Carmelo Bene – Nostra Signora dei Turchi – film completo in italiano del 1968 – 2 h

 

 

Nostra Signora dei Turchi è un lungometraggio drammatico del 1968, diretto e interpretato da Carmelo Ben

 

 

«Questo mio film… è un capolavoro.»

(Carmelo Bene)

 

 

Nostra signora dei turchi (scena 2).jpeg

 

  • Carmelo Bene: Il protagonista
  • Lydia Mancinelli: Santa Margherita
  • Salvatore Siniscalchi: L’editore
  • Anita Masini: Santa Maria
  • Ornella Ferrari: La serva
  • Vincenzo Musso: Uomo che corre

Doppiatori originali

  • Carmelo Bene: Voce narrante
  • Ruggero Ruggeri: Voce che declama la Canzona di Bacco
  • Arnoldo Foà: Voce che declama Alle cinque della sera

 

 

 

 

 

Trama breve

 

Seguendo un collegamento ambivalente e poi profetico della vicenda della strage degli 800 martiri a Otranto ad opera dei Turchi, Carmelo Bene, nei panni di un uomo pugliese, ripercorre un proprio cammino interiore. La sua filosofia che spiegherà in un monologo fuori campo, come del resto fa in tutto il film, consiste nel manifestare il proprio essere interiore distrutto e deturpato da forze esterne. Tramite la mediocrità più assoluta e il rifiuto anticonformista della salvezza e degli aiuti esterni, Carmelo Bene nelle vesti del personaggio pugliese arriva a compiere il suo dovere, autodistruggendosi. Ma l’invettiva lanciata da lui non è solo contro il proprio ego, bensì contro anche quelle forze che hanno contribuito a renderlo insulso e sofferente.

 

 

 

Incipit della “trama

 

Sullo sfondo buio iniziano a manifestarsi le forme del palazzo moresco, poi con inquadrature sempre più nitide e spericolate. La musica sinfonica tratta da Una notte sul Monte Calvo del compositore russo Mussorgsky, è perfettamente amalgamata con le immagini e soprattutto con la voce fuori campo, stupendamente cantilenante di Carmelo Bene. Come un monaco registrante le vicende nei Chronicon di altri tempi, rievoca vicende fra lo storico e l’infantile (in) esperienza, dove tutto è indefinito, citando così il tristo evento della presa di Otranto da parte dei Turchi:

Attiguo a casa sua stava un palazzo moresco, denunciato dal salmastro, orientale, come un riflesso sbiadito. Scrostato sotto le volte degli archi e sulle cupole. Abitato l’inverno da Cristiani comodi che nell’estate pagana cedevano le due ali sul mare per non morire di fame. Proclamato la fine lo stato d’assedio, quel palazzo sarebbe diventato il quartier generale dei Turchi che di tra le viole del cielo assolato avevano ammainato le mezzelune.

Si rivede così in un’altra vita, proprio 500 anni fa, quando scampò all’eccidio, non volendo, anzi rammaricandosene, avvertendo lo scampato martirio come un’umiliazione…

Quella costruzione era un sunto di storia, oppure no. Era il suo carnefice convertito proprio quando toccava a lui, cinquecento anni fa. Le esecuzioni di 800 e più martiri ebbero luogo in un campo di grano di quei coloni inturbantati che mietevano spighe d’oro ingemmate in cinabro, impazziti all’incanto di quella miniera di Fede.

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Vistosi alla fine pensò di invocare Santa Margherita, non nominata esplicitamente ma che apparirà più in là…

In quell’occasione egli pensò che sarebbe stato facile incontrarsi un’ultima volta. Era un santo a pregarla. Perciò le aveva scritto: “Vieni, stavolta è grave”. E la risposta di Lei fu “stai tranquillo, ora non posso davvero. Vedrai che tutto andrà bene”. Posa il capo su un sasso e la sognò. Si ribellò che ancora non l’avevano decapitato. Guardò in alto cercando il suo carnefice e lo trovò crocifisso. Poi gli dissero di levarsi e andarsene. Lui non aveva osato insistere; lo avevano umiliato, non c’è dubbio. Ma l’avrebbe rivista.

Poi si succedono delle velocissime sequenze alternate di esterni del palazzo moresco con interni della cripta della cattedrale di Otranto, dove vengono così ad essere inquadrati le ossa dei martiri di quell’evento del passato.

