ANTONIO GNOLI, INTERVISTA A SERGE LATOUCHE :: ” Sogno un mondo che impari dalla decrescita “- Repubblica. ROBINSON — 21 MARZO 2020–pp. 44-45

 

Repubblica. ROBINSON — 21 MARZO 2020–pp. 44-45

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VANNES IN BRETAGNA

 

 

ROBINSON

Serge Latouche 

Sogno un mondo che impari dalla decrescita

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MARCEL MAUSS

di Antonio Gnoli

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SERGE LATOUCHE NASCE A VANNES, IN BRETAGNA IL 12 GENNAIO 1940

 

Nel tempo di una crisi sistemica che tocca le vite di ciascuno di noi, tornare a leggere alcuni libri di Serge Latouche, può fornirci qualche spunto interessante. Tra i sostenitori più autorevoli e caparbi della decrescita, egli sostiene e argomenta da anni che il pianeta non ce la fa più. E lo dice senza travestirsi da Cassandra, senza appellarsi ai catastrofismi, ma nella consapevolezza che il modello di sviluppo che l’Occidente ha intrapreso (da secoli) ha stravolto il rapporto dell’uomo con la terra. Per decenni non abbiamo fatto altro, commenta Latouche, che idolatrare l’economia. I risultati sono sconvolgenti. Stella polare del suo discorso è l’antropologo Marcel Mauss. Lo si ricava anche dal suo nuovo libro Come reincantare il mondo (edito in questo giorni da Bollati Boringhieri). Si tratta di un’analisi meticolosa del rapporto tra capitalismo e religione, tra la fede in Dio (ma quale?) e la fede nella Pil.

Perché Mauss è così importante nella sua formazione?

«Perché, non essendo un economista, colse tutti i limiti della disciplina, le sue insensatezze. Ai miei occhi la sua importanza si concentra su due aspetti: la concezione del fenomeno sociale totale che manda in frantumi le barriere disciplinari e la sua straordinaria analisi del dono come base della socialità».

Ritiene davvero che la sua concezione del dono sia ancora valida?

«Assolutamente sì. Tanto è vero che da tempo esiste un movimento eponimo, Mauss (Movimento antiutilitarista delle scienze sociali) di cui sono stato, insieme a Alain Caillé, uno dei fondatori e animatori. Secondo Mauss la logica del dono struttura sempre — nonostante lo schermo dell’economia — la socialità primaria, cioè le relazioni genitori-figli, marito-moglie, amici-nemici, sulle quali si costruiscono i rapporti politici ed economici che costituiscono la socialità secondaria».

Insomma il dono è più importante della merce?

«In una società dominata dal mercato la merce è più importante. Ma occorre vedere che cosa innesca e quali effetti produce una volta che si universalizza».

La sua critica all’economia è sostanzialmente una critica al neoliberismo.

«No, anche perché il neoliberismo è solo il compimento della logica economica che è già presente fin dalle origini, nell’economia classica».

Le piace l’economista Karl Polany?

«Le sue analisi sono fondamentali, ma non lo considero un economista, piuttosto un antropologo».

Anche lei in fondo è un antropologo che ha iniziato occupandosi di economia.

«Ho studiato economia all’interno della facoltà del diritto. Poi, durante il servizio militare, presi una specializzazione in scienze politiche. Nel 1964 partii per il Congo con un dottorato in economia e vi restai due anni».

A fare cosa?

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KINSHASA OGGI

 

«Insegnavo, presso la scuola nazionale del diritto e dell’amministrazione di Kinshasa, contabilità e politica economica. Su quell’esperienza ho redatto la mia tesi e nel 1966 sono partito per il Laos a fare più o meno le stesse cose. Lavoravo a Vientiane presso il ministero della programmazione. Dopo un anno tornai in Francia, vinsi l’aggregazione e divenni professore universitario».

Dove è nato?

«A Vannes in Bretagna, davanti a uno splendido golfo punteggiato di isolette. Mio padre era avvocato e mia madre si occupava dei cinque figli. Da giovane era stata insegnante di matematica».

Quando ha capito che occuparsi di economia non era la sua vocazione?

«Il distacco è maturato durante il soggiorno in Africa. Per trent’anni ho continuato a studiare e visitare quel continente. Ne ho analizzato l’economia tra dono e mercato; ho studiato i modi per sopravvivere di certe società fuori dalle leggi del capitalismo, ho guardato con interesse alle forme dell’auto-organizzazione da parte degli emarginati. E in tutto questo — pur nelle condizioni di estrema precarietà — ho visto la prefigurazione di una società della decrescita».

Lei ritiene che quella idea di Africa sia un modello da imitare?

