La rassegna geopolitica del 27 luglio,  Il discorso di Orbán, la guerra economica tra Russia e Occidente e altre notizie interessanti –LIMESONLINE DEL 27 LUGLIO 2022

 

LIMESONLINE DEL 27 LUGLIO 2022


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Il discorso di Orbán, la guerra economica tra Russia e Occidente e altre notizie interessanti

 

Carta di Laura Canali - 2018

Carta di Laura Canali – 2018

 

La rassegna geopolitica del 27 luglio. 

analisi di Agnese Rossi, Greta Cristini, Mirko Mussetti

 

IL DISCORSO DI ORBÁN 

di Mirko Mussetti

 

In un discorso alla 31ª edizione del laboratorio intellettuale “Bálványos” nella cittadina di Băile Tușnad/Tusnádfürdő (Transilvania) in Romania, il primo ministro dell’Ungheria Viktor Orbán ha sostenuto che «entro il 2050 in Europa occidentale non esisteranno più nazioni, ma solo una popolazione incrociata». Aggiungendo poi che «qui, nel bacino dei Carpazi, lottiamo contro un simile destino».

 

Perché conta: Il discorso del leader ungherese tenutosi in una località turistica romena a maggioranza magiara ne rivela le percezioni geopolitiche a cerchi concentrici: dimensione interna, contesto regionale, congiuntura mondiale.

Primo cerchio. Scegliendo di pronunciare un discorso tanto forte in un piccolo centro abitato “magiaro” d’oltreconfine (Romania centrale), Orbán parla al proprio elettorato e più in generale ai propri cittadini, sobillandone un senso di accerchiamento che alimenta un fiero nazionalismo. Ricorda loro quanto sia diffusa l’etnia ungherese nella Mitteleuropa e come le minoranze magiare sopravvivano in territori stranieri quali cellule impermeabili alle politiche linguistico-culturali locali. È il caso dei secleri di Transilvania (Romania) e dei magiari di Transcarpazia (Ucraina), meritevoli delle attenzioni e della protezione di Budapest.

Ma rivolgendosi agli abitanti del “bacino dei Carpazi”, Orbán parla anche alla nazione carpatica per antonomasia: la Romania. Il Festival di Tusványos è nato come elemento per promuovere la cooperazione transfrontaliera; oggi diventa una sponda per invitare Bucarest a non dare troppa corda a Kiev che, nonostante la guerra, resta colpevole di maltrattamenti verso le nutrite comunità magiare e rumenofone di Transcarpazia e Bucovina settentrionale. Facendo fronte comune, Ungheria e Romania potrebbero tutelare al meglio le rispettive minoranze che abitano il paese aggredito.

Secondo cerchio. “Viktator” – così è chiamato dai suoi detrattori – parla di «razze extraeuropee» con il compito di «ripopolare» il Vecchio Continente. La crisi demografica che colpisce anche l’Ungheria sarebbe alla base di una calcolata sostituzione etnica: «Senza un’inversione di tendenza, l’Ungheria e il bacino dei Carpazi prima o poi verranno ripopolati senza di noi. L’Occidente è diviso in due, di cui una metà comprende paesi in cui convivono popoli europei ed extraeuropei. Quei paesi non sono più nazioni. In senso spirituale, l’Occidente si è ora spostato nell’Europa centrale, rifiutando il desiderio mitteleuropeo di permettere a ogni nazione di vivere come preferisce. Continuano a combattere l’Europa centrale per farci diventare come loro».

Il leader ungherese non nasconde il ripudio verso il modello multiculturale promosso dalle élite occidentali: «Nella nostra visione, all’interno dell’Europa le persone si mescolano tra loro, si spostano, lavorano e si trasferiscono. Per esempio, nel bacino dei Carpazi non siamo di razza mista: siamo semplicemente un misto di popoli che vivono nella nostra stessa patria europea. Per questo ci siamo sempre battuti: siamo disposti a mescolarci, ma non vogliamo diventare popoli di razza mista». La dimidiata nazione ungherese vede la propria sopravvivenza nell’intensificazione dei rapporti intraeuropei, non nell’ingrossamento dei flussi migratori extracontinentali.

