REPORTAGE DI EDOARDO ALBINATI, SCRITTORE/ E FRANCESCA D’ALOJA, REGISTA E ATTRICE—RACCONTANO IL LORO VIAGGIO IN NIGER CON L’UNHCR —CORRIERE DELLA SERA 28-12-2017/ e / 29-12-2017

 

CORRIERE DELLA SERA, 28-12-2017

http://www.corriere.it/esteri/17_dicembre_28/aerei-bambini-trafficanti-cuore-sabbioso-niger-64941f5a-ec03-11e7-9fa2-1bd82b1c1e98.shtml

 

Aerei, bambini e trafficanti: il cuore sabbioso del Niger

Lo scrittore Edoardo Albinati e la compagna regista e attrice Francesca d’Aloja raccontano la loro missione nel Paese centro africano con l’Unhcr. La prima puntata del loro diario di viaggio

 
 
Primo giorno

Edoardo: Sì, confesso di essere uno di quelli che fino a due mesi fa non distingueva il Niger dalla Nigeria. Mentre a Rebibbia i miei studenti erano chini sul foglio col compito in classe di analisi logica, mi sono studiato bene la cartina dell’Africa appesa al muro. Ed eccola qui, lampante, a colori, la ragione per cui oggi il Niger è il crocevia a cui tutti guardano con allarme: questo vasto Paese senza sbocco sul mare è incastrato in mezzo agli stati più caldi dell’Africa occidentale e del cosiddetto Sahel, la lunga fascia orizzontale subsahariana che va dall’Atlantico al mar Rosso, cento milioni di abitanti, e sempre meno acqua. A ovest il Mali, la cui disintegrazione l’esercito francese si affanna invano a tamponare dal 2013, e il Burkina Faso, attraverso cui passano le rotte di migranti dai paesi del Golfo di Guinea; a sud Benin e Nigeria (il che vuol dire Boko Haram e il fuggifuggi dalle incredibili violenze perpetrate dalle sue milizie), a oriente il Ciad e a nord la frontiera (si fa per dire, una linea tracciata nel deserto) con l’Algeria e con la Libia. Niger, il punto di passaggio formicolante di tutto quanto si muove oggi nell’area: rifugiati, migranti, armi, capitali occidentali e cinesi, funzionari e militari di mezzo mondo. E le miniere di uranio che riforniscono le centrali atomiche francesi, garantendo acqua calda nei termosifoni e nei bidet che pure a Parigi non hanno. Niamey è perennemente avvolta da un pulviscolo sabbioso. Alberi, persone, automobili e motociclette, frutta e merci esposte sui banchetti per strada sono coperte da uno strato sottile, come dopo l’eruzione di un vulcano. L’albergo è in cima a un’altura che dà sul fiume Niger, e da qui si può vedere il lungo ponte che lo attraversa gremito di gente: è una manifestazione studentesca, imponente, ma all’apparenza molto pacifica. Sfilano lenti, innumerevoli e stranamente silenziosi. «Protestano, protestano sempre, dagli universitari ai bimbi delle elementari», dice un Nigerino con un filo di sarcasmo: «… e se non rompono le vetrine a sassate, come in Europa, è perché ci sono poche vetrine». L’impressione immediata è infatti quella di un paese molto povero abitato da gente insolitamente mite. Che si accontenta di poco, di pochissimo e anche per questo non parte in massa per l’Europa, piuttosto migra a cercar lavoro verso i paesi del Centrafrica. Invece di andare a Nord, il nigerino indigente va verso sud. Gli studenti scendono in piazza perché il governo spende nella sicurezza (leggi: repressione) invece che nell’educazione e nella sanità. E’ un circolo vizioso e paradossale questo della sicurezza: ossessionati dal terrorismo e dai migranti, Stati Uniti ed Ue versano in Africa un fiume di denaro per misure di sicurezza, solo un esiguo rivolo finisce a beneficio delle popolazioni locali poverissime, sicché alla fine i disperati e gli esasperati che non hanno più nulla da perdere si arruolano nelle formazioni jihadiste. Ergo, le spese massicce per la sicurezza fomentano l’insicurezza. Adesso, per esempio, che il traffico di migranti verso il confine con la Libia e oltre è stato vietato, non è che i convogli siano scomparsi, solo battono sentieri diversi e più pericolosi nel Sahara, per sfuggire i controlli. La scoperta degli ultimi quindici anni di storia è che il problema non è tanto combattere e alla fine rovesciare i jihadisti, bensì creare, in seguito, un briciolo di stabilità e di benessere per la popolazione: se non si raggiungono questi ultimi obiettivi, le iniziative poliziesche e militari servono a poco. Attualmente in Niger ci sono circa 55.000 rifugiati dal Mali (nella zona di Tillabery, a ovest), 110.000 dalla Nigeria (a est, zona di Diffa) e più di centomila nigerini sfollati internamente. Un numero enorme…