«Mi pare difficile anche perché lo sconvolgimento provocato dalla mondializzazione, l’opera insomma di distruzione sociale e culturale di quel continente, hanno fortemente compromesso il futuro che un tempo si poteva prefigurare».

Come possiamo dunque immaginare o progettare una società della decrescita?

«Occorre sgombrare il campo dalle facili soluzioni. Il progetto della decrescita non offre l’immagine di un futuro definito se non in contrasto con i tratti negativi della società della crescita insostenibile e ingiusta».

Non abbiamo nessuna idea di come realizzare una società che compia un salto qualitativo e che inverta la marcia attuale?

«Abbiamo alcuni fili del discorso che possiamo tirare.

Non possediamo l’intero disegno. Ma sappiamo come è stata costruita e come funziona questa macchina potente, che è il capitalismo, lanciata verso il burrone.

Ogni scossa devastante cui assistiamo — pensi alla crisi del 2008 o all’attuale crisi innescata dal coronavirus — non è un semplice assestamento è un enorme brandello di pelle che si strappa e porta alla luce l’altra faccia dello sviluppo economico: povertà e ingiustizie».

Un neoliberista le obietterebbe che sarebbe impensabile una fuoriuscita dal mercato e per quante ingiustizie e diseguaglianze produca è sempre meglio di improbabili modelli alternativi cui la decrescita aspira.

«L’attuale modello economico, che poi non si discosta molto da quello immaginato dai nostri classici, ha legato il proprio destino a un’organizzazione fondata sull’accumulazione illimitata. Dentro questa prospettiva, si è condannati a produrre e a consumare di più. Non appena la crescita rallenta o si ferma è la crisi e il panico».

A proposito di panico come vive questa reazione, molto umana, che oscilla tra minacce biologiche e finanziarie?

«È molto difficile sottrarsi a certe forme di paranoia perché, come mostrano alcuni psicoanalisti, c’è sempre una base razionale nella paura. È così anche per la psicosi da coronavirus nella quale ci troviamo immersi».

Questa paura di cui si parla ha qualche elemento nuovo?

«La reazione è tipica, nuovo è l’incrocio tra più virus: biologico, economico e mediatico. Tutto questo rischia di rendere più esteso e profondo il panico».

Fino al punto da compromettere le strutture stesse del sistema?

«Non lo credo. Si rivedranno verso il basso le previsioni di crescita, ma alla fine l’impatto sull’economia sarà relativamente limitato».

Contrazione dei consumi, riduzione drastica delle emissioni di CO2, il Pil messo a dura prova, sembrano anticipare un discorso sulla decrescita. Se l’aspettava?

«Non vedrei questi eventi drammatici come una strada percorribile in una chiave di decrescita. Oltretutto, i governi hanno imparato un certo numero di lezioni. Sono in grado di intervenire sui mercati. Evidentemente ci sono dei limiti a questa capacità di riparare la macchina.

Ma nel contesto attuale il sistema è ancora in grado di affrontare una recessione mondiale a condizione che non si trasformi in depressione, perché al quel punto niente sarebbe più sotto controllo».

Non pensa che quel che sta accadendo può insegnarci parecchie cose in merito alle scelte economiche e sociali?

«Mi piacerebbe pensarlo, malauguratamente l’esperienza mi rende assai scettico. Quando tutto questo sarà alle spalle, quando la pandemia sarà un ricordo, come la crisi economica che sta producendo, si tornerà ai vecchi stili di vita. Per molti sarà gradevole, almeno all’inizio, poi riprenderemo a lamentarci dei disastri epocali incombenti. Tutti a piangere o a ridere aspettando la prossima crisi. Intendiamoci, qualche piccolo cambiamento verrà realizzato. Magari proprio nel campo della sanità, ma sarà ben poca cosa».

Non crede che il capitalismo sia il solo sistema economico che abbia saputo imparare dai propri errori?

«Non è sbagliato pensarlo; la storia ci dimostra delle sue forti capacità di rigenerarsi. Ma più si va avanti e più si evidenziano i limiti a questa impostazione. L’attuale capitalismo che definirei “totalitarismo mercantile” non è in grado di risolvere la crisi ecologica. Lo vediamo con il cambiamento climatico in corso. Le politiche attuali, condotte sotto la dittatura del mercato finanziario, non possono modificarne la tendenza al disastro».

Non crede che il pianeta si sia spinto troppo oltre per poter respingere la globalizzazione?

«Bisogna intendersi sul significato di globalizzazione.

L’umanità è globale dal 1492, cioè fin dalla scoperta dell’America. Ma qualcosa di fortemente diverso si è realizzato a partire dal 1989, cioè con la caduta del Muro, ossia la mercificazione pressoché totale del mondo, facilitata dalle nuove tecnologie e accettata passivamente da masse sedotte e sottomesse. Al posto della fine della storia, vista come il trionfo della democrazia pluralista e dell’economia di mercato, abbiamo assistito in questi anni all’emergere di un caos inquietante con lo sviluppo di diversi terrorismi: etnici, religiosi, economici».