Terzo cerchio. Secondo Orbán «la civiltà occidentale sta perdendo il suo potere, le sue prestazioni, la sua autorità, la sua capacità di agire. Cent’anni fa si parlava di declino spirituale e demografico; oggi assistiamo al declino del potere e delle risorse materiali del mondo occidentale. Anche altre civiltà – cinese, indiana, “mondo ortodosso”, Islam – hanno subito un processo di modernizzazione. Le civiltà “rivali” hanno fatto proprie la tecnologia e il sistema finanziario dell’Occidente, ma non hanno adottato i suoi valori e non hanno assolutamente intenzione di farlo». Attaccando anche la presidenza Obama degli Stati Uniti, Orbán si è detto comprensivo dell’atteggiamento dei paesi non occidentali:

«A volte ci sentiamo allo stesso modo. Nel 2014, un funzionario governativo di Washington in visita a Budapest ha spinto casualmente un foglio di carta davanti a sé e ha semplicemente detto al nostro ministro degli Esteri Péter Szijjártó che la costituzione ungherese doveva essere modificata, dopodiché l’amicizia sarebbe stata ripristinata. Quindi comprendiamo la resistenza del resto del mondo alla propagazione dei valori dell’Occidente, alla sua esportazione di democrazia. Le altre nazioni si sono rese conto che devono modernizzarsi materialmente proprio per resistere all’esportazione di valori a loro estranei».

Ma l’aspetto più meramente geoeconomico del discorso di Orbán riguarda il multipolarismo incipiente del sistema internazionale: «La cosa più dolorosa per noi occidentali è la perdita del potere materiale e del controllo sui vettori energetici». Tema questo molto sentito dal governo di Budapest, che per anni ha coltivato una solida cooperazione economico-energetica con Mosca.

«Nel 1900 gli Stati Uniti e l’Europa controllavano il 90% di tutte le forniture di idrocarburi; oggi solo il 35%. E vale lo stesso per le materie prime: oggi vediamo che le risorse per l’industria moderna sono detenute da Australia, Brasile e Cina. Il 50% dell’export delle materie prime africane è diretto nella Repubblica Popolare. Il futuro non sembra affatto roseo: nel 1980 gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica controllavano la maggior parte delle terre rare necessarie per la tecnologia moderna; oggi i cinesi ne producono cinque volte di più degli americani e sessanta dei russi. Ciò significa che l’Occidente sta perdendo la guerra economica. Se vogliamo comprendere lo stato del mondo, il punto di partenza deve essere che gran parte delle risorse e dei vettori energetici si trovano al di fuori dello spazio occidentale. Questi sono fatti concreti».

Nonostante i ridotti margini di manovra, l’Ungheria di Orbán cerca ostinatamente di smarcarsi dall’orientamento tanto globalista quanto russofobo di Nato e Unione Europea. Sia la cancel culture (o attivismo woke) sia le posizioni sanzionatorie antirusse dei partner euroatlantici sono viste a Budapest come una forma di insensato autolesionismo, il cui effetto diretto non potrà che essere l’accelerazione del declino economico, strategico e culturale dell’Occidente.

Per approfondireOrbán all’arrembaggio


 

GUERRA ECONOMICA TRA RUSSIA E OCCIDENTE

 

di Greta Cristini

 

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha inviato in Europa il coordinatore per gli Affari energetici internazionali del dipartimento di Stato, Amos Hochstein«Era la nostra più grande paura»ha detto l’inviato speciale in riferimento alla riduzione al 20% delle capacità di Nord Stream 1 verso la Germania. A stretto contatto con funzionari francesi e tedeschi, Hochstein abbozzerà una pianificazione emergenziale con l’obiettivo ultimo di evitare la «destabilizzazione europea».

Le cose non si mettono bene nemmeno per l’industria energetica dell’Ucraina. Naftogaz, la più grande compagnia petrolifera e del gas del paeseha dichiarato il default, dopo che il governo ha impedito alla società di proprietà statale di pagare due cedole del valore complessivo di 935 milioni di dollari entro la scadenza del 26 luglio 2022, al fine di preservare la liquidità necessaria ad acquistare gas per il prossimo inverno.

Di segno opposto è la previsione del Fondo monetario internazionale (Fmisulle prospettive dell’economia russala stima del pil per quest’anno è migliorata del 2,5%, nonostante una contrazione attesa del 6%. Il Fmi ha spiegato che la recessione russa non è grave come previsto, poiché «la banca centrale e i vertici politici sono riusciti a evitare il panico bancario o il tracollo finanziario in occasione delle prime sanzioni imposte».

