AMBROISE BIERCE, DIZIONARIO DEL DIAVOLO –LONGANESI, 1985 — adesso è reperibile da TEA — introduzione di GUIDO ALMANSI — PIU’ ALCUNE VOCI E LINK PER CONTINUARE…

 

 

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Ambrose Bierce. DIZIONARIO DEL DIAVOLO. Longanesi & C., Milano 1985.

Scelta e Introduzione di Guido Almansi.

Traduzione dall’originale americano “The Devil’s Dictionary” di Daniela Fink.

 

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AMBROSE BIERCE

 

Ambrose Bierce, nato nell’Ohio nel 1842, è morto probabilmente in Messico nel 1914, ove si era aggregato alle truppe di Pancho Villa. Giornalista, autore di numerosi e famosi racconti ispirati da un gusto per il macabro ma anche pervasi di crudo umorismo, è noto soprattutto per questo “Dizionario del Diavolo”, cui egli lavorò fin dal 1865 e del quale la presente edizione offre un’ampia scelta. Introduzione (di Guido Almansi).

 

 

 

Note all’Introduzione.

DIZIONARIO DEL DIAVOLO. UNA ANTROPOLOGIA QUALUNQUISTA di GUIDO ALMANSI.

 

«Io vendo insulti», confessava Ambrose Bierce, questo novello Aretino, in uno dei momenti, non rari, in cui il suo furore cinico si rivolgeva contro se stesso. Grande mattatore della scena giornalistica americana dal periodo ancora oscuro dopo la guerra civile fino ai tempi gloriosi di William Randolph Hearst (di cui è stato uno dei polemisti di punta), Ambrose Bierce aveva una lingua velenosa che si manifestava nei suoi rapporti con gli uomini, con le istituzioni e con le parole. Gli uomini, beh, sono tutti lestofanti infidi che nascondono la loro meschina ossessione per i piccoli problemi del loro «io» dietro un ricco scenario di intenzioni virtuose o grandiose. Le istituzioni, ecco, sono strumenti di oppressione che si occultano dietro la maschera ipocrita del bene pubblico, dell’ordine sociale e della morale civile (al servizio dei furbi). Le parole, ah, quelle poi, arroccate nel vocabolario, fonte screditata di ogni nefandezza, le parole fingono di essere strumenti di comunicazione mentre sono in realtà organi di mistificazione. Ogni nuova voce che si insinua in un già corrotto dizionario per arricchirne la fraudolenza purulenta aggiunge nuove ipotesi di inganno, di gabbo, di imbroglio alla nostra lingua mendace. L’uomo non è un animale culturale: è un animale culturalmente perverso che non ha “sempre” bisogno di mentire perché la lingua che lui adopera ha già mentito per lui. La parte innocente dell’uomo, invece di inventare nuove menzogne, si accontenta di quelle già esistenti nel vocabolario. Quindi, o è la parola stessa che mente, o è l’uomo che adopera la parola in maniera menzognera. Tutto è menzogna: non solo la letteratura, l’arte, la cultura, la religione, la legge, ma qualsivoglia pratica del discorso. Ogni volta che noi adoperiamo il linguaggio, noi accediamo al suo immenso archivio di prevaricazioni; consultiamo il suo ricco repertorio di manovre ingannevoli. Il “Dizionario del Diavolo”, di cui presentiamo qui una ampia scelta, nasce così come opera lessicografica di una lingua della menzogna [«Bianco (agg.) = Nero» ].