Se fosse stato loro il palazzo moresco, sarebbe anche vero oggi che le sue ossa figurerebbero sui velluti rossi, nella cripta della Cattedrale di Otranto. Incastrate, nel prodigio che le vuole ancora rivestite di carne, dopo tanto; come in quell’altro tutto suo miracolo che dopotutto la pensava ancora.

Continua l’inventario di quell’esperienza finché non si rivede in un teschio, il suo, che sembra volersi reincarnare.

Con il ritorno al presente, e lui, in primo piano di profilo, che dice: “Sì, sono io”. In questo presente cerca il suo calvario, questa volta voluto e auto-determinato, non più causabile da un evento esterno. Cerca in tutti i modi il martirio mancato, cercando di farsi male, comunque, di rincretinirsi, di umiliarsi, ecc. Comportamento stranissimo, proprio da folle. Qui le musiche sono generalmente dissonanti contrariamente a quelle che caratterizzavano le sequenze precedenti. Tanto per cominciare lo troviamo auto-legato come un salame, da capo a piedi, cercando in tal modo di spostare quelli che sembrano degli elenchi telefonici, posti sopra una seggiola, per metterli dentro una valigia, usando a tale scopo la bocca, o le mani, per quel che può. In questa situazione di visibile incapacità scoppia nella stanza un incendio, e lui sempre sdraiato si agita impotente, cercando di mettere l’ultimo foglio nella valigia, qualche indumento, e poi di chiuderla. Tra fumo e fiamme lo vediamo rotolarsi verso…

Dall’alto di un dirupo lo vediamo impugnare con le due mani una pistola e sparare verso un individuo, il suo alter ego, che corre in mezzo ai campi cercando di sfuggire a questa minaccia. Schivando fortunosamente i colpi arriva su uno spiazzo vicino al mare; sembra riprendere fiato, tira fuori un documento per leggervi… quasi tranquillizzato, ma il killer questa volta non lo manca, colpendolo con un colpo alla schiena, poi avvinatosi gli dà il colpo di grazia. Il killer si inginocchia per prendere il documento ma il corpo del fuggiasco, il suo alter ego non c’è più.

Una signora col battipanni in mano, forse una domestica, dalla balconata del palazzo sbadiglia, guardando non si sa dove. Lui cerca di arrampicarsi malamente, sprovveduto e incapace com’è; vuole scavalcare il muro… Mentre la signora indolente continua a battere i tappeti appesi alla balconata. Lo si vede ora vestito da cameriere che porta un mazzo di fiori. I fiori sono ora sul tavolo come fossero un quadro raffigurante una natura morta.

Si avvicina adagio, verso la finestra, guarda, ammira, si appoggia con un braccio sulla balaustra, fumando la sua sigaretta, guarda in alto, forse gli uccelli o chissà cosa; si guarda intorno circospetto per vedere se fosse spiato da qualcuno; finisce di fumare e butta via la cicca; cerca di scavalcare la balaustra di spalle, da vero incapace; cerca di appoggiare prima il piede sinistro, poi con le mani si dà uno slancio e precipita… Fa un bel volo, ritrovandosi così disteso e fracassato a terra. Inquadratura dall’alto. Qui la voce fuori campo…

Non era la prima volta che si buttava fuori dalla finestra.

Tutto indolenzito, lamentevole, con fatica cerca di muoversi, di rialzarsi, ma inutilmente. Infine esclama: “stavolta li denuncio”. Non riesce ad alzarsi proprio e così carponi riesce ad uscire fuori dall’inquadratura.

Si ritrova davanti allo specchio, con la faccia incerottata, con indosso vestito e cravatta, che sorseggia un liquore, diverse candele dal basso illuminano il tutto. Fa cin cin a se stesso stentando un sorriso. Dice qualcosa sottovoce…

Non sono d’accordo, andiamocene via.

 

 

 

La “trama completa”

L’inizio della trama del film ha un netto collegamento con l’intera vicenda del personaggio di Bene. Bisogna prestare attenzione immediatamente dalla prime battute del protagonista riguardo all’assedio di Otranto avvenuto nel 1480 ad opera dei Turchi. Dopo l’evocazione di Bene di tale assedio in cui furono trucidati in un campo di grano ben 800 persone, Bene passa a descrivere la figura sgargiante e imponente di un palazzo moresco: l’odierna Villa Sticchi. Attraverso questo palazzo si rispecchia tutto l’animo del protagonista del film in cui s’incarna: sofferente, situato in un luogo a lui sconosciuto (il Salento appunto) e di conseguenza assalito dalla forza sconosciuta dei Turchi che hanno imposto un nuovo regime culturale e religioso. La trasformazione radicale del valore simbolico del Palazzo Moresco, inizialmente divenuto il quartier generale dei Turchi durante l’assedio e poi ritornato in possesso dei suoi vecchi padroni, ha fatto sì che il protagonista, così come il palazzo stesso, ne uscisse profondamente travagliato. Da qui inizia il viaggio nell’anima del protagonista Carmelo Bene, caratterizzata in tutto il film da un profondo senso di impotenza che lo porta di conseguenza ad apparire volutamente mediocre e reietto, sebbene lui stesso conosca il suo problema.