Perché conta: La guerra economica è cartina di tornasole dello stato di salute dei due fronti nella guerra russo-occidentaleCon l’Ucraina irrimediabilmente confinata a giocarsela da sé. Davanti al crescente pericolo di «rivolte popolari» per via della crisi energetica paventato anche dai leader più duri contro Mosca, gli americani sono preoccupati dalla possibile spaccatura del fronte occidentale, a partire dal suo perno sistemico: la Germania. Con lo stesso timorepoche settimane fa il dipartimento di Stato aveva confermato il nulla osta statunitense alla restituzione della turbina Siemens dal Canada alla Germania, essenziale per mantenere attivo il flusso di gas russo verso le case tedesche. Di fatto approvando il primo aggiramento delle sanzioni occidentali.

Non è bastato: la Russia continua ad alzare l’asticella della pressione energeticaDalla sua, il fronte interno russo pare aver mantenuto calma e fiducia in occasione della prima ondata di sanzioni. Abituato a sacrifici e privazioni, il popolo russo ha finora resistito alle intemperie socio-economiche con disciplina e fierezza, tanto più se inflitte dal nemico tradizionale: l’Occidente. Questo ha permesso al paese di reggere e al presidente Vladimir Putin di restare al potere.

Impegnato a sventrare la coesione occidentale, il presidente russo non può permettersi di perdere quella domestica.

Per approfondireLa madre di tutte le sanzioni è un’arma spuntata


🎨 Carta: La dipendenza europea dal gas russo

 


 

MACRON IN AFRICA

 

di Agnese Rossi

 

In parallelo al viaggio del ministro degli Esteri della Federazione Russa Sergej Lavrov, anche il presidente francese Emmanuel Macron si trova in questi giorni in Africa. L’itinerario di tre giorni è iniziato in Camerun e prosegue oggi in Benin, mentre l’ultima tappa sarà in Guinea-Bissau. Macron è accompagnato dal ministro degli Esteri Catherine Colonna e dal ministro della Difesa Sebastien Lecornu.

 

Perché conta: Il tour di Macron risponde a diverse esigenze. Anzitutto, ridefinire la posizione strategica della Francia in Africa. Il ritiro dal Mali (gli ultimi soldati francesi dell’operazione Barkhane lanciata nel 2014 dovranno lasciare il paese entro settembre) ha visto Parigi cedere terreno all’avanzata di Mosca, che sostiene indirettamente la giunta militare al potere a Bamako tramite il Gruppo Wagner. L’episodio ha assestato un duro colpo all’influenza francese nel continente e ha aperto a una serie di interrogativi rispetto alle modalità con cui l’Esagono potrà permanere nella Françafrique. «Il nostro obiettivo non è quello di essere meno presenti nel Sahel o in Africa, al contrario», ha affermato l’Eliseo. «Ma dovremo imparare a vederci in modo diverso e ad essere visti in modo diverso». Così il presidente francese in questi giorni sta approfondendo i rapporti con Camerun, Benin (francofoni) e Guinea-Bissau per ricalibrare la propria presenza verso il Golfo di Guinea, da una parte ricorrendo al vettore della lotta al terrorismo, dall’altra mostrando disponibilità a riaprire il capitolo dei «crimini della Francia coloniale» nell’area.

La spedizione di Macron ha poi una chiara matrice antirussa, non solo per le vicende maliane. L’Africa è infatti in questi giorni terreno di contesa propagandistica e diplomatica tra Russia e Occidente. Il viaggio di Lavrov nel continente serve anzitutto a far passare il messaggio che la Russia non è responsabile della crisi alimentare provocata dalla guerra in Ucraina nei paesi africani. È inoltre volto a far sì che questi ultimi non cedano alla pressione occidentale, che li vorrebbe schierati sul conflitto in corso. Macron è dunque nella regione anche come portavoce delle potenze europee, accusate a sua detta di essere «la causa della crisi alimentare mondiale, anche in Africa»: «È totalmente falso. Il cibo, come l’energia, sono diventati armi di guerra russe. La situazione in cui ci troviamo è responsabilità della Russia».

Al momento, per ammissione dello stesso Macron, le «falsità» propagandate dai russi riscontrerebbero «un certo successo nell’opinione pubblica africana». Già nella risoluzione Onu del 2 marzo 2022, 17 paesi africani si erano astenuti dal condannare l’invasione russa. Silenzio assenso che ora sembra poter essere rinforzato dai recenti accordi sul grano.

La determinazione a giocare un ruolo di primo piano nel continente africano fa parte dell’identità nazionale francese. Adesso Parigi può sfruttare la rilevanza assunta dal continente nella guerra in Ucraina per elevare la partita africana a interesse dell’Occidente tutto.

Per approfondire: L’Africa francese è sempre più stretta  

 

Carta di Laura Canali - 2021

Carta di Laura Canali – 2021

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