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Secondo giorno

Francesca: Il Niger è il uno dei Paesi più poveri del mondo (alcuni dicono il quarto, altri il quinto), basta guardarsi intorno per crederci, ma c’è un altro elemento evidente e non segnalato dalle classifiche mondiali: i nigerini sono forse uno dei popoli più belli sul pianeta. Uomini e donne, sono quasi tutti belli. Aggraziati, eleganti. Come i musicisti che incontriamo stamattina, riuniti sotto un capanno all’aperto in un giardino senza fiori né erba. Ci accovacciamo sulle stuoie all’ombra di un baobab e li ascoltiamo suonare i loro strumenti fatti di pelle di capra. L’unica donna, Laetitia, originaria delle Isole de La Réunion, canta e suona una tastiera dai tasti intermittenti, alcuni funzionanti, altri no, accanto a lei il più anziano del gruppo intona una sorta di blues parlato, agitando le braccia e poi ballando, e non posso fare a meno di notare una somiglianza che fa sorridere per la sua assurdità: è davvero uguale a Capannelle, il famoso caratterista del cinema italiano, il vecchietto de «I soliti ignoti». Però nero. Si chiamano Studio Shap Shap e sono bravissimi. E’ un benvenuto gentile di breve durata, non siamo venuti fin qui per ascoltare musica, la vera missione deve ancora cominciare. Andiamo a visitare il Guichet Unique, il centro di servizi per i rifugiati. Ci accoglie una fulva ragazza inglese dalla pelle diafana, sembra fragilissima ma non lo è affatto come del resto non lo sono le altre ragazze (quante donne!) dell’Unhcr che impareremo a conoscere. Parla cinque lingue e comunica con tutti. Ci spiega che qui i rifugiati ricevono assistenza sanitaria, legale, educativa, in questo ufficio hanno la possibilità di denunciare soprusi e sfruttamenti potendo contare su riservatezza e protezione. Arrivano in molti, una media di cinque famiglie al giorno.

Edoardo: Vengono dal Mali, dal Togo, dal Camerun, dalla Costa d’Avorio. Alcuni di loro si sono spinti fino nel cuore del Niger, ad Agadez, ai confini col deserto, con l’idea di proseguire verso la Libia e oltre, ma hanno capito che non ce l’avrebbero fatta mai e allora hanno ripiegato verso la capitale per chiedere asilo. I loro guai sanitari sono sempre quelli: malattie respiratorie nella stagione secca, le febbri malariche nella stagione delle piogge, severe infezioni urinarie. Certe volte sarebbe sufficiente avere in dotazione una zanzariera e imparare a installarla come si deve. Fuggono da ogni genere di catastrofe, calamità naturali, saccheggi, incendi, e proprio grazie ai loro racconti si comprende quanto sia labile la distinzione tra i cosidetti migranti economici e chi fugge da una guerra o da una campagna di pulizia etnica o religiosa. Se il tuo bestiame muore di sete, o se ti viene requisito dai jihadisti (bene che va), il risultato alla fine è il medesimo: devi andartene. Partire prima di morire. «Il luogo dove rischi di perdere la vita, purtroppo devi lasciarlo» è la mesta considerazione di uno di loro. Incontriamo alcune donne del Mali che son venute a prendere delle medicine, una allatta seduta tranquillamente su pavimento, i loro bambini sono bellissimi, anche se uno è strano, i suoi occhi roteano e la testa si piega verso l’alto e verso il basso senza fermarsi mai. Ha un disturbo mentale. Anche di quello si occupa il dottore del centro, un giovane piccolo, scrupoloso e paziente. Ma le bambine guardandoci non possono fare a meno di ridere scuotendo il groviglio di treccine che hanno in testa. Ci sono poi rifugiati residenti in Niger ormai da tempo, per esempio, un congolese affabile che sussurra: «Sì, anche qui la situazione è instabile… è una polveriera… e può scoppiare da un momento all’altro».E allora, gli chiedo, prevedete di spostarvi ancora? «E dove? Dove andiamo? Oh, no, io non voglio muovermi più neanche di cento chilometri… almeno fin quando la situazione non precipiterà anche qui!», ma con un gesto della mano e un sorriso sembra voler scacciare questa eventualità. Ho letto una statistica che sfata il mito dell’invasione usato in Europa per fomentare gli elettori: in realtà, solo il 6% dei migranti lascia il continente, la stragrande maggioranza si muove tra gli stati africani.

Francesca: Nel cortile interno del centro mi siedo accanto a una donna ivoriana, parliamo in francese. E’ in attesa del visto per l’Europa. «Attesa» è la parola cardine dell’esistenza di ciascun rifugiato, costretto a vivere in un non-luogo, sospeso, la sua identità piano piano si annulla, si cristallizza in attesa di tornare e essere qualcosa, qualcuno. Vive i suoi giorni senza alcuna possibilità di decisione ma dipendente da decisioni altrui. «Penso solo all’avvenire dei miei figli», mi dice la donna, «che possano continuare a studiare in Europa. Il resto non ha importanza». La sua valigia è pronta da giorni.