Un fatto dev’essere ben chiaro: il personaggio di Carmelo Bene è presentato e agisce in base ad un pregnante status di inettitudine e dabbenaggine, quasi stupidità. Tutte le azioni che compie il suo “personaggio chiave”, eccezion fatta per gli altri che interpreta nel film, sono relative a questo concetto.

 

Il protagonista inizia a confrontarsi con sé stesso

 

Carmelo Bene in vesti di un personaggio qualsiasi, si trova nella sua casa presso Santa Cesarea Terme nel periodo rivoluzionario del 1968. Tuttavia l’arco di tempo in cui il protagonista agisce pare incerto e irraggiungibile, come del resto il sinolo del vero stato d’animo dell’uomo. Egli sa solo che sta male e vorrebbe in tutti i modi accanirsi ancora di più contro la sua stessa persona di prima di lasciare la Terra. Bene osserva con il suo sguardo arcigno e impenetrabile la vita comune dei paesani di Santa Cesarea e, cambiando direttiva, torna a lottare con sé stesso. Già una volta si butta dalla finestra di casa, avendo inutilmente cercato di raggiungere una ragazza per cui provava interesse. Quando cerca di auto-lesionarsi nuovamente, Carmelo Bene viene scorto da un uomo che, avendo lasciato immediatamente le sue faccende, corre per salvarlo. Ma improvvisamente, come se su di lui avesse agito una forza estranea, quasi sovrannaturale, l’uomo è colto da un infarto non appena giunge sotto la casa del suicida e si accascia esanime.

Bene guarda la scena disgustato e si stacca dalla finestra. Ha intenzione di scrivere, comporre un resoconto di tutto ciò che prova per arrivare ad una conclusione, oppure semplicemente per pura voglia di descrivere quello spaccato preciso della sua vita?

Non ha il tempo neanche di mettersi all’opera che una figura entra dolcemente nella vita del protagonista Carmelo Bene: Santa Margherita (forse quella di Antiochia), protettrice del suo paese marinaro. Anche questo personaggio però nel film non è del tutto omogeneo e spesso fa sorgere molti dubbi: è veramente l’apparizione di una santa oppure è vista così dal protagonista, essendo forse lo spirito in realtà una semplice donna?

Ma una cosa è certa nel film: la santa è piena di buone intenzioni e vorrebbe aiutare il protagonista a redimersi da ciò che lo fa soffrire, ma per Bene quella presenza è portatrice di sventure e di mali ancora più atroci, perché appunto si è intromessa nella sua vita. Santa Margherita gli comunica che tutte le volte che ha provato a suicidarsi era stata proprio lei a salvarlo affinché potesse avere un’altra possibilità. Lei cerca di consolare Carmelo Bene in un tenero passionale abbraccio sul letto di casa, ma il protagonista, sebbene in un primo momento si abbandona sconsolato, la rifiuta, esasperato dalla continua tiritera pronunciata senza fine dalla santa: “Ti perdono! Ti perdono!”.

Bene dunque respinge via la santa, ma poi pare che ciò che lo assilla per tutto il film non sia sparito del tutto. Dunque infuriato distrugge mobili e sedie e fa lo stesso preparandosi una camera esterna al chiaro di luna.

 

 

La filosofia del “Vedere la Madonna”

Una delle tante figure interpretate da Carmelo Bene nel film. Qui assume il ruolo di un essere soprannaturale, quasi filosofo, che teorizza la sua visione della vita

Scacciata per la prima volta Santa Margherita, lo spirito disceso dal Paradiso per vegliare sull’anima di quel particolare sfortunato, Carmelo Bene mette a fuoco la sua filosofia di vita. Tale parte del film tende all’autoesaltazione e al manifestare l’indiscutibilità del Genio, incompreso e rifiutato invece nella società comune.