La genesi di quest’opera si deve ritrovare nell’atmosfera dei “columnists”, i giornalisti militanti che parlavano al pubblico dei lettori da una loro colonna privata come espressione personale dei loro sentimenti e risentimenti; ma d’altra parte è subito evidente nell’estensione delle voci del dizionario bierciano l’intenzione di scrivere contro la griglia del dizionario «vero» o «serio». Tra i tanti nomi che il “Dizionario del Diavolo” ha assunto durante la quarantennale gestazione (1) – “Dizionario Comico”, “Dizionario concentrato per l’idiota”, “Dizionario del Demonio”, “Lista di parole del cinico”, “Dizionario del Cinico”, e così via – bisogna ricordare, sulla scorta di una testimonianza del 1881, “The Improved Webster Dictionary”, cioè il Webster (il classico dizionario della lingua americana) riveduto corretto e migliorato. Il dizionario di Bierce non è quindi un’opera eccentrica, una stravaganza estranea ai circuiti della lessicografia. Sia pure nella sua veste satirica, sbarazzina, paradossale, cinica, anarchica, e, perché no, demoniaca, il “Dizionario del Diavolo” si presenta come un lavoro di correzione – sia pure beffarda – al vero centro della lingua, là dove le parole si irrigidiscono nella codificazione. Ogni voce nasce così come una correzione, un distinguo, un emendamento, ovvero un rovesciamento, un’antifrasi, un capovolgimento paradossale. Esiste, prima della voce bierciana, una zona di sospensione, di silenzio, di attesa, in cui il significato tradizionale, garantito dal beneplacito dizionariesco, deve penetrare nella mente del lettore. Si prendano le voci «patriottismo», «adorare», «follia», «bardo», «ozio»: ogni definizione del “Dizionario del Diavolo” vive una sua seconda esistenza contro l’impronta memoriale del suo significato primario, acquisito dalla cultura ma non mai meditato. Il “Dizionario” è una continua sfida contro la nostra sicurezza di manipolatori, de-menti e s-cervellati, di un vocabolario, quindi di un repertorio epistemologico, basato sull’occultamento della verità. Le voci di Bierce dovrebbero appunto essere stampate in margine alle voci dello “Webster” o dell'”Oxford Dictionary”: per non farci dimenticare la fragilità gnoseologica, ideologica e psicologica del nostro lessico. Ecco, il “Dizionario del Diavolo” è una operazione wittgensteiniana fatta da questo bestione trionfante, Ambrose Bierce, che era tutto tranne un filosofo. A prima e superficiale lettura, si ha la tentazione di rintracciare dietro la ricerca lessicale di Bierce una linea speculativa che potrebbe risalire addirittura a La Rochefoucault e al suo rovesciamento integrale dei valori costituiti. Alcune massime del moralista francese, a partire dalla celebre epigrafe delle “Maximes”, «Le nostre virtù non sono… che vizi mascherati», e poi lungo l’arco del suo cinismo (per esempio, «Per quante scoperte si siano potute fare nel paese dell’amor proprio, restano ancora tante terre sconosciute») (2), sembrano essere alla fonte di tutta l’apodittica bierciana che si cela dietro le forme vocabolariesche del suo “Dizionario”. D’altronde è ben nota l’influenza di La Rochefoucault su tutti i grandi inventori di “bons mots” stravaganti ed eticamente sovversivi nella storia del pensiero occidentale (si pensi a Byron, che dello scrittore francese era ardente ammiratore; o a Gide; e forse persino a Oscar Wilde). Detto questo, però, ci si rende subito conto che stabilire una linea ispiratrice che va da La Rochefoucault a Ambrose Bierce è operazione vagamente ridicola. Anche se gli schemi concettuali da cui spuntano le antifrasi bierciane non sono molto lontani da quelle del moralista francese, e nonostante la occasionale eleganza di alcune formulazioni di Bierce che tendono alla stringatezza anche per ragioni di obbedienza al genere letterario trascelto, a Bierce manca tutto quello che costituisce la grandezza di La Rochefoucault. Questi sapeva accompagnare la nitida semplicità delle sue dichiarazioni più sconcertanti