Edoardo: Un gruppo di eritrei, evacuati dalla Libia, viene ospitato in una «Case de passage», in attesa di essere trasferito in Francia. Sappiamo che voleranno con nostro stesso aereo per Parigi, tra poco meno di una settimana, anche se non possiamo annunciarlo. La discrezione, in questi casi, è d’obbligo, per non rendere ancora più spasmodica l’attesa e più cocente la delusione per un eventuale rinvio.

Francesca: Il centro d’accoglienza è un fabbricato a due piani, con varie camerate che ospitano una cinquantina di persone. Chiediamo se qualcuna di loro sia disponibile a un incontro, non hanno molta voglia di parlare, ma un paio di loro acconsentono. Due ragazze in particolare hanno storie molto simili e terribilmente «classiche», che un altro ospite della casa, Amman, si offre di tradurre per noi in un inglese smozzicato. Oromia è partita che aveva tredici anni, ora ne ha venti. Ha girato l’Etiopia, il Sudan, il Libano (faceva la babysitter, in Medio-Oriente è tipico lo sfruttamento domestico delle ragazze eritree), poi daccapo in Etiopia, quindi Sudan, da lì in Egitto e infine in Libia, dove l’hanno incarcerata.

Edoardo: Thenat invece ha ventidue anni, viene da Asmara, è stata sbattuta su e giù attraverso gli stessi paesi africani per un anno e mezzo e poi è finita dentro in Libia per tre mesi, in cinque diverse prigioni, e lì è stata dura, molto dura: da trenta a cinquanta persone per cella. Finché quelli dell’Alto Commissariato sono riusciti a evacuarla, l’11 novembre scorso, qui in Niger. «Ah! Tutti i giovani in Eritrea sognano di passare il mare e andare in Europa…». Ha lo sguardo perso, triste, severo, gli angoli della bocca piegati all’in giù, i capelli schiariti, anzi quasi bruciati, dal sole e dall’henné, e manifesta un solo desiderio, adesso, che la fa smaniare: «Voglio telefonare a casa! Sono sette mesi che non sento nessuno».Ma sarebbe molto pericoloso sia per lei sia per la sua famiglia laggiù. Tutta la nostra frammentata conversazione si svolge sul filo del non-detto, di ciò che le ragazze tacciono, e comunque drammaticamente esprimono, tacendolo. Ce n’è un’altra che invece è molto più spigliata, ironica, ci tiene a dire la sua, e parla un inglese disinvolto. «Come ti trovi qui in Niger?» «Io? E’ come se fossi nata oggi…!» «E qual è il tuo sogno?»«Mi accontento di poco», e ride. «Vorrei sterminare tutte queste zanzare!». I paesi che dovrebbero prestarsi più volentieri ad accogliere questi rifugiati, oltre la Francia, sono la Svizzera, la Svezia e il Canada.

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Terzo giorno

Edoardo: Veniamo guidati attraverso corridoi dipinti di verde brillante e illuminati al neon degli Uffici dove si esaminano le domande di asilo e si rilascia lo status ufficiale di rifugiato in Niger. Il responsabile ha un nome quasi brianzolo, da vecchio film di Dino Risi tipo «Il vedovo», si chiama Malangoni: è un uomo bello, elegante, e parla un francese ricercato, strutturatissimo, cosa che riscontreremo spesso nelle nostre conversazioni nigerine a ogni livello. Ma come fa il Niger a essere così ricettivo, coi migranti e i rifugiati, mentre ci sono paesi europei che erigono muri per tener fuori poche centinaia di persone? Monsieur Malangoni pazientemente ci spiega che «non si ha un particolare merito nell’accogliere uno straniero che fugge dal suo paese, qui in questa parte dell’Africa… perché costui, a ben pensarci, non è affatto uno straniero» o non viene percepito come tale. Le nazioni che circondano il Niger sono abitate dagli stessi popoli, vi si parla un po’ dappertutto una lingua comune, il kanuri, e non è infrequente che di due fratelli, uno stia in Niger e l’altro in Nigeria, oppure, vista la poligamia, che uno abbia una moglie di qua e un’altra di là (Malangoni ride sotto i baffi). Insomma la frontiera è un fatto amministrativo e poco più. La solidarietà qui non è un valore astratto ma un dato naturale, fisico, così come sono beni comuni l’aria e l’acqua. La solita frase «siamo tutti fratelli», detta con estrema leggerezza da Malangoni, non suona affatto retorica, ma concreta. Quest’uomo fascinoso, in chiusura della nostra seria conversazione politica, butta là con nonchalance di aver recitato, quand’era ragazzo, nientemeno che al Teatro di Parma…! Dunque, la vocazione dell’attore…