Parla la voce narrante, affermando che il mondo è composto solo da cretini: cretini che hanno visto la Madonna e cretini che non l’hanno vista. Il protagonista fa parte di coloro i quali non hanno visto la Madonna: ciò nondimeno, non può sottrarsi dal desiderarne la visione. Tale condizione è la trasposizione metaforica di coloro i quali non sono ancora riusciti ad affrancarsi dai significati (nel qual caso riuscirebbero dunque a scomparire nei soli significanti: in altre parole, nei ‘corpi sonori’ del linguaggio). Essi, per far ciò, non possono che perseguire l’auto-annientamento dei propri intenti, ovvero del proprio voler-essere soggetti: i ‘salti dal balcone’ non sono altro che ‘voli mancati’, in quanto testimonianze dell’incapacità di vincere la forza di gravità. Viceversa, San Giuseppe da Copertino (vero riferimento ‘differito’), mediante la sua levitazione, riusciva a volare con ali immaginarie verso il Cielo, colmando la distanza tra lui e la Madonna: essendo perciò lui stesso la Madonna che vede (il miracolo è quindi il superamento dello iato tra significati e significanti: esplicito riferimento alla semiotica di Ferdinand De Saussure). Ricapitolando, la gente che invece pretende di giungere alla visione della Madonna basandosi su fatti, volontà e, in generale, l’intenzionalità dell’ego, non può che vedere solamente se stessa (il miracolo non accade).

 

 

Ritorno al presente del protagonista

Dopo una breve visita in paese del protagonista, tutto fasciato per le ferite riportate nella caduta iniziale, nella quale ascolta una telecronaca sul film Il generale della Rovere, Carmelo Bene incontra un editore. Questi infatti, essendo in crisi economica, vorrebbe pubblicare le lettere e i testi che il protagonista stava scrivendo riguardo alle sue sensazioni. Bene sarebbe anche interessato, ma un dubbio lo sconvolge: avrebbe dovuto prima rileggere i suoi scritti, non per correzioni, ma per rituffarsi nei suoi antichi pensieri nell’intento disperato di arrivare ad un fine.

Tuttavia egli rallegra il modesto editore e ci si mette a ballare felicemente, come una coppia di amanti. Giunta la sera, Carmelo Bene si reca in paese, per assiste ad una festa, ma improvvisamente si sente male. Non riesce a stare in mezzo a tutta la ressa, dato che solo lui pare stare male e quindi desideroso di restare solo. Tutto ciò che in Terra lo circonda pare fargli pena e disgusto. Allontanatosi dalla piazza, il protagonista si sposta in un campicello dove un pastore sta pascolando le capre. Il rumore assordante dei fuochi d’artificio fa impazzire il protagonista, che pare stia per esplodere, finché non giunge nuovamente Santa Margherita. Questa appare al protagonista dal cielo illuminato dagli spari, invitandolo freneticamente a ripensare su ciò che ha fatto. Se lui non l’avesse respinta, adesso sarebbe in pace e senza quei dolori interni che lo attanagliano. Però Santa Margherita si dimostra ancora premurosa e continua a vegliare sull’anima di Carmelo. Questi continua il suo percorso sulla stradicciola, giungendo ad una casa diroccata. Giunge il momento della trama in cui il protagonista ha un fosco ricordo della sua infanzia. Egli trova davanti a sé un bambino piangente e lo raccoglie, mentre nelle mura intorno a sé dei fuochi e delle fiamme divorano l’intero spazio.

Il giorno dopo Carmelo si trova sempre nella sua stanza, dolorante ancora per le ferite. Questa volta però si aggiungono ai mali degli spasmi convulsi, che fanno tossire ripetutamente il malato, ancora una volta visitato da Santa Margherita. Questa tenta ancora di aiutarlo nella sua lotta, ma con parole sconnesse Carmelo la invita ad andarsene nuovamente, aumentato il volume dei colpi di tosse, come se fosse proprio la santa a farlo soffrire di più con la sua presenza. Margherita, disperata, si allontana piangendo.