In tutto questo lei con il suo ultimo libro propone la necessità di “reincantare” il mondo. Non è illusorio?

«Perché?».

Max Weber con l’immagine della “gabbia d’acciaio” aveva pienamente colto il dramma dell’uomo moderno e del conseguente disincanto.

«È vero e mi sembra evidente che occorra provare a uscire da quella gabbia».

Facile a dirsi.

«Sono consapevole delle difficoltà, ma il rischio è che alla fine non ci sarà più né la gabbia né il prigioniero. La fede nella crescita illimitata del nostro sistema produttivo è insensata. Quello che ci travolgerà sarà la società dei rifiuti. Ogni cosa si trasforma velocemente in spazzatura».

Ossia?

«Non possiamo produrre frigoriferi, automobili, treni, aerei, televisori migliori e più grandi senza produrre rifiuti ancora più grandi. Il processo economico non è un processo puramente meccanico e reversibile ma è di natura entropica. La decrescita sarà ineluttabile. Si tratta di capire come la vogliamo affrontare, dove volgere lo sguardo. Reincantare il mondo significa appunto questo: convincersi che la decrescita, non ha nulla di nostalgico, non è una riduzione di benessere. Ma un concetto diverso di benessere e del proprio tempo a disposizione».

Non siete in tanti a puntare su questa idea diversa di benessere.

«Ma neanche pochi. Lo stesso papa Francesco sembra muoversi in questa direzione. Il mio lavoro ha alle spalle pensatori che hanno anticipato alcune mie idee».

Chi?

«Scrittori come Tolstoj, Jean Giono, George Bernanos, Aldous Huxley, o personalità come Ivan Illich e Cornelius Castoriadis, Raimon Panikkar e la stessa Simone Weil hanno perfettamente capito i pericoli dell’illimitatezza tanto per la società che per i suoi membri».

Se la parola decrescita implica diminuzione e ridimensionamento crede davvero che ci sia gente disposta a rinunciare al sogno dell’illimitato?

«I nostri attuali modelli di consumo si servono di un immaginario colonizzato dalla pubblicità. Il pubblicitario sollecita un desiderio perché sa che questo è insaziabile».

Diciamo pure che la pubblicità è oggi il solo incantamento del mondo.

«Ma l’incantamento pubblicitario è destinato a soddisfare il desiderio per creare subito dopo frustrazione come premessa per un nuovo desiderio. Si colonizza l’immaginario e si creano così falsi bisogni».

Tutto questo ci porta a Jean Baudrillard al quale lei ha, un po’ sorprendentemente, dedicato un libro.

«Ho frequentato Baudrillard per una dozzina di anni e ho sviluppato la mia critica dell’economia politica all’ombra del suo pensiero. Poi le nostre strade si separarono. Salvo riscoprirlo alla fine. Siamo stati amici. E le sue idee, improntate all’ironia, sorrette da uno stile letterario potente, sono state oltremodo feconde».

Chissà cosa avrebbe scritto in merito all’attuale pandemia.

«Non possiamo saperlo. Ma in merito alla globalizzazione Baudrillard parlò di violenza che si trasforma in virulenza, cioè di una violenza virale che opera per contagio e tende a distruggere le nostre immunità e la capacità di resistenza. Si riferiva al terrorismo nelle sue diverse manifestazioni ma non solo. Si riferiva soprattutto alla caratteristica degli avvenimenti irrazionali di poter essere attribuiti a chiunque e a qualunque cosa. La chiami pure la nascita del nemico».

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1 risposta a ANTONIO GNOLI, INTERVISTA A SERGE LATOUCHE :: ” Sogno un mondo che impari dalla decrescita “- Repubblica. ROBINSON — 21 MARZO 2020–pp. 44-45

  1. Donatella scrive:

    La crescita senza limiti, secondo me, non è sostenibile dalle risorse che ci sono sul pianeta. In questi giorni, nei supermercati, ho visto persone che compravano decine di confezioni giganti di acqua minerale e mi immaginavo che le bottiglie vuote difficilmente sarebbero tutte finite nel reparto plastica dei rifiuti. Certamente dietro alla produzione della plastica di quelle bottiglie ci sono aziende, persone che, se fosse sospesa, rimarrebbero senza lavoro. Qui dovrebbe intervenire la politica, promuovendo un’azione graduale di cambiamento di produzione. C’è poi l’intervento della cultura e della opinione pubblica, che un po’ ha parlato e discusso sulla ” decrescita”.

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