con una meravigliosa disinvoltura concettuale, alla maniera di un gran signore dell’intelletto e non solo del sangue che ha dato fondo a tutta l’aforistica del pensiero occidentale e si costruisce un patrimonio privato di massime proprio perché insoddisfatto del materiale democratico messo in vendita sul mercato librario. «Il male che noi facciamo non ci attira mai tanto odio e ostilità quanto le nostre buone qualità»: in questa definizione La Rochefoucault sembra imitare Ambrose Bierce, ma la massima non potrebbe mai essere un Bierce genuino perché la voce è troppo calma, il tono troppo distaccato, assente lo scandalo e l’indignazione morale. La Rochefoucault non sembra mai minacciato dalle sue scoperte nell’ambito dell’etica pubblica o privata: la sua posizione di grande aristocratico, la sua sicurezza di intellettuale, gli danno un enorme vantaggio e gli garantiscono una parziale immunità dai mali che egli va scoprendo nello stesso territorio del lessico concettuale esplorato da Bierce. Ma Bierce al contrario scrive sull’orlo dell’abisso. La sua voce non è mai calma e compassata: è una voce irata e frenetica che protesta plebeamente contro questa colossale trappola per scimuniti che è il mondo della cultura, o il mondo “tout court”. Raccontano ai bambini, sin da piccoli, che bisogna seguire il senso morale, lo spirito civico, l’amore per il proprio paese: tutte frottole! Lui non ci casca. Anche se il linguaggio che Bierce adotta per le sue definizioni è dignitosamente e letterariamente corretto, la materia prima di cui è fatta la sua filosofia «linguistica» è demotica. Nei suoi momenti migliori, Bierce è un plebeo che è arrivato, miracolosamente, alla concisione stilistica e all’eleganza concettuale di un aristocratico della penna; ma non riesce mai ad assumere questo stato di grazia per più di una voce. E gli manca la suprema virtù aristocratica: la sprezzatura. Forse per questo Bierce ci è così vicino. La Rochefoucault non lo è affatto. Lo ammiriamo ma lo sentiamo sempre distante, anche perché è così arduo interpretare alcune parole privilegiate del suo lessico alle quali abbiamo un accesso esclusivamente libresco al di fuori dei circuiti dell’esperienza. Si prendano parole come «finesse», «esprit», «humeur», «passion», «modération», «orgueuil»: sappiamo cosa significano oggigiorno, e con buona volontà possiamo anche cercare di capire che cosa significavano allora e lassù, nel pozzo del passato e nella stratosfera del linguaggio aristocratico; ma questi termini non ci saranno mai familiari. Io posso intuire pressappoco che cosa intende La Rochefoucault quando dice: «Tutti coloro che conoscono il loro spirito non conoscono il loro cuore»; ma rimango sempre in uno stato di incertezza perché quel particolare uso di spirito/”esprit” mi è estraneo, e pur conoscendo le regole dei cambiamenti semantici subiti dalla parola cuore/”coeur” nel corso della sua storia più recente, temo sempre di confondermi e di leggere il cuore/”coeur” di La Rochefoucault come se fosse il cuore/”coeur” dei romantici. Non così Bierce, che sentiamo linguisticamente come uno spirito germano e sodale nei nostri momenti di sconforto e di cinismo: «Silice (s.f.) = Sostanza molto usata nella costruzione dei cuori umani…» Ecco, qui non c’è rischio di sbagliare. Siamo in territorio familiare e perciò confortevole nonostante la ferocia del giudizio. Esiste, sia pure in forma rudimentale, un’antropologia bierciana basata sulla fede in una legge universale di brutale semplicità: l’uomo conosce solo l’interesse personale, e tutte le sue azioni sono dominate da questa passione esclusiva. L’«io» diventa perciò la misura di tutte le cose, la pietra di paragone con la quale si confronta il resto del creato. L’aberrazione è ogni deviazione dalle nostre abitudini mentali; l’ammirazione è il riconoscimento che qualcun altro ci somiglia; il cristiano è colui che crede che il Nuovo Testamento serva alle esigenze spirituali del prossimo; l’egocentrico è