Francesca: Di questa penosa condizione dello spirito, l’attesa, oggi siamo prigionieri anche noi: è previsto per la giornata infatti l’arrivo dell’aereo che porta in salvo le persone evacuate dalle prigioni libiche, ma non sappiamo se e quando atterrerà. Facciamo un giro per la città non-città e scattiamo fotografie, raccogliamo immagini. A 360° l’obiettivo restituisce lo stesso scenario. Strade perlopiù sterrate, baracche, edifici sgangherati, assenza di segnaletica stradale. Non esiste un monumento oltre l’imponente moschea finanziata da Gheddafi, non esiste un centro. E ogni cosa è avvolta dalla polvere. (che si infiltra inesorabile sotto i vestiti, nelle narici). Banchetti di mercanzie, tranci di carne e canne da zucchero, frutta, tuberi e pezzi di ricambio, stoffe colorate, e poi plastica, plastica, plastica. Le insegne delle bottegucce dipinte a mano, con un commovente e accurato stile naif, Coiffeur, Atelier de Couture, Bijouterie Touareg, i muri rosso mattone con su scritto «Défense d’uriner», le motociclette coreane scassatissime e le biciclette, e soprattutto i bambini. Numerosissimi. E’ la cosa che più mi salta agli occhi tutte le volte che mi trovo in un paese povero. La loro chiassosa presenza, sempre più rara da noi, qui è predominante. Nessuna notizia dalla Libia. Ci propongono una gita sul fiume, a poco più di mezz’ora da Niamey. Il grandioso Niger, il cui corso misterioso (forma una mezzaluna) ha fatto impazzire i geografi di mezzo mondo. Con le jeep attraversiamo una zona desertica costellata da arbusti rinsecchiti. Mi pare di vedere degli uccelli appollaiati sui rami, sembrano corvi, cornacchie, ma è un’illusione ottica: sono brandelli di plastica nera (chissà perché, sempre di quel colore) trasportati dal vento e afferrati dai rami secchi. Due piroghe ci aspettano sulla riva del fiume e confesso non vedo l’ora di montare sulla mia, forse per un ricordo d’infanzia che mi prende alla gola. E infatti, appena il barcaiolo si allontana da terra e sento il rumore dell’acqua sotto i colpi della pagaia, mi sento bene. E’ una sosta rilassante, quasi ipnotica. Necessaria. Attracchiamo al villaggio del barcaiolo accolti da uno stuolo di ragazzini urlanti, ci scortano verso quella che per noi è un’attrazione e per loro abitudine: un enorme albero grondante grappoli di pipistrelli giganti. Di nuovo in barca avvistiamo un gruppo di ippopotami che galleggiano uno dietro l’altro sul filo della corrente. Siamo in Africa.

 

2A PARTE DEL REPORTAGE DEL 29-12-2017

http://www.corriere.it/esteri/17_dicembre_29/rifugiati-pecore-banditi-islamici-linea-virtuale-niger-mali-bd97157c-ec84-11e7-ba29-fb1d66cc2503.shtml

 

Rifugiati, pecore e banditi islamici
La linea virtuale tra Niger e Mali

Le ultime tappe del viaggio con l’Unhcr dello scrittore Edoardo Albinati e la compagna Francesca d’Aloja

Pubblichiamo la seconda parte del diario della missione in Niger. Qui la prima parte diario

Quinto giorno

Edoardo: Pare che i bambini eritrei arrivati col volo notturno da Tripoli abbiano saltato tutta la notte sul letto, svegli come grilli. Una delle ragazze evacuata dalle carceri libiche ha avuto una crisi di panico. Terrorizzata, temeva di essere rimasta incinta e avere contratto l’Aids in prigione. Gli esami clinici hanno per fortuna escluso queste ipotesi. Ma il malessere sarà comunque difficile da curare. «Non sento più il mio corpo come una cosa mia. È come se avessero levato un tumore dal cervello. Ecco come mi sento». (Il primo ministro Gentiloni ha dichiarato che truppe italiane verranno presto schierate in Niger. La notizia ci colpisce e al tempo stesso non ci stupisce affatto: è un segno molto eloquente. Fino a pochi mesi fa non ne parlava quasi nessuno, del Niger, ora tutta l’attenzione è puntata qui, su questo paese che stamattina il governatore di Agadez ha detto occorre trasformare da «un corridoio verso l’inferno della Libia» a «un territorio di accoglienza e integrazione». Serviranno solo soldati per ottenere questo?).