 

 

Allegoria di Cristo e altre vicende del protagonista

 

Improvvisamente la scena cambia: una grotta buia e umida prende il posto della camera da letto del protagonista. Carmelo Bene cerca di arrivare nel punto dove sente provenire dei sospiri. Scopre la Vergine Maria in lacrime che piange il corpo del figlio Gesù Cristo. Lei, alzando lo sguardo, fissa quello stupefatto e spaurito di Bene, dicendogli che il figlio era morto per colpa sua. Di conseguenza la scena si sposta, dopo che il protagonista è riuscito ad uscire dalla grotta. Ora lui e Santa Margherita si trovano in una barca nel mare, poco lontano dal molo Santa Cesarea. Segue un dialogo incomprensibile tra i due. Finalmente il protagonista apre la bocca, dopo quasi l’intero silenzio in tutta la prima parte del film; però le cose che dice alla santa sono quasi prive di senso. Inoltre a complicare l’apprensione del discorso sono le parole di Margherita, che si alternano a quelle pronunciate da Bene. Si tratta del tipico metodo beniano usato nei panni del protagonista per esprimersi: l’incomprensibile. Solo lui comprende e conosce il suo pensiero e se tenta di comunicarlo, risulta impossibile da assimilare di fronte alle altre persone, perfino a quella figura che impersona Santa Margherita. Dopo aver finito la conversazione, Bene si abbandona nella barca, allungandosi sulla prua e fissando il cielo.

Segue la scena del Palazzo Moresco, il simbolo ed unico punto di riferimento del protagonista a cui appigliarsi. Lì si incontra sempre con Santa Margherita, questa volta non più in vesti di abitante del Paradiso. Sembra infatti una donna normale. I due entrano nel palazzo e improvvisamente le sequenze che seguono sono in bianco e nero, come una vecchia pellicola degradata del cinema muto. Nella sala principale mezzo diroccata vi è un bambino che gioca a pallone, dando fastidio al protagonista. Inoltre lì Carmelo Bene dà ancora prova del suo status demente e inetto, non riuscendo a portare un baule sopra le spalle, cadendo a terra e poi cercando di avere un’altra conversazione con Margherita. Ma ancora una volta le parole e le frasi sono senza senso e i due non riescono a capirsi perché ognuno parla sopra l’altra. Non sapendo più che fare, il protagonista, sparita Margherita, si accascia a terra, accerchiato da tante candele accese.

Nelle altre due brevi sequenze che succedono, Carmelo Bene e il personaggio di Margherita giocano a carte, tentando ognuno di prevalere sull’altro. Ad un certo punto Margherita si accorge che l’altro sta barando e gli domanda il perché. Il protagonista non risponde e così vince. Nella seconda scena breve si assiste, sotto un paesaggio sfocato e coperto in parte da mucchi di fiori, due amanti che si baciano.

 

Dialogo dei frati

La lunga scena che segue è una chiara critica di Bene nei confronti della Chiesa.

Egli interpreta due frati e un penitente. Il primo è un uomo rozzo, volgare e barbuto, l’altro uno più mite di nome Ludovico e il penitente è una deformazione esuberante del pellegrino fedele.

La scena si svolge sempre in casa di Bene a Santa Cesarea, dove il frate barbuto è intento a preparare una cena a base di vino, pane e spaghetti al sugo. Mentre l’essere penitente dà sfogo a tutta la sua stupidità invocando senza senso l’intervento salvifico del frate, Ludovico è costretto a sottostare agli ordini gretti e precisi impostigli dal frate barbuto. Costui rappresenta il lato negativo della Chiesa: estremamente bruto, goffo e malfattore, talmente incastrato nei suoi vizi che spesso i suoi alterchi e borbottii risultano incomprensibili. Anche questo è uno dei tanti personaggi resi deformi dall’esagerazione classica di Carmelo Bene.

Il goffo frate barbuto fa cadere per terra gli spaghetti e dopo averli raccolti tra imprecazioni e parolacce, inizia a dialogare con il suo alter-ego Ludovico. Quest’ultimo vorrebbe apparire diverso da come appare agli altri e a sé stesso. Lui si crede ancora buono e degno di redimersi finalmente dal peccato e da tutti i misteri che avvolgono la vita. Il frate barbuto gracchiando gli intima di lasciar perdere queste sciocchezze, in quanto il mestiere svolto dai frati come lui e l’altro è il migliore per guadagnarsi la salvezza, il potere e il pane a pranzo e cena. Da come dichiara egli: “La gente come noi si coniuga e non si declina!”, si capisce la difficoltà del protagonista stesso a trovare uno sbocco di salvezza a queste due forze opposte che combattono. E come se non bastasse il fedele penitente interrompe tutto. Il frate barbuto continua a ridacchiare, consapevole di aver vinto su Ludovico e, tagliando la scena di colpo, ne passa ad un’altra. Il collegamento tra le due tuttavia è evidente.