un uomo volgare più interessato a se stesso che a me; l’egoista è persona insensibile all’egoismo altrui; e via che vai. Il mondo diventa una colossale bottega di droghiere con un proprietario follemente avaro, in cui la doppia colonna del dare e dell’avere è tenuta nel modo più pusillo, contando le frazioni di centesimo, sottoponendo ogni cifra alle esigenze di un guadagno sia pure minimo. L’adorazione: indica che ci aspettiamo qualcosa in cambio. La diagnosi del medico: consiste nell’abilità di indovinare il conto in banca del paziente. Il dovere: è ciò che ci spinge verso il profitto. Implacabile: è colui che non può essere placato  che dal denaro; e così via. Non è un mondo che dia molte soddisfazioni, perché tutti sembrano ossessivamente preoccupati dal piccolo cabotaggio dell’interesse più meschino. Ciò che non è meschino, come, per esempio, la cultura, è in realtà una meschinità addobbata a festa. L’aforisma è una saggezza predigerita; il bardo è lo pseudonimo del poeta che vuole sfuggire al vituperio; l’erudizione è polvere versata in un cranio vuoto; il dizionario è uno stratagemma per arrestare lo sviluppo della lingua; e ci sono solo due strumenti più esiziali di un clarinetto: due clarinetti. Non si sfugge mai al circolo vizioso dello scetticismo. Bierce poi ha il dono di non saper mai dove dovrebbe fermarsi. L’oltranza in lui, però, non è ribellismo anarchico, o romantico, o rivoluzionario, o apocalittico. Più spesso, è il desiderio di sfruttare fino in fondo l’occasione fornitagli dalle circostanze, dal giro di frase, dal ritmo della battuta, come un negoziante che cerca di alzare al massimo il prezzo della sua merce per lo sprovveduto turista. In questo senso il “Dizionario del Diavolo” è un testo esemplare perché rappresenta un modello di antropologia qualunquista. Approfittando della sinonimia tra il verbo «to lie» = mentire e «to lie» = giacere, Bierce imperturbabile così compone l’epitaffio funebre del direttore del suo giornale che aveva accusato di non aver tenuto fede a una promessa di matrimonio: «Here lies Frank Pixley, as usual», cioè «Qui giace/mente Frank Pixley, come sempre». La fonte del “double-entendre” è shakespeariana (nella scena fra Amleto e il becchino), ma lo stile è bierciano. Si può andare oltre nel cattivo gusto? Maramaldo, che uccideva un uomo morto, era un paladino del Graal al confronto. Il “Dizionario del Diavolo” è a volte un libro eccitante perché ci porta in zone proibite che non sono spesso frequentate dagli uomini. Questi, poverini, nonostante la loro nequizia, hanno ancora zone di pudore, residui di decenza che gli impediscono di sputare sul morto recente. Ma Bierce, come la madre di Amleto, non lascia che le carni servite al banchetto funebre si raffreddino. Il “Dizionario” di Bierce è una meraviglia di spudoratezza, un miracolo di cattivo gusto, un capolavoro di indecenza. Se l’uomo è un verme, il “Dizionario del Diavolo” è la sua “Divina Commedia”. Sto esagerando, naturalmente. Cioè, sto scrivendo come se fosse Bierce stesso a scrivere un commento su Bierce. Non bisogna confondere l’antropologia del droghiere con l’antropologia del diavolo, nonostante il titolo del dizionario. La frase più cinica che sia mai stata detta è forse quella di Ponzio Pilato. Gesù Cristo gli dice: «Io sono la verità e la vita» e Pilato gli risponde: «Quid est veritas?», «Che cosa è la verità?» Ma Bierce è lontano da questo estremismo scettico, perché sa solo giocare col «contrario», non col «contraddittorio». Aristotele distingueva due forme di opposizione: il contrario è bianco/nero; il contraddittorio è bianco/non bianco. Pilato gioca sul territorio misterioso di ciò che è contraddittorio; Bierce si accontenta di quello più familiare del contrario [infatti una delle sue definizioni, come abbiamo già ricordato, è appunto: «Bianco (agg.) = Nero»]. In altre parole, Bierce si accontenta di sostituire i gettoni sulla roulette del dizionario: il bianco è nero; la virtù è un