Lo strano ordine delle cose. La vita, i sentimenti e la creazione della cultura
Antonio R. Damasio
Editore:Adelphi
Collana:Biblioteca scientifica
Anno edizione: 2018
In commercio dal: 08/05/2018
19,00 EURO, ONLINE 15% DI SCONTO
António Rosa Damásio è un neurologo e saggista portoghese. Tra il 1987 e il 2005 è stato direttore del dipartimento di neurologia dell’University of Iowa Hospitals and Clinics.
Ha compiuto importanti studi sulle basi neuronali della cognizione e del comportamento. I suoi testi sono pubblicati in Italia da Adelphi.
Nuovo umanesimo
Damasio “Le emozioni nascono prima della mente”
DARIO OLIVERO
L’origine biologica e quella culturale, la lotta per sopravvivere e la politica, Spinoza e Proust. Parla il grande neuroscienziato
Intervista di
Antonio Damasio è uno degli ultimi spiriti eclettici rinascimentali o forse uno dei primi di un nuovo umanesimo che fatica ancora a mostrare il suo volto. Neurologo e neuroscienziato nonché studioso di Cartesio e Spinoza, portoghese di Lisbona nonché docente alla University of Southern California, parla ovviamente un inglese perfetto eppure porta nel cognome qualcosa che evoca suggestioni orientali. «In che senso? Non ci avevo pensato», chiede alla fine dell’intervista. L’elenco è lungo e incompleto: Damascio, uno dei più grandi filosofi neoplatonici, papa Damaso, Giovanni Damasceno (“l’Aquinate d’Oriente”), il Damaso dell’Iliade: nomi di origine greco-siriaca. Per non dire della parola sanscritadharma, la legge buddista (che lei cita nel suo ultimo libro), che in pali diventa damma.
«Interessante», dice.
A proposito di leggi, usa nel suo ultimo libro, “Lo strano ordine delle cose” (uscito come sempre per Adelphi) l’espressione quasi kantiana “imperativo omeostatico”.
Che cosa significa?
«L’omeostasi è la capacità, presente in tutti gli organismi viventi, di regolare i processi vitali in modo da sopravvivere e proiettarsi nel futuro. Uso la parola “imperativo” per chiarire il fatto che la vita non è possibile in assenza di omeostasi. È omeostasi o morte».
Ma la sua teoria è che da questo principio derivano anche le nostre emozioni, gioia, paura, amore, gelosia.
Come?
«L’omeostasi non è semplicemente equilibrio. Ci sono diversi stati omeostatici possibili compatibili con la vita.
Alcuni sono migliori di altri.
Quelli particolarmente benefici per la vita di un organismo trovano espressione in sentimenti positivi in quelle creature, come gli esseri umani, che sono dotate di una mente e di un sistema nervoso: per esempio, sensazioni di benessere e felicità esprimono stati di omeostasi positivi; sentimenti di malessere o tristezza esprimono stati negativi. Esistono due tipi di sentimenti: i sentimenti spontanei e i sentimenti provocati. I primi corrispondono agli stati di omeostasi che avvengono naturalmente.
Esprimono lo stato di vita all’interno delle nostre menti. I secondi sono causati dalle emozioni. Riguardo ai sentimenti di amore o gelosia, sono provocati dalle emozioni di amore o gelosia. Lo stesso vale per la paura, la rabbia o la gioia.
Quando proviamo un’emozione cambiamo lo stato di vita dell’organismo, cioè cambiamo l’omeostasi, ed è questo risultato che chiamiamo sentimento, di qualunque tipo sia».
Ciò che ci definisce come esseri umani è quella che lei chiama “mente culturale” e che deriva appunto dalle emozioni legate al principio di omeostasi. Come si può passare da una spiegazione biologica a una culturale?
«Le culture sono prodotti delle menti degli individui in una società, e in quanto tali sono necessariamente biologiche. La differenza è che la vita dei batteri o degli animali non umani è puramente biologica, mentre la vita umana include quella parte estremamente elaborata della biologia che definiamo cultura, e che è il prodotto delle interazioni sociali. Una delle tesi principali del mio libro è che, grazie alle straordinarie capacità della mente umana, abbiamo usato la natura per produrre culture. Ciò è avvenuto per effetto della combinazione di motivazioni affettive con il ragionamento intellettuale e l’invenzione».
Insomma esiste un continuum rintracciabile tra un’esperienza biologica come un’emozione e la sua realizzazione in una poesia, tra il sistema nervoso e Proust. È così?
