PAOLO DI PAOLO, REP. 26-02-2018, PAG. 39::: LADRI DI BICICLETTE (1948) COMPIE 70 ANNI, A SCUOLA DI SEMPLICITA’ DA ZAVATTINI E DE SICA

 

 

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SOPRA::: SCENE DAL FILM + LOCANDINA

 

REPUBBLICA DI LUNEDI’ 26 FEBBRAIO 2018, pag.39

 

L’anniversario
“Ladri di biciclette” compie 70 anni
A lezione di semplicità da De Sica
PAOLO DI PAOLO
 

La puntata, girata tutta in bianco e nero, apre la seconda stagione di Master of None (NETFLIX). È ambientata in Italia — piazze, trattorie e biciclette — e ha qualche tratto macchiettistico. Il protagonista (e autore) della serie tv,

Aziz Ansari, si mette in cerca — aiutato da un bambino — di un cellulare che gli è stato rubato.

Così, quando lo sconforto prende il sopravvento, Aziz e il bambino si siedono su un marciapiede, uno accanto all’altro, e la citazione diventa trasparente. Se Ladri di biciclette viene omaggiato da un regista trentacinquenne, americano di origini indiane, qualcosa vorrà dire. Il grande film di Vittorio De Sica compie settant’anni, e continua la sua semina. Mostre, proiezioni e incontri: le occasioni per celebrare il capolavoro del neorealismo non mancano. Ma le suggestioni del film del 1948 si fanno vive dai luoghi meno prevedibili:

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il regista Aktan Arym Kubat, nato in Kirghizistan nel ’57 (dice di sé: «parlo a Dio in arabo, penso in russo»), richiama Ladri di biciclette per spiegare il titolo europeo del suo film

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Le voleur de lumière, storia di un ladro di luce, di elettricità a fin di bene. E se nei

I FRATELLI DARDENNE

Dardenne di Il ragazzo con la bicicletta il riferimento era quasi esplicito, meno scontato è scovare nel film d’animazione La tartaruga rossa — diretto dell’olandese Michaël Dudok de Wit e prodotto dallo studio Ghibli, fondato da Miyazaki e Takahata — echi di De Sica e Zavattini. Eppure,

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Dudok de Wit conferma di essere stato «pesantemente influenzato» da Ladri di biciclette: «Una storia semplice — due che stanno cercando una bicicletta! — ma allo stesso tempo non è per niente semplice. Racconta molto sulla società e sui rapporti fra le persone».

Forse è ora di liberare Ladri di biciclette dall’etichetta che lo ha accompagnato per sette decenni: la sua lezione, ben più che “neorealista”, è appunto una lezione universale di semplicità.

Narrativa, stilistica, certo, ma soprattutto di sguardo: «Il mio sogno — scrive Zavattini — sarebbe che le piccole cose fossero aperte per vedere che sono grandi». La produzione di meraviglia è già nel reale: il cinema non la aggiunge, semmai la rivela. Zavattini raccontò una volta di uno zio a cui non bastava invitare i nipoti a guardare il tramonto: «Ci schierava davanti alla finestra, suonava un campanello, poi, tirate su le tendine, esclamava: ecco il tramonto!». Ecco un padre angosciato che fa l’attacchino per le strade di Roma ancora segnata dalla guerra. Ecco una bicicletta, preziosa come la vita. Ecco un figlio, un ragazzino paffuto e protettivo che diventa un piccolo alleato, il più importante, nel disordine del mondo storto. Come si fa a guardare così? Come fanno De Sica e Zavattini a “pensare con gli occhi”?

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2017

Sembra domandarselo — nel suo recente Mondo Za — anche

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Gianfranco Pannone, cercando una risposta nella Bassa reggiana, nelle facce e nelle storie che la abitano oggi. Fino a scovare un giovane rapper ghanese che mette in versi i pensieri di Zavattini, che recupera e sperimenta a modo suo «la poetica dell’incanto di fronte alla realtà». Pannone filma volti e luoghi con la stessa delicatezza, quasi seguendo un’invisibile traiettoria indicata dal dito del vecchio Za. Pare che non accada niente? Accade tutto.

«Ci rimproverarono di aver fatto un film nel quale non succedeva nulla» ricordava il grande complice di De Sica. «Che sbaglio!

Penso invece che in Ladri di biciclette accadevano ancora troppe cose». Ai due maestri sembrava di avere realizzato un romanzo d’appendice “dal vero” ( Umberto D. parve a Zavattini più riuscito, perché quasi privo di intreccio), ma la commozione non è mai un ricatto. In una scena di C’eravamo tanto amati, nato proprio come omaggio a De Sica, si vede il vecchio regista che racconta come gli riuscì di far piangere, con un trucco, il bambino, nel finale di Ladri di biciclette. Quel pianto, però, non è falso. E impressiona ancora — come impressionò uno spettatore speciale, Ken Loach, alla prima visione: «Amo l’idea di raccontare una storia in un microcosmo. Se hai la storia giusta e i personaggi giusti, il film dirà tutto anche sul quadro più ampio, senza bisogno di generalizzare. Ma questo è quanto ho razionalizzato in seguito. Al momento, ho pensato semplicemente: wow».

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