vizio; l’altruismo è egoismo. Alla fine del giro, la situazione rimane immutata. Spetta ad altri, e ben più pericolosi giocatori, affrontare il mostro della negatività. Ma c’è un punto a suo favore. Nella sua sfida ai valori costitutivi della cultura come li si trovano nei dizionari esistenti, Bierce è costretto a prendere delle posizioni avanzate nella zona del relativismo culturale. Bierce attacca allegramente sia le illusioni pregiudiziali dell’individuo singolo sia quelle della nazione circa i propri privilegi. Alcune definizioni bierciane si burlano con disinvoltura di ogni posizione cristianocentrica, o americocentrica, del mondo. Maometto è l’ente supremo dei Maomettani, da non confondere con altri separati enti supremi; il corsaro è uno statista dei mari; se radersi la barba è normale, che dire dell’uso cinese di radersi il cranio. Ma si prenda la voce che riassume garbatamente l’universalismo di Bierce: «Scrittura (s.f.) = I testi sacri della nostra santa religione, da non confondersi con quelli falsi e profani su cui si basano tutte le altre fedi». Nella brutalità dell’ideologia bierciana possiamo almeno trovare una zona di soddisfazione morale e intellettuale nell’ecumenismo della bassezza e dell’egoismo. Il “Dizionario del Diavolo” resiste senza fatica all’ingiuria del tempo a forza di stile: una gran parte delle voci sono secche, concise, non prive di eleganza. In quelle più riuscite Bierce riesce a controllare la sua esuberanza e a eliminare il superfluo. Ne citerò alcune per dimostrare sin dove sa arrivare Bierce quando il suo amore per lo stile non è soffocato dal suo odio per le parole. «Diserzione = Avversione per il combattimento che si dimostra abbandonando l’esercito e la moglie»; «Idropisia = Malattia che rende le prospettive di vita del paziente una specie di battaglia navale»; «Pomo d’Adamo = Protuberanza del collo maschile provvidenzialmente fornita dalla natura per tenere il cappio al posto giusto»; «Principe = Un giovin signore che offre il suo amore alle contadine nelle storie romantiche e alle mogli dei suoi amici nella vita». Si potrà non essere d’accordo con alcune di queste formule, o rifiutarne la brutalità e il cinismo, ma non si può negare a queste voci il dono della stringatezza. Su altre, invece, il guaio è che si è fin troppo d’accordo. Nonostante l’apparente stravaganza, la loro verità logica e psicologica finisce per essere tale che non vale nemmeno la pena di ripeterla. Questo è il prezzo che Oscar Wilde ha dovuto pagare col suo maledetto vizio di dire la verità, secondo l’ironica conclusione di Borges nel suo saggio sull’ironia wildiana. Wilde credeva anche lui di dire delle cose diaboliche che sovvertivano l’ordine dei valori, e invece, a distanza di mezzo secolo, persino le vecchie zie che abitano in campagna sono d’accordo con i suoi paradossi. Lo stesso sta avvenendo per certe definizioni di Bierce, ormai così vere che sono diventate banali. Che l'”inumanità” sia una delle qualità caratteristiche dell’uomo; che la “longevità” sia una estensione smodata della paura della morte; che “pregare” sia «pretendere che le leggi dell’universo vengano annullate a favore di un singolo postulante, il quale se ne confessa del tutto indegno» (una delle voci più belle): ecco, ormai queste formule, un tempo suggerite dal diavolo, possono entrare a far parte di qualsiasi catechismo moderno. I grandi libri sono sempre fatti di idee banali, come suggeriva Flaubert; là dove Bierce cerca di essere originale a tutti i costi, i suoi contributi ideologici mi sembrano più caduchi. E’ semmai al livello della banalità del male, della sua monotona meschinità, che il “Dizionario del Diavolo” rimane interessante nei suoi contenuti. Da un punto di vista edonistico invece, il libro è quasi sempre piacevole nel descrivere la spiacevolezza della vita, felice nell’esaltare la infelicità, divertente nel denunciare la monotonia del creato. Insomma, un libro di amena lettura, come tutti i libri carogneschi.