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Sesto giorno

Edoardo: Partiamo presto in macchina verso ovest, la viabile che corre a fianco al Niger e porta alla frontiera con il Mali ed il Burkina Faso. La strada è quasi tutta dritta, attraversata a saltelli da file di capre suicide, ciuchini, pecore bicolori e vacche dalla schiena bozzuta. Le portiere della jeep corazzata occorre usare entrambi le mani e spingere forte per aprirle, tanto sono pesanti. Fatti poco più di cento chilometri, a Tillabery, ci fermiamo nel compound dell’Unhcr per incipriarci il naso e un minimo di security briefing. In effetti il Nord del Mali è nel caos, da anni, e la frontiera col Niger, avverte con un sorriso beffardo il capo della sicurezza locale, è «poreuse», porosa, il solito eufemismo per dire che è virtuale: una linea tracciata col righello sulla mappa dell’Africa da qualche diplomatico europeo, un secolo fa. Ci mostra sulla cartina tre zone contrassegnate a pennarello blu, che in parte si sovrappongono e accerchiano Niger e Mali di qua e di là dal confine. «A ovest stanno i Peulh», un popolo diffuso nel Sahel che durante l’esodo si porta dietro il suo bestiame, o ciò che ne resta dopo le razzie subite (più tardi, nel campo, vedremo le loro donne dal cui velo sbucano sulla fronte spettacolari acconciature cespugliose). Un altro cerchio indica la minacciosa presenza di Moujao, sigla degli scissionisti di Al-Qaeda. «E questi qui, chi sono?» chiedo indicando il terzo anello blu, il più grande, che congiunge i precedenti. Con la miracolosa commistione di gravità e ironia che contraddistingue gli uomini d’azione qui in Niger, il mio interlocutore risponde asciutto: «C’est la criminalité…» E cosa sono peggio, scusa, i jahidisti o i banditi? Lui alza le spalle: se nel tuo villaggio piomba all’improvviso un pickup zeppo di uomini armati a sparare e saccheggiare, le sigle perdono significato. Fuori dal compound due automezzi armati con Rpg e mitragliatrice pesante, all’ombra di un albero, ospitano gruppi di soldati nigerini, stravaccati in pose plastiche, eppure tutti col fucile già imbracciato: ci scorteranno per altri 80 chilometri verso il Mali, ad Ayorou. Qui la zona è senz’altro calda, livello 4 di sicurezza su 5. Negli ultimi mesi sono stati uccisi in imboscate quattordici militi nigerini e quattro americani, mandati ad addestrarli (la tecnica anti-terrorismo che insegnavano: “Catch and kill”). Ad accoglierci ci sono il prefetto, un tuareg dall’eloquio impeccabile, con la fascia del turbante incollata sul labbro inferiore, e il sindaco di Ayorou, un bellissimo e affabile uomo dagli occhi iniettati di sangue come Michael Jordan. Insieme a loro ci rechiamo a visitare la «station de pompage» che succhia e filtra l’acqua dal Niger e coi suoi grossi depositi serve sia gli abitanti locali sia la comunità di rifugiati maliani. E’ importantissimo questo fatto: che ad approfittare degli aiuti umanitari siano sempre anche gli indigeni, altrimenti si creerebbe malcontento nel vedere tutti i soccorsi indirizzarsi solo sui profughi. Al fiume, dentro cui affondano le enormi tubature dell’impianto di depurazione, c’è il consueto festoso bordello di vacche al bagno e donne che lavano i panni e bambini che sguazzano. Mentre camminiamo nella mota a fianco dei silenziosi militi nigerini, dallo sguardo nascosto dagli occhiali a specchio, facciamo considerazioni tecnicamente ammirate su quell’ingegnoso, economico, riproducibile armamento che ha attraversato mezzo secolo scorso e ancora oggi soldati, ribelli e banditi di tutto il mondo brandeggiano con disinvoltura: il Kalashnikov. Dalle nevi afghane alle dune del Teneré alle umide foreste indocinesi, dove falliscono fucili più sofisticati, l’AK-47 non si inceppa, si pulisce facile, lo trovi ovunque, costa poco, dura molto. Per i maliani sono state costruite quattrocento casette, più altre cinquanta destinate ai locali, che però un’alluvione ha parecchio danneggiato. Entro gennaio partirà un progetto per restaurarle con tetti più resistenti. Costa solo 5000 franchi, un prezzo simbolico, circa 8 euro, avere l’usufrutto di queste abitazioni per sette anni. E’ previsto che i campi di rifugiati chiudano entro il 2019 integrando definitivamente i rifugiati nel territorio nigerino. Ci si riuscirà?

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http://video.corriere.it/bazou-l-ex-passeur-agadez-noi-costretti-fame-trasportare-migranti-sahara/7505a24a-ebdc-11e7-9fa2-1bd82b1c1e98

 

 

