IL FATTO QUOTIDIANO DEL 31 MARZO 2022
UCRAINA-RUSSIA
Armiamoci e al rogo i “complessisti”!
PENSIERO UNICO – La parola “perché” è diventata nemica, bisogna solo schierarsi. Dimenticando la lezione dei “grandi sospettosi” come Socrate e Marx. Il diritto di comprendere il male senza giustificarlo è vietato
DI DONATELLA DI CESARE
Si dimentica spesso che la parola propaganda non vuol dire solo diffondere, ma anche consolidare, fissare.Tutto deve essere ricondotto a schieramenti e fronti, ridotto a principi e dogmi. Guai a farsi domande, esibire incertezze! Perché la propaganda perlustra, seleziona e discrimina. Tanto più se, come durante questa nuova guerra mondiale del XXI secolo, è intenzionalmente militarista.
Non è un caso che ogni discorso debba iniziare – pena l’espulsione perpetua dallo spazio pubblico – con l’autodafé ormai celebre: “C’è un aggressore e un aggredito”. Questo è il fatto oggettivo, il “ragionamento basico”, che deve essere riconosciuto coram populo. L’autodafé, meglio se pronunciato con tono contrito, è il certificato temporaneo di anti-putinismo, il lasciapassare per potersi esprimere nel mondo della libertà di parola. Questo salvacondotto, tuttavia, dura poco e basta anche solo un “perché” o un “come mai” per finire di nuovo proscritti o diventare bersaglio in vario modo del furore bellicista.
Il deteriorarsi del dibattito pubblico nelle democrazie occidentali non è un fenomeno di oggi. Lo aveva già scorto Leo Löwenthal, esponente della Scuola di Francoforte, che con acume analizzò l’America degli anni Cinquanta, dove disagio e disorientamento avrebbero aperto le porte non solo al maccartismo, ma anche all’ascesa di una destra autoritaria. Di recente questo fenomeno si è acuito al punto che si parla di “grande regressione” per indicare brutalità e rozzezza che imperversano nella sfera pubblica. La bolla di Internet non ne è il motivo, ma contribuisce all’odio aperto, alle fantasie di violenza, agli insulti osceni.
La guerra – si sa – è rivelatrice. Fra l’altro ha messo in luce, ancor più della pandemia, questa regressione che mina al fondo la democrazia rischiando di cancellarla. La violenza schematica sta già nel voler stabilire l’inizio, nel fissare il principio. Meglio, poi, se è tutt’uno con il Male impenetrabile. “La violenza putiniana che viene dal cielo…”. C’è uno fuori di testa, un matto, un folle oppure – e propagandisticamente è lo stesso – un tiranno, un dittatore, che ha deciso di dirottare il corso della storia umana, le sue magnifiche sorti. Guai a interrogarsi su quel principio, ad andare oltre guardando al contesto, provando a esaminare le cause. È pericoloso, anzi ambiguo e infido, già quasi un cedimento al male, un compromesso con il nemico. Mica risaliamo a chissà quando! In tutta tranquillità si può ignorare il “resto”, perché quel che conta è solo sentirsi nel giusto. C’è il male e il bene, l’autocrate e le democrazie, la repressione e la libertà. Ringrazia piuttosto di essere da questa parte, perché dall’altra saresti già in galera. E dunque taci! Smetti di fare domande fastidiose e riconosci il fatto oggettivo che in sintesi è: A ha invaso B. Punto. Altrimenti detto: il grosso ha picchiato il piccolo. E tutti non potranno fare a meno di essere con quest’ultimo.
In questa nuova concezione della storia che, alla faccia di Hegel, ben si adatta alla foga regressiva, non c’è assolutamente nulla da capire. C’è appunto solo da allinearsi nell’ordine bellico, favorito da schemi ideologici. Non vorremmo certo che la gente discuta le cause della guerra mondiale nel cuore dell’Europa, che le conosca davvero! Tutt’al più si possono buttare lì un paio di paragoni perché si senta sollevata: Putin = Hitler, combattenti ucraini = partigiani italiani, ecc. Non importa se la storia non sia quella novecentesca, se la potenza nucleare muti il significato stesso di guerra. Viva la pigrizia mentale condita di malafede. La semplificazione investe anche l’interlocutore che ha comunque torto e va perciò delegittimato a priori. Anche qui non c’è nulla da capire. Sarà tutt’al più un neneista di sinistra. Dice sciocchezze e amenità. Merita sarcasmo, scherno, se non disprezzo, astio, aggressività. Da tempo il livore anti-intellettuale non emergeva in forma così esasperata. Poi magari c’è chi rimpiange “gli intellettuali di una volta”, anche perché non sono qui a importunare.