 

 

NOTE ALL’INTRODUZIONE.

 

1. Le prime tracce del “Dizionario” non risalgono al 1881, come Bierce stesso aveva affermato nella edizione delle sue opere complete nel 1907, ma sulle colonne dei giornali di San Francisco già nel 1865.

2. Tutte le traduzioni di questa prefazione, tranne quelle delle voci del “Dizionario del Diavolo”, sono mie.

 

*** DIZIONARIO DEL DIAVOLO.

 

 

ABBREVIAZIONI. agg. – aggettivo. agg. poss. – aggettivo possessivo. agg. sost. – aggettivo sostantivato. avv. – avverbio. p.p. – participio passato. pron. pers. – pronome personale. s.f. – sostantivo femminile. s.f. pl. – sostantivo femminile plurale. s.m. – sostantivo maschile. s.m. pl.- sostantivo maschile plurale. v. intr. – verbo intransitivo. v. rifl. – verbo riflessivo. v. tr. – verbo transitivo. 

 

A a – Prima lettera di ogni alfabeto che si rispetti. E’ la più semplice e naturale espressione degli organi vocali umani, e ha una varietà di suoni a seconda del piacere e delle esigenze del locutore. Nei trattati di logica A serve per le affermazioni e B per le negazioni: dato che le prime sono di regola menzognere, la bilancia sembrerebbe pendere in favore dell’innocenza di B se non fosse per il fatto che le negazioni sono notoriamente false.

abada (s.m.) – Animale africano munito di tre corna, due sulla testa e uno sulla nuca, che serve per appendere la carcassa come trofeo dopo che la testa è stata asportata. Nelle varietà non usate dall’uomo per la caccia, il terzo corno è imperfettamente sviluppato o manca del tutto.

abbandonare (v. tr.) – Fare un piacere a qualcuno, liberandolo della vostra presenza. Parlando di una signora il termine «abbandonata» va inteso di norma nel senso di imprudente. abbietto (agg.) – Dicesi di persona che non si è mai macchiata della colpa di possedere redditi, patrimoni e vestiti eleganti. «In modo abbietto»: alla maniera di una persona povera ma onesta.

abbondanza (s.f.) – Condizione che permette di rifiutare, grazie alla Provvidenza, l’elemosina al povero. abderiano (agg.) – Dicesi di riso sciocco e dissennato, in quanto pare che Democrito, filosofo sciocco e dissennato, sia appunto nato ad Abdera, da dove non valeva davvero la pena di importare tale termine.

abdest – Cerimonia maomettana per cui si inspira acqua dal naso prima di emettere preghiere dallo stomaco. abdicazione (s.f.) – Cessione di corona in cambio di cappuccio monacale, allo scopo di raccogliere tibie e unghie di santi. Volontaria rinuncia a qualcosa di cui siamo stati privati con la forza. Abbandono del potere regale per la soddisfazione di assistere alla sconfitta del proprio successore. (Per le precedenti definizioni si ringraziano vari re di Spagna.)

Abeliani (s.m.) – Setta religiosa africana che Abeliani (s.m.) – Setta religiosa africana che seguiva i precetti di Abele. Sfortunatamente gli Abeliani erano contemporanei ai Cainiani, e sono ora estinti. aberrazione (s.f.) – Dicesi di qualsiasi deviazione dalle abitudini mentali che ci sono proprie, anche se insufficiente per costituire in sé e per sé una prova indiscussa di follia. abilità (s.f.) – L’abilità consiste comunemente in un alto grado di solennità. E’ peraltro qualità molto apprezzata, perché non è compito facile essere solenni.

abiurare (v. tr.) – Fare il primo passo verso un felice ritorno. ablativo (agg.) – Caso della declinazione latina. L’ablativo assoluto è un’antica forma di errore grammaticale, particolarmente apprezzato dagli studiosi moderni.

abominevole (agg.) – La qualità delle opinioni altrui. aborigeni (s.m.) – 1. Persone premurose che non disturbano i futuri lessicografi, i quali non dovranno darsi la pena di descriverle. 2. Persone di scarsa rilevanza che si trovano a ingombrare le terre di un paese di recente scoperta, ma presto cessano di ingombrarle per limitarsi a fertilizzarle.

abuso (s.m.) – Si parla di abuso di potere quando l’autorità viene esercitata in modo a noi sgradito. accademia (s.f.) – In origine, boschetto in cui i filosofi cercavano un significato nella semplicità della natura; oggi, scuola in cui i sempliciotti cercano un significato nella filosofia.

acclimatato (agg.) – Ormai immune da malattie endemiche dopo essere stato condotto alla tomba da una di queste.

accuratezza (s.f.) – Qualità del tutto priva di interesse, rigorosamente esclusa dalle asserzioni degli esseri umani.

accusare ( v. tr.) – Dichiarare le colpe e i difetti di qualcun altro, specialmente per giustificarsi di avergli fatto torto.

accusatore (s.m.) – Ex amico; persona a cui si è reso almeno un importante servizio.

acefalo (agg.) – Imbarazzante condizione di quel tal crociato che distrattamente cercò di ravviarsi i capelli qualche ora dopo che la scimitarra di un saraceno gli era passata – come riferisce De Joinville – attraverso il collo.

acrobata (s.m.) – Uomo che si rompe la schiena per riempirsi la pancia.

adagio (s.m.) – Saggezza ridotta all’osso per chi non ha quasi più denti.

addome (s.m.) – Santuario che racchiude l’oggetto della più sincera devozione dell’uomo. Il tempio del dio Stomaco, al cui culto sono dediti, tributandogli i dovuti omaggi, tutti gli uomini dabbene. Da parte della donna l’antica fede riceve soltanto un timido assenso. Anch’esse talvolta officiano al suo altare, ma con cuore tiepido e scarsa convinzione, non conoscendo la reverenza dovuta all’unica divinità che gli uomini realmente adorino. Se le donne avessero campo libero nei mercati mondiali, la razza umana diventerebbe erbivora.

adolescente (s.m.) – Dicesi di chi sta lentamente guarendo dall’infanzia.