Francesca: Sono circa 11.000 i rifugiati maliani che si trovano a Tabareybarey, in quello che per semplicità definiamo «campo» ma la cui corretta denominazione è Zar (Zone Accueil Réfugiés). E’ un territorio molto più ampio e aperto di un campo convenzionale, in modo che le famiglie di rifugiati abbiano modo e spazio per tenere presso di sé il bestiame, pecore e asini, portato dal Mali. Il protection officer locale si chiama Gambo. Un uomo calmo, gioviale, ironico, sapiente. A Niamey ci hanno detto che ogni settimana spedisce ai colleghi un messaggio augurale, una perla di saggezza. Gli chiedo se ce la dà anche a noi visitatori, solo per oggi, una perla tutta speciale. E lui inizia a rimuginare. Poi parte e noi dietro a lui. Gambo: fisico possente e spirito gentile. Lo seguiamo nei vari capannoni dislocati in un’area molto vasta. E’ una giornata afosa e l’interno delle strutture in pvc è surriscaldato non solo dalla temperatura ma anche dal lavoro operoso che vi si svolge. Andiamo per gradi e cominciamo con l’ufficio registrazioni, un grande capannone gremito di persone che attendono di essere identificate e schedate attraverso il nuovo sistema biometrico che alle impronte digitali aggiunge la registrazione dell’iride. Sedute ordinatamente su panche di legno intere famiglie attendono il loro turno. Uno dopo l’altro si avvicinano a uno dei tanti tavolini impolverati allestiti con computer e strumentazioni, e si sottopongono alle procedure. Il riconoscimento dell’iride avviene attraverso un piccolo apparecchio che pur assomigliando a un antiquato visore di diapositive è strumento sofisticatissimo, ed è suggestivo assistere al contrasto di civiltà rappresentato da un procedimento moderno, futurista, su uomini che sembrano provenire dall’antichità, costretti a srotolare i loro lunghi turbanti, e donne velate abbigliate con lunghe vesti lacere. Gambo ci mostra il risultato finale della procedura: una scheda dettagliata con dati anagrafici completi, incluse le indicazioni sulle competenze lavorative di ciascun componente della famiglia, e, più sorprendente ancora, sui desideri, sulle aspirazioni, cioè sul lavoro che a questi ragazzi e ragazze piacerebbe fare. Se mai ne troveranno uno. Fa impressione notare che la casella relativa all’istruzione è quasi sempre riempita dalla sigla NE, No Education. Sono in grande maggioranza analfabeti. Proseguiamo il giro stringendo mani, incrociando sguardi, in molti si staranno chiedendo chi siamo e perché siamo qui, i bambini ci corrono dietro e noi passiamo in rassegna le varie sezioni, il presidio medico, quello per i colloqui. Una mappa commovente posta al centro del campo ha assegnato a ogni settore il nome della città o della zona del Mali da cui provengono i rifugiati. Sotto un capanno all’aperto una delegazione di rifugiati ci attende per un colloquio. Il primo a parlare si chiama Mahama Kaboulaba, detiene il triste record di esser stato il primo maliano ad arrivare in Niger, insieme alla famiglia, nel 2012, e per questo è diventato il presidente del Comitato Rifugiati. Ci dice che il campo qualche volta è stato visitato dai banditi che arrivano dal Mali: «La frontiera è molto vicina, troppo vicina…». Al gruppo si uniscono alcune donne, hanno voglia di partecipare all’incontro, sono anche spiritose. Chiedo a una di loro come sta, come si trova qui in Niger. «Non si possono fare paragoni con ciò che accade dall’altra parte» risponde, e sembra davvero che «l’altra parte» sia al di là di una staccionata, in questa terra dai confini così labili. C’è anche un momento di ironia, quando la stessa donna dice che a volte accade che «lasci il marito di là… e te lo ritrovi di qua». Uomini e donne sono concordi sulla medesima aspirazione e cioè quella di liberarsi dal costante stato di dipendenza. «Vogliamo fare qualcosa, siamo pronti per riprendere le attività di cui eravamo capaci: cucito, pesca, lavori artigianali, coiffure…». Si avverte in loro questa vibrazione fattiva. Ora che il pericolo immediato è stato scongiurato, vogliono tornare a vivere.

 

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Edoardo: Mentre stiamo per ripartire chiedo a Gambo, salutandoci: «… e insomma, la famosa perla di saggezza che ci avevi promesso?». Lui ci ha pensato su. «Connaissez-vous Victor Hugo?». Ma certo. E la poesia «Fonction du poète», la conoscete? No, mi dispiace, mai sentita. Allora Gambo si schiarisce la voce e attacca a recitarla, a memoria, sotto lo stesso capannone polveroso dove abbiamo intervistato i Maliani. «Dieu le veut, dans les temps contraires,/ Chacun travaille et chacun sert…». Nel tempo avverso, tutti lavorano e tutti servono… Ma che strano, ascoltare le apostrofi enfatiche e martellanti del vecchio Victor Hugo in questo brullo spicchio di Niger, a venti chilometri dalla frontiera con i jihadisti… Grazie a queste sei ore e passa di jeep, oggi credo di aver capito, insieme alla guerra alla fame e alle malattie (che esistono da sempre), quale sia il grande nemico dell’umanità, o piuttosto del mondo intero. Un nemico che esiste da pochi decenni ma cresce in modo esponenziale: La plastica. Le strade sono bordate e i villaggi infestati da immondezzai di residui plastici. Non abbiamo visto un solo albero in Niger, anche se a molte miglia dalla minima presenza umana, i cui rami non fossero decorati da sacchetti neri trascinati dal vento: di nuovo l’illusione da lontano che si tratti di avvoltoi o cornacchie. E i campi paiono essere coltivati a bottiglie e bottigliette.

 

 

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http://video.corriere.it/dauda-rifugiato-maliano-costretti-tornare-casa-dove-infuria-guerra/2bff52bc-ebdc-11e7-9fa2-1bd82b1c1e98

 

 