«Capita spesso che gli umanisti guardino con diffidenza alla biologia, perché pensano che sia riduttiva e sminuisca le realizzazioni culturali. Io penso e mi prefiggo esattamente il contrario: la mia idea è che quando comprendiamo il legame tra realizzazioni culturali, che si tratti di una poesia, di un romanzo o di una composizione musicale, e l’intricato processo di soffrire o provare piacere e sopravvivere, umanizziamo realmente la biologia e arricchiamo le scienze umanistiche. Non c’è nulla di riduttivo nell’individuazione di questo processo. Non c’è nessuna semplificazione. È a tutti gli effetti un modo per esaltare l’umanità».
Lei scrive, non solo in questo ultimo libro, che il concetto di omeostasi è molto simile a quello che Spinoza chiamava “conatus”. Lei ha rivalutato il filosofo olandese e l’ha utilizzato, nei suoi scritti, in chiave epistemologica.
Spinoza serve di questi tempi?
«Il conatus di Spinoza anticipa il concetto di omeostasi, che ricevette un nome solo nel XX secolo. Spinoza era molto avanti rispetto alla sua epoca, e come filosofo è ancora più moderno oggi di vent’anni fa. Spinoza era consapevole che gli organismi viventi possono essere visti da due prospettive, quella del corpo e quella della mente, ma rimangono comunque organismi unici».
Spinoza derivava da questo anche una visione politica.
Anche nel suo libro c’è un sottofondo politico, specialmente quando descrive le dinamiche di cooperazione negli antichi organismi multicellulari nostri progenitori. Ma se tutti ubbidiamo al principio omeostatico perché non c’è armonia sulla Terra?
«L’imperativo omeostatico è necessario perché la vita continui, ma non garantisce pace o armonia. Al contrario, l’omeostasi viene costantemente violata e oltraggiata e il risultato è la malattia, l’infelicità o la morte. Curiosamente, il fatto che siamo individui capaci di pensare e decidere ci ha consentito di inventare le culture come modo per implementare l’omeostasi, e in questo modo rendere la vita migliore, individualmente e collettivamente. Le culture sono tentativi di raggiungere l’omeostasi attraverso mezzi socioculturali. Questi tentativi a volte riescono e a volte falliscono. Basta guardare alla situazione politica nell’Unione Europea e in America per rendersi conto che l’omeostasi socioculturale è un work in progress e che abbiamo ancora molta strada da fare per trovare la soluzione giusta».
Crede che la cultura possa influenzare l’omeostasi al punto da renderci più felici?
«Non sono affatto fiducioso sulla capacità della cultura di produrre felicità per tutto il tempo e per tutti gli esseri umani. Lo ripeto: dobbiamo lottare per la felicità, e le diverse pratiche e i diversi artefatti culturali sono il mezzo attraverso cui continuiamo a lottare. L’arte, i sistemi di governo, la scienza e la tecnologia sono tutte invenzioni finalizzate a incrementare il benessere degli esseri umani, e di conseguenza la loro felicità e omeostasi. Il buddismo, di cui parlavamo prima, è un eccellente esempio di gestione culturale dei nostri sentimenti allo scopo di accrescere la nostra omeostasi».
Lei è molto critico verso l’algoritmo e la logica 0-1, il digitale. Di questi tempi, con la crescita del web, il potere delle multinazionali digitali e la corsa ai big data, la sua è una posizione eretica.
«L’intelligenza umana non è soltanto cognitiva, ma anche affettiva. In assenza di affettività, l’intelligenza umana è limitata, come anche l’intelligenza artificiale. I sistemi digitali, come sono implementati attualmente nei dispositivi di intelligenza artificiale e nei robot, non hanno la possibilità di provare sentimenti. Non sono organismi viventi e non sono soggetti alla morte. Possono sopravvivere in eterno e non provare mai nulla, buono o cattivo che sia. Si possono simulare emozioni nei robot, per esempio, ma simulare non significa duplicare. L’idea che i robot, così come sono concepiti attualmente, possano avere esperienze mentali è falsa. Mi fa molto piacere essere considerato eretico».
DARIO OLIVERO
Giornalista
@daolivero
E’ caporedattore della Cultura di Repubblica. Nato a Vercelli nel 1971, laureato in filosofia, specializzazione all’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino. Ha lavorato al Diario e nelle redazioni di Repubblica di Palermo, Repubblica.it, La Domenica di Repubblica.
Condividi
Interessante e coinvolgente questa intervista, con il merito di parlare con semplicità di argomenti ” sublimi”.