Adone (nome proprio m.) – Un bel ragazzo ricordato soprattutto per la sua scarsa cortesia nei confronti di Venere e ingiustamente criticato in questo senso da chi dimentica che ai suoi tempi le dee si trovavano a pochi soldi la dozzina.

adorare (v. tr.) – Venerare aspettandosi qualcosa in cambio. affermare (v. tr.) – Fare dichiarazioni con serietà sospetta, quando non si è proprio costretti a screditarsi del tutto con un giuramento.

affezionato (agg.) – Dicesi di chi ha la tendenza a diventare molto noioso. La creatura più affezionata del mondo è un cagnolino bagnato.

aforisma (s.m.) – Saggezza predigerita.

aiutare (v. tr.) – Aumentare il numero degli ingrati.

alba (s.f.) – L’ora di andare a letto per gli uomini ragionevoli. Certi vecchi invece preferiscono alzarsi a quell’ora, fare un bagno freddo e una lunga passeggiata a stomaco vuoto e mortificare la carne in altro modo. Essi attribuiscono con orgoglio a queste sane abitudini il loro vigore e l’età raggiunta. In realtà sono ancora vivi e vegeti non in virtù, ma a dispetto delle loro abitudini. La ragione per cui si trovano soltanto persone molto robuste che abbiano adottato tale linea di condotta è che tutti gli altri che ci hanno provato sono morti.

albero (s.m.) – Pianta di forma allungata di cui la natura ci ha provveduti nella sua generosità, perché potessimo servircene come strumento di pena. Ora, a causa del declino delle nostre istituzioni legali, ci dà pochi frutti o addirittura nessuno; ma, quando viene coltivato adeguatamente, l’albero risulta un benefico elemento di civilizzazione e un importante fattore di pubblica moralità. Nelle rudi praterie del West e nell’aristocratico Sud, i suoi frutti (rispettivamente bianchi e neri) sono assai graditi al gusto della popolazione, anche se non sono commestibili, e molto vantaggiosi per il benessere generale, benché non vengano esportati.

album (s.m.) – Strumento di tortura al quale le nostre amiche ci crocifiggono fra due ladroni.

alienato (p.p.) – Termine legale che indica la condizione di infermità mentale in cui ci si trova il momento prima di commettere un delitto.

Allah (nome proprio m.) – L’ente supremo dei maomettani, da non confondersi con quello dei cristiani, degli ebrei, eccetera.

alleanza (s.f.) – Nel diritto internazionale significa l’unione di due ladri che hanno ficcato le mani nelle tasche l’uno dell’altro così a fondo che, separatamente, non riuscirebbero più a derubare una terza.

allegoria (s.f.) – Metafora in tre volumi e una tigre. alligatore (s.m.) – Coccodrillo americano superiore sotto ogni punto di vista ai coccodrilli delle fatiscenti monarchie del vecchio mondo. –

allocuzione (s.f.) – Discorso formale, in genere rivolto a persona in possesso di qualcosa da parte di qualcuno che vuole averne almeno una fetta.

alluvione (s.f.) – Un superiore grado di umidità.

alone (s.m.) – Sta a indicare esattamente quell’anello luminoso che circonda i corpi celesti, ma non è infrequente che sia confuso con «aureola» o «nembo» o qualche altro fenomeno del genere che santi e divinità usano per ornarsi la testa. L’alone è semplicemente un’illusione ottica, dovuta all’umidità dell’aria, allo stesso modo dell’arcobaleno; mentre l’aureola viene conferita quale segno di superiore santità, come la mitria vescovile e la tiara pontificia. Nel dipinto della Natività di Szedgkin, un pio artista di Pest, non soltanto la Vergine e il Bambino sono circonfusi dall’aureola, ma anche un asino che mastica il fieno dalla Sacra Mangiatoia viene adornato alla stessa maniera e, sia detto a suo onore imperituro, porta l’insolita dignità conferitagli con autentica santa grazia.

 

 

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