Settimo giorno

Francesca: Una ragazza eritrea di 29 anni rende la sua testimonianza in un inglese brutalmente semplice. «L’attraversamento del Sahara e stato “the bad of the bad”, il peggio del peggio: niente acqua, niente da mangiare, il sole così pesante, e poi ci picchiavano. Ci abbiamo messo un mese. Ma la cosa più dura è stato la Libia. Ci hanno rinchiusi finché non abbiamo pagato, io gli ho dato 3600 dollari. Così ho finito i soldi, e siamo partiti verso il mare, ma prima di arrivarci siamo stati presi da Daesh, che ci ha tenuto prigionieri per due settimane. Mi hanno violentato, in due, non so chi fossero, avevano le facce coperte, vedevo solo i loro occhi (s’interrompe, china la testa, piange). Ci hanno lasciato in mano a un altro gruppo. Eravamo circa in 160. Siamo arrivati a Misurata, e dopo solo un giorno ci ha arrestato la polizia. Nelle prime 24 ore ci hanno dato solo un po’ d’acqua e una galletta. Un certo giorno è venuto a visitarci uno dell’ Iom e ci ha chiesto come stavamo, male, male, gli abbiamo detto, ma volete tornare in Eritrea? no mai, neanche morti… Dopo 16 giorni di prigione qualcuno ha pagato la polizia e ci ha portati a Sabrata. Di notte. Siamo rimasti a lungo senza bere ne mangiare. Una volta a Sabrata, l’uomo che ci aveva prelevato a Misurata ci ha minacciato “Io ho pagato per voi e ora voi pagate me se volete che vi liberi” “Quanto?” “5500 dollari”. Ma non avevo più un soldo. La mia famiglia è povera e ai miei, i 3600 dollari, glieli aveva dati la chiesa. Ma lui insisteva: “voglio 5500 dollari”. La cosa è andata avanti così: pasta in scatola per quattro mesi, e da bere acqua salata, e poi ogni possibile malattia, tosse, malaria, senza essere mai curati, nessun dottore per noi. Sei eri malato, morivi, ma io ho pregato Dio che facesse il mio bene e grazie a lui sono ancora viva (s’interrompe di nuovo, commossa). Quindi ci hanno spostati in autobus in un altro posto e hanno di nuovo chiesto i soldi. Ci hanno messi in una casa e da lì i ragazzi sono riusciti a scappare e siamo rimasti solo noi donne. Un altro posto ancora, Ben Walid, poi Zawiya. Eravamo più di cento nel camion, poi lui ha scelto trentadue donne, voi venite con me, le altre non so che fine abbiano fatto, e ci ha portato a casa sua, dove ci ha dato pasta in scatola e un po’ d’acqua. Quindi ci ha ammassato in un altro posto, dove c’erano già centocinquanta neri, poco o niente cibo, solo acqua, e i bagni otturati, ma dopo due giorni sono riuscita a scappare dalla finestra del bagno, insieme ad altre. Nel cuore della notte, abbiamo raggiunto la moschea e abbiamo chiesto all’imam di chiamare la polizia. Alle 9 sono arrivati i poliziotti e ci hanno portato in prigione, è li siamo state bene, ci hanno dato sapone, shampoo, dentifricio, vestiti puliti. 25 giorni in una prigione, poi in un’altra prigione, a Tripoli, dove mi hanno visitato dei dottori, mi hanno fatto il test di gravidanza, che per fortuna era negativo, poi l’Unhcr ci ha registrato, e alla fine ci hanno portato qui, in Niger. E’ stato opera di Dio. E ora sono felice. Felice (piange) Ero felice di lasciare la Libia, e di non vederla mai più, non andarci più nemmeno in vacanza! (sorride ironicamente). All’ aeroporto abbiamo aspettato l’aeroplano. Non ero mai salita su un aereo. Non ci credevo. Ero felice, troppo felice. Come posso spiegarlo. La casa dove ci hanno portato adesso a Niamey è bella. Nel mio paese solo i ricchi hanno case come questa. E allora, vuol dire che sono ricca!» «E le altre donne?», le chiediamo. «Non so dove siano. Lui ci aveva comprato». «E se una donna non paga?»«La violentano. Fanno questo: le donne le violentano, gli uomini li picchiano e li uccidono. Se c’è una coppia, marito e moglie, lei la stuprano, lui lo picchiano o lo uccidono». Prosegue turbata. «Voi di dove siete?» «Italiani». «Ah, italiani… in mare, quanto vi ho cercato, quanto ho cercato l’Italia!» Lei è infatti una di quelle bloccate e riportate indietro dalla guardia costiera libica, secondo i patti stretti tra il nostro governo e le autorità di Tripoli. Si direbbe che questa povera gente abbia solo bisogni: invece ha anche e soprattutto desideri, molto semplici, quasi ingenui, cioè, i desideri di una ragazza qualsiasi, una ragazza con una vita normale. «Cosa vorrei adesso? Sinceramente? Ecco, vorrei uscire già stasera, vorrei andare a ballare…».
Edoardo: La sera, stanchissimi, su una specie di MTV locale ci godiamo una serie di video con band tuareg inturbantate che suonano le loro chitarre elettriche in cima alle dune. Sono davvero irresistibili.