In tutto questo non stupisce che perfino la “complessità” sia stata presa di mira e sia, anzi, assurta a stigma. Come se si trattasse di un esercizio inutile o di una confusione pretestuosa. Eppure, sappiamo che uno dei grandi pericoli oggi è, al contrario, la semplificazione, la scorciatoia (come quella complottistica) per venire a capo di un mondo difficile da interpretare. Non è più la natura a essere impenetrabile, ma è ormai la storia umana a divenire per noi sempre più enigmatica. Si è spezzato il filo della narrazione. Di qui l’ansia per il futuro che non è mai stato così incerto. La reazione, però, non può essere quella dei nostalgici di una leggibilità del passato. Mai come ora è necessario quel che la tradizione occidentale ci ha insegnato: dalla domanda di Socrate, che proprio salvaguardando la democrazia metteva in forse le certezze dei suoi concittadini, fino al sospetto di Marx, di Nietzsche, di Freud, che vuol dire meno falsa coscienza, più avvedutezza. Studio, interpretazione, giudizio sono la base della democrazia. Non servono solo gli esperti, che peraltro non sono mai neutrali. Altrimenti tutti i cittadini sarebbero deresponsabilizzati nelle scelte politiche – come l’invio di armi – che li riguardano direttamente. Occorrono invece le domande, e tanto più se sono spiazzanti, perché ci aiutano a cambiare prospettiva, a vedere quel che accade sotto una nuova angolazione trovando magari la via d’uscita dalla trappola.
Un computer è un meccanismo complicato; qualcuno l’ha progettato e aprendolo si può veder l’intreccio di parti. La storia umana è invece complessa, perché agiscono molte dimensioni. Applicare gli schemi A – B è grottesco. L’illeggibilità del mondo, di cui parlava Hans Blumenberg, è oggi sotto gli occhi di tutti. Gridare “all’armi” limitandosi a mettere l’elmetto sulla mente, come fanno alcuni, non serve davvero. Non abbiamo bisogno di paraocchi, ma di confronto aperto, dibattito critico, spazi interpretativi comuni. Questi sono i valori democratici occidentali.
Noi complessisti cerchiamo di farcene carico in questo momento grave in cui vengono richieste solo adesioni empatiche alla guerra. La libertà di pensiero è il diritto alla complessità. Anche il diritto di comprendere il male, di decostruirlo, senza per questo giustificarlo. Certo, poi riconosciamo di essere pur sempre complessisti molto imperfetti, non abbastanza vigili, non sempre capaci di capire. Ma se ci fossero più complessisti a interrogarsi sui motivi, forse un po’ delle guerre in corso avrebbero potuto essere evitate.
PUBBLICHIAMO QUESTO VIDEO, ANCHE SPIACEVOLE, COME ESEMPLIFICAZIONE DEL SENSO DELL’ARTICOLO
L’ARIA CHE TIRA — LA 7 — 30 MARZO 2022
VIDEO, 3.53
NOTE:
I.
Leo Löwenthal (Francoforte sul Meno, 3 novembre 1900 – Berkeley, 23 gennaio 1993) è stato un sociologo e filosofo tedesco naturalizzato statunitense, esponente della Scuola di Francoforte.
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Dopo l’avvento del nazismo e la conquista del cancellierato di Hitler, Löwenthal lasciò la Germania nel 1933, trasferendosi prima a Ginevra dove l’Istituto si era spostato, per poi emigrare negli Stati Uniti ove insegnò alla Columbia University fino al 1956 e poi, fino al 1971, alla Berkeley University.
I suoi interessi prevalenti di studioso furono rivolti alla sociologia della letteratura. Tra gli autori oggetto delle sue analisi troviamo alcuni dei maggiori scrittori europei: Goethe, Ibsen, Cervantes, Lope de Vega, Shakespeare, Corneille e Molière.
Di origine ebraica, si avvicinò per un certo periodo al sionismo ed analizzò i metodi propagandistici dell’antisemitismo e la sua diffusione nella società.
TRECCANI, 2019
SOLFANELLI, 2009
LIGUORI, 1977
II.
Di origini ebraiche, Hans Blumenberg (1920-1996) consegue la maturità nel 1939 presso il Kathaerineum di Lubecca (lo stesso istituto frequentato da Thomas Mann); compie studi di filosofia dal 1939 al 1941 a Paderborn, poi a Francoforte. Viene internato in un campo di lavoro. Dopo il 1945 si occupa di filosofia, germanistica e filologia classica presso l’Università di Amburgo e nel 1947 consegue il dottorato. Nel 1950 si abilita alla docenza presso l’Università di Kiel e nel 1958 diviene straordinario ad Amburgo, ordinario a Giessen nel 1960 ; si trasferisce a Bochum nel 1965 e dal 1970 a Münster sino al pensionamento nel 1985.
