rimangono famosi come quelli del “sacco di Palermo”, periodo in cui un certo numero di imprese edili, fra le quali quelle del mafioso Francesco Vassallo, fanno affari d’oro grazie alle loro relazioni con tutti i dirigenti democristiani. Nel complesso però è un periodo abbastanza incerto per Cosa nostra, perché negli anni dal 1950 al 1960 il controllo della Mafia sulla società siciliana diminuisce. L’espansione economica di quel periodo, lo sviluppo dell’industria, dei servizi, degli impieghi pubblici, ma anche la massiccia emigrazione verso il Nord per la mancanza di lavoro, consentono infatti a tutta una parte della società di non essere più alle sue dipendenze. In questa società che sembra in progresso “l’uomo d’onore” non ispira più lo stesso rispetto. Anche se Cosa nostra prosegue le sue solite attività, il suo ruolo diminuisce, almeno relativamente allo sviluppo del resto della società. Purtroppo, sarà solo una parentesi.

Da questo punto di vista gli anni ’70 rappresentano una svolta. Mentre il periodo di espansione economica volge alla fine, le attività più parassitarie diventano più importanti. La collusione con i Comuni amministrati dalla Democrazia Cristiana permette di approfittare delle licenze di costruzione e degli appalti pubblici. La Mafia preleva il pizzo sulla maggior parte degli affari, che si tratti dei mercati agroalimentari o della costruzione di una strada. Si può allora verificare che la Mafia e i mafiosi hanno fatto un salto decisivo: la borghesia mafiosa è ormai una borghesia d’affari, radicata nell’immobiliare, nell’edilizia, nei lavori pubblici e nella finanza. Al tempo stesso la Mafia si apre al commercio internazionale, prende una posizione di primo piano nel narcotraffico, la cui espansione diventa mondiale. La sua organizzazione clandestina, la sua pratica delle armi e delle intimidazioni, i suoi collegamenti con le famiglie di Cosa Nostra negli StatiUniti, sono in questo senso vantaggi importanti.

Tuttavia non tutto è semplice in seno a Cosa nostra. L’esistenza di una “Cupola”, una specie di direzione suprema che riunisce le famiglie mafiose, destinata ad arbitrare sulla delimitazione di territori e campi di competenza, evidentemente non basta a risolvere i conflitti. Le guerre mafiose scoppiano quindi periodicamente tra le famiglie, lasciando morti sul terreno. Ogni tanto, anche i poliziotti, o i giudici troppo curiosi, o che credono troppo alla loro funzione, sono minacciati o eliminati. Lo Stato così sfidato è allora costretto a reagire, e i governi a rimettere all’ordine del giorno la lotta alla Mafia, limitando per qualche tempo la sua libertà d’azione o almeno le sue manifestazioni troppo vistose.

 

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1 risposta a ——mini-ricerca sul rapporto MAFIA / SBARCO DEGLI ALLEATI IN SICILIA —“PROSEGUE” CON MAFIA /RISORGIMENTO —mi sembra fatto bene, con documenti che “chi sa” può verificare…

  1. Donatella scrive:

    Interessante e appassionante la storia della mafia, che ha caratterizzato la Sicilia e il Meridione in genere. Attualmente si è estesa a tutto il territorio nazionale e, se fossimo pessimisti, potremmo dire che ha egemonizzato e egemonizza tutta la Nazione.

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