ERICH LESSING (Vienna, 1913-2018)
© Erich Lessing/Magnum Photos. Wienerwald, Austria, 1954
Aufständische verbrennen Porträts des Kommunistenführers Mátyás Rákosi, Budapest
Oktober 1956
Margarete Steiff GmbH, Anlieferung der Heimarbeit
© Erich Lessing
Erich Lessing – Fotografien
Europa nach dem Krieg 1950–1960 (Europa dopo la guerra, 1950-1960)
Erich Lessing in un reportage del 1949
Budapest, 1956
Grecia
conseguenze della rivoluzione ungherese, una donna improvvisa un banchetto di borse
Ungheria, durante la rivoluzione
Budapest ottobre ’56
1954 film Moby Dick con Gregory Peck
Debuttanti all’Opera di Stato
Erich Lessing
Addio a Erich Lessing, il fotoreporter che sperava nella fine di ogni guerra
MICHELE SMARGIASSI
È morto a Vienna a 95 anni. Grande testimone del Novecento, fu tra i nomi di punta della Magnum
Il primo incarico importante di Erich Lessing, austriaco, uno degli ultimi pionieri del grande fotogiornalismo europeo del Novecento, scomparso ieri a Vienna all’età di 95 anni, fu raccontare il ritorno in patria dei profughi turchi dalla Bulgaria, nel 1950. Volle che quel servizio avesse per titolo Gli ultimi rifugiati. «Nessuno immaginava cosa avremmo dovuto ancora vedere…» scuoteva la testa alcuni anni fa davanti a una telecamera, un amaro sorriso sulla faccia mite. Era, la sua, l’Europa che sperava nella fine di tutte le guerre. Era, la sua, la fotografia che sperava di incoraggiare la fine di tutte le guerre. «Ma abbiamo mai davvero cambiato qualcosa, noi fotografi?
O siamo stati solo degli archivisti della storia, a cui ogni tanto capita di fabbricare una bella icona?».
Ebreo di buona famiglia viennese, nel ’39 i genitori avevano pensato bene di mettere al sicuro dal nazismo almeno quel vivace ragazzino di sedici anni e lo avevano spedito in Palestina. La sua famiglia morì ad Auschwitz.
Erich studiò tecnologie ad Haifa e lavorò in un kibbutz. Teneva dietro al bestiame, ma nel tempo libero faceva foto ai bambini sulla spiaggia di Netanya. La prima fotocamera l’aveva ricevuta in dono per il suo bar mitzvah, ma «non pensavo che diventasse un mestiere», invece i militari britannici lo presero a servizio.
Così, quando nel ’47 tornò fra le macerie dell’Europa non fece fatica a farsi assumere dall’Associated Press. «Mi dissi: e adesso facciamo vedere che mondo migliore riusciamo a tirare su». Fu un altro fotografo ebreo, David “Chim” Seymour, uno dei padri fondatori di Magnum con Capa e Cartier-Bresson, ad arruolarlo nel ’51, decimo cavaliere di quella leggendaria tavola rotonda di cacciatori di storie e di storia. Di storia ce n’era in abbondanza, e i servizi di Lessing apparvero su Life, Paris Match, Picture Post; in Italia i lettori di Epoca conobbero il suo sguardo tenero verso i bambini, la gente comune, in mezzo alle macerie. Umano, forse troppo umano: qualcosa si ruppe fra Lessing e il suo mestiere. Nel ’55, mandato a coprire una conferenza internazionale a Ginevra, dovette urlare nella redazione di Quick per impedire che le sue foto fossero stravolte da didascalie anti-europeiste. Furono però le giornate d’Ungheria, nel ’56, a farlo crollare. Si aggirava fra gli orrori della rivolta, fotografava gli orrori sanguinari della giustizia di strada, e in albergo si sentiva dire dal cameriere «stasera abbiamo dell’ottimo gulash». Seguì il difficile viaggio di De Gaulle in Algeria, nel ’58: poi decise di averne abbastanza. «Ogni giornalista sa che le sue fotografie non cambieranno nulla. Sono semplici documenti ma, so di dire un’eresia, un documento che non cambia nulla forse non è un buon documento». Non smise di fotografare. Seguì le tracce di Ulisse e di san Paolo, documentò l’archeologia e l’arte, il cinema e la musica in sessanta splendidi volumi, tra cuiImago Austriae, il suo monumento. Il suo archivio di sessantamila immagini appartiene ora allo stato austriaco. Ci sono dentro una speranza e una missione, Entrambe spezzate.
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