Opera sua fondamentale i Paradigmi per una metaforologia (1960). Il termine deriva dal greco metaphoré, trasloco, trasporto, significa congiungere mediante dislocazione ciò che è distante e si configura come ornamento retorico o vestibolo del pensiero concettuale. Ci sono metafore morte, diventate concetti (catacresi). Il linguaggio normale o quello poetico producono invece continuamente metafore vive (il cui ruolo è stato sottolineato da Paul Ricoeur) e gettano ponti arditi tra nozioni che abitualmente non vediamo unite. La metafora, trasposizione analogica di un’idea, produce conoscenza, perché offre l’idea di ciò che l’oggetto rappresenta per noi in conformità ai nostri scopi pratici; ma per le idee di ragione (Dio, storia, anima. mondo) non vi può essere alcuna intuizione adeguata ; ad esse corrisponde soltanto una rappresentazione, che con queste idee ha in comune non il contenuto, bensì la forma della riflessione.
C’è chi considera la metafora una forma inferiore e spuria di pensiero, che funge da battistrada al concetto puro, chiaro e distinto. Blumenberg invece cerca di spezzare il nesso istituito tra pensiero aconcettuale e pensiero concettuale, collegando le metafore all’husserliano mondo della vita. Restituisce loro autonomia. Mentre i concetti hanno a che fare con la coscienza focalizzata, le metafore esprimono per lui orientamenti, modalità di rivolgerci all’esperienza, non destinati a precipitare in cristalli concettuali.
I concetti puri scontano il privilegio della loro chiarezza e univocità perdendo la molteplicità di sensi del mondo della vita. Per ciò che concerne la conoscenza le metafore hanno il vantaggio di avere un ambito di riferimento estremamente vasto, di potersi, al limite, connettere con l’intera estensione del mondo della vita a prezzo però di una maggiore imprecisione. Perciò si tende ad escluderle dalla filosofia. Ma nemmeno il pensiero più astratto può farne a meno. Ci sono metafore assolute, indeducibili e irriconducibili ad altre metafore o idee e le metafore derivate. Quelle assolute esprimono orientamenti non scomponibili ulteriormente.
Estremamente significativa è la metafora della navigatio vitae. C’è chi vuole essere attore della propria esistenza, chi preferisce invece fare la parte dello spettatore piuttosto che dell’attore. Sorge l’idea che la rotta stessa, la navigazione intrapresa, porti consiglio, che si formi, grazie ad essa, un’esperienza. In tedesco Erfahrung contiene la radice di fahren, viaggiare, fare esperienze e per estensione navigare. Paradigma ne è Odisseo, che indirizza la rotta attraverso tutti i pericoli, gli ostacoli che Dei e uomini gli frappongono.
La rappresentazione differisce nel tempo, nelle epoche e ha formato la nostra tradizione e cultura, con modificazioni degli orizzonti di senso, in cui l’uomo comprende se stesso e il suo rapporto col mondo. La luce si presenta come metafora della verità, il naufragio come metafora dell’esistenza, il libro come mondo della natura (La leggibilità del mondo, 1981).
Mentre nel passato l’esperienza si accumulava, oggi gli insegnamenti del passato perdono di peso, rendendo indeterminabili anche le aspettative del futuro. L’età moderna ci ha messo di fronte a soglie epocali: l’uomo copernicano, la fine delle sicurezze teologiche fondate sulla Bibbia, il metodo cartesiano, la Riforma protestante. Oggi si può constatare la ribellione e l’autoaffermazione dell’uomo rispetto alla sottomissione all’autorità. Si assiste al desiderio sfrenato del nuovo, ai viaggi di scoperta in terra incognita. C’è come una circumnavigazione del globus intellectualis al limite dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande. Anche il mito oggi costituisce per Blumenberg una strategia per fare fronte all’ignoto, per resistere all’angoscia amorfa e senza nome provocata negli uomini dallo strapotere della realtà. Il mito depotenzia il suo “assolutismo” inventando spiegazioni per ciò che è inspiegabile, così da rendere il mondo più familiare.
C’è bisogno di una fenomenologia della storia, che renda possibile la comprensione delle transizioni epocali in opposizione al tema della secolarizzazione. I sistemi concettuali della modernità non vengono considerati qualcosa di nuovo, ma come una semplice mondanizzazione dei principi teologici della Scolastica; invece la transizione nella continuità dei processi storici non viene assicurata dalle persistenze di una sostanza ideale nelle sue metamorfosi, bensì dalla rioccupazione di determinati luoghi di senso (La legittimità dell’età moderna, 1966: e v. ancora L’elaborazione del mito, 1979; Naufragio come spettatore,1979).
http://www.rmfonline.it/?p=37453
Il titolo del programma, “L’aria che tira”, mi pare che illustri bene l’intervento di Rampini: guai a volere approfondire, l’importante è schierarsi col pensiero unico che circola.
Grazie per la segnalazione di quei due grandi pensatori.