FOTO

http://app.readspeaker.com/cgi-bin/rsent?customerid=5110&lang=it_it&voice=Luca&readid=content-to-read&url=www.corriere.it/esteri/17_dicembre_29/rifugiati-pecore-banditi-islamici-linea-virtuale-niger-mali-bd97157c-ec84-11e7-ba29-fb1d66cc2503.shtml

 

Ultimo giorno

Francesca: Sono tante le domande che vorrei fare alle ragazze arrivate due giorni fa, ma so che non hanno voglia di parlare o forse semplicemente di ricordare, come biasimarle? Mentre mi avvio insieme a Nardos, che mi farà da interprete, verso la casa che le ospita, penso che forse il modo meno invasivo, sia quello di non fare domande dirette, non chiederò «Cosa ti è successo in carcere?» ma virerò sul più generico «Cosa succede alle donne che sono rimaste lì?» invitandole così ad aprirsi senza forzarle. Mi tocco la fronte, è molto calda e mi sento debolissima, ma penso sia stanchezza. Arriviamo nel bel mezzo di una riunione con alcune delle operatrici venute per accogliere le richieste delle ragazze e per informarle sulle modalità del loro soggiorno temporaneo. Sono sedute in cerchio sotto un gazebo, una stretta all’altra. Spesso si tengono per mano. Le sento fare più volte la stessa richiesta che pare essere la più urgente: un referente per i loro problemi di salute, vogliono essere certe che ci sia un medico a cui rivolgersi. La rappresentante tedesca le rassicura e aggiunge che un medico le visiterà presto e che per le emergenze sarà sempre rintracciabile e disponibile. Si aggiunge al gruppo una ragazza giovanissima, avrà sì e no sedici anni, tiene in braccio una bimbetta di due mesi, si era allontanata per scaldare il biberon. Mi viene un brivido a pensare come sia stata concepita quella creatura eppure mi basta vederle insieme, madre e figlia, per capire quanto l’amore sia capace di miracoli. La stringe a sé con una tale naturalezza, non sembra esserci in lei altro pensiero oltre il doversi prendere cura della figlia, ed è evidente quanto quella bambina sia l’ancora a cui si aggrappa e, incredibilmente, l’unica cosa bella a cui pensare. E’ una lezione che incasso riconoscendo i miei limiti, non so se sarei mai capace di provare un sentimento così semplice e alto. Ma sembra essere la gioia di tutte quella neonata, se la passano l’un l’altra sbaciucchiandola, e sorridono con lei abbandonando per un momento i loro sguardi tristi e sospettosi. Si parla di cibo, dicono tutte di amare la carne ma per favore, chiede una, non dateci il pollo con le zampe, al nostro paese non si mangia così. Rispondono che sarà fatto e che si stanno organizzando per allestire una cucina in cui potranno cucinare i loro piatti preferiti. La riunione è finita, ora se voglio posso parlare con loro. Mi avvicino, mi gira la testa, comincio a sentirmi davvero male. Ma non oso dire nulla, mi sembra quasi offensivo il mio malessere di fronte al loro, cerco solo un po’ di riparo dal sole e mi siedo accanto alle ragazze. Spiego loro chi sono e perché sono qui, mi ascoltano con gentilezza e senza diffidenza. «E’ importante che la gente sappia, lo è per voi e per le ragazze che sono rimaste in Libia». Faccio la domanda che mi ero preparata. La risposta è secca, senza appello: «Quello che succede alle donne in carcere è brutto e non esiste un giorno migliore dell’altro». La ragazza seduta accanto a me mi guarda e dice che il sentimento che non l’ha mai abbandonata è stata la paura. «Anche nei sogni avevo paura». E’ così bella anche lei ed è così potente quel carico di bellezza che mi sento scagliato addosso. Sono stanche ma non si sottraggono alle mie domande. Chiedo loro di dare un nome al rapporto che le lega, rispondono in coro: «Sorellanza!» poi mi viene in mente un dettaglio che avevo notato il giorno del loro arrivo: avevano tutte una rosa che spuntava dalle loro borse. Chi ve le ha date? Mi rispondono che sono state offerte dai ragazzi Unhcr che lavorano in Libia e mi è sembrato un gesto pieno di bellezza. Si è fatto tardi e non me la sento di incalzarle ulteriormente. Mi alzo per salutarle e spontaneamente si avvicinano per abbracciarmi, faccio fatica a non sciogliermi in lacrime. Sono bollente di febbre, mi consigliano di andare subito all’ospedale per fare il test della malaria che qui si ottiene in un paio d’ore. Ci vado, risulta negativo, ma io sto sempre peggio e la febbre sale e il nostro aereo parte fra poche ore. Mi imbarco dopo mezzanotte per quello che sarà uno dei voli più spaventosi della mia vita, ma mentre mi avvolgo come in un bozzolo nelle coperta per tentare di placare i brividi, noto alle mie spalle Thenat, una delle ragazze che avevamo incontrato il primo giorno nella «Case de passage». Stento a riconoscerla, il suo sguardo è così diverso ora e sono certa che non è la febbre a farmi notare la scintilla di felicità che brilla nei suoi occhi. Poi chiudo i miei, di occhi, e provo finalmente a dormire.

 

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Edoardo: A bordo dell’aereo per Parigi, prima di crollare nel sonno indotto dal Tavor, tiro la morale della favola di questa missione in Niger: i Paesi poveri sembrano disposti ad accogliere altri poveri più di quanto lo siano i Paesi ricchi.

 

 

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