Questa volta il frate barbuto, truccandosi come un attore teatrale in camerino, cambia pian piano aspetto, divenendo quasi un’altra persona. Giunge per la quarta volta Santa Margherita, questa volta dichiarandogli senza preamboli il motivo per cui è venuta da lui ancora. Carmelo Bene, fingendo di non capire, le dice che la persona che cerca (Ludovico, ossia la parte buona del protagonista stesso) è nella stanza più in fondo. Santa Margherita capisce allora il netto rifiuto del suo beniamino e lo ingiuria andandosene.

La metafora del Cavaliere Medievale

La scena si sposta adesso indietro di 500 anni circa, basandosi Carmelo Bene sull’anno 1968. Una donna con un bambino attraversa il pavimento a mosaico della Cattedrale di Otranto, giungendo alla grande teca dei martiri. Improvvisamente la donna ha una visione: il teschio di uno dei martiri si anima e compare il volto di Carmelo Bene che invita la donna a seppellirlo al più presto. La donna accetta, anche senza comprendere il significato di quelle parole, e se ne va. La sequenza si sposta al presente: il protagonista Carmelo Bene è intento a scrivere ancora e finalmente si può capire il nocciolo della metafora del suo modo di essere. La vicenda è ambientata nel Medioevo, proprio come si è visto poco prima nella cattedrale. Tuttavia Bene intende tracciare un collegamento permanente tra il suo periodo Sessantottino e quello in cui Otranto fu presa dai Turchi. Ciò che segue si riallaccia perfettamente con quanto espresso dal protagonista narratore all’inizio del film: egli si risveglia in un mondo che non conosce, sebbene ci abbia sempre vissuto. Non accetta la realtà, rifiutando l’aiuto perfino di una guida spirituale come Santa Margherita. Così egli la congeda per sempre con le parole. Infatti, come all’inizio del film, Carmelo Bene ricorda la figura di un carnefice turco nell’atto di decapitare un nemico cristiano. Per un evento prodigioso il cristiano si salva, svegliandosi e vedendo davanti a sé il suo boia crocifisso. Il prigioniero cristiano è il protagonista Carmelo Bene.

Dunque egli, in vesti di cavaliere medievale, in quanto la sua figura attuale è molto collegata a questo suo nuovo alter-ego, si presenta in casa sua di fronte ad una domestica. Questa non è altri che la serva nella cattedrale di Otranto, anch’essa condotta nel presente del ’68.

Come sempre, anche questo personaggio beniano è caratterizzato da profonda inettitudine e goffaggine, tanto che impiega molto tempo per arrivare al suo fine. Ossia egli non ha mai provato nulla per Santa Margherita, preferendo godersi i piaceri mondani assieme a quella nuova donna. In quel modo, come il 28 luglio 1480 a Otranto, il Cavaliere gode amando la serva. Inaspettatamente, mentre la donna è sola nella paglia, irrompe in casa Santa Margherita, infuriata per l’atto del paladino cristiano. La santa trova ciò che cerca in un’altra stanza e lo prega di non andare a combattere contro i Turchi invasori. Il Cavaliere la respinge senza parlare e sale in groppa al cavallo con la serva, fuggendo lontano dalla sua “persecutrice”. Ora tutto ciò che vede il Cavaliere non è altro che il Palazzo Moresco, unico suo vero simbolo attorniato adesso da una presenza invadente

Terminata la battaglia, Otranto è perduta e così anche tutto il resto caro al Cavaliere. Egli entra barcollante nel Palazzo Moresco espugnato dai Turchi e incontra sopra l’altare Santa Margherita. Ora che tutto ciò che gli era caro è svanito nel nulla, il Cavaliere vorrebbe chiedere perdono, ma la donna non glielo concede. Purtroppo il protagonista, sia nel suo periodo che in quell’allegoria remota che evoca la battaglia di Otranto, ha tardato troppo ad accorgersi della reale verità ed ora non può far nulla per redimersi. Sconvolto da tale dichiarazione di Santa Margherita, il Cavaliere con sguardo stupito e invocante emette lunghi e affannosi sospiri, fino ad accasciarsi senza vita sulla gradinata.

 

 

 

Riconoscimenti

  • 33ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia
    • Premio speciale della giuria ex aequo con Le Socrate di Robert Lapoujade

 

Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, Milano, Sugar, 1966.

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1 risposta a Carmelo Bene – Nostra Signora dei Turchi – film completo in italiano del 1968 – 2 h

  1. ueue scrive:

    Non avevo mai osato avvicinarmi a questo grande lavoro di Carmelo Bene per viltà. Grazie di avere posto le premesse per una comprensione.

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