MARCO CICALA, I cento anni dei comunisti spagnoli — REPUBBLICA/ VENERDI’– 6 MARZO 2020

 

 

 

REPUBBLICA/ VENERDI’– 6 MARZO 2020

https://www.repubblica.it/venerdi/2020/03/06/news/partito
_comunista_spagnolo_storia_archivi_governo_franchismo-300807220/

 

 

I cento anni dei comunisti spagnoli

 

Il Partito comunista spagnolo? Ancora esiste. Sta perfino nel governo. E celebra un secolo di storia. Per l’occasione siamo entrati nei suoi archivi. Scoprendo storie di eroi. E mascalzoni

 

I cento anni dei comunisti spagnoli - la Repubblica

 

 

MADRID. Dannati sciacquoni, prima o poi ti tradiscono tutti. Nell’inverno del 1957 un militante comunista, nome di battaglia Martí, venne arrestato a Barcellona dalla polizia franchista. Alloggiava in una pensioncina. Durante la perquisizione gli sbirri recuperarono alcuni frammenti di carta che galleggiavano nel water. Ricomposto il puzzle, ne venne fuori una lista con i contatti di altri attivisti clandestini. Finirono tutti in galera. Liberandosi di quegli appunti nel wc, il compagno Martí non aveva verificato il corretto funzionamento dello scarico, inceppato da un’avaria idraulica. “Malditos trozos de papel“, maledetti pezzi di carta, imprecava il detenuto in un rapporto trasmesso al Partito sottobanco, dal carcere. E faceva atto di contrizione per la fatale sbadataggine: “Mi responsabilidad es grande“.

Si incontrano anche episodi di questo genere spigolando nell’archivio storico del Partido Comunista de España che giusto quarant’anni fa veniva aperto per la prima volta agli studiosi.

I dossier del Pce erano appena tornati a Madrid dopo decenni di peripezie tragiche, rocambolesche e spesso misteriose, iniziate alla fine della guerra civile. Nel 1939, durante la dantesca ritirata repubblicana davanti al dilagare dell’offensiva nazionalista, si decide di trasportare in Francia la documentazione già trasferita d’urgenza dalla capitale a Barcellona. Sorvegliano il segretissimo trasloco due controllori del Comintern: Palmiro Togliatti e il bulgaro Stoian Minev “Stepanov”. Quattro camion riescono a varcare la frontiera. Ma il materiale verrà in parte requisito dalla polizia francese, approdando più tardi in Unione Sovietica, e in parte sarà nascosto o bruciato per sicurezza dagli stessi comunisti nei campi profughi dove si ammassano mezzo milione di spagnoli in fuga. Sopravviveranno solo le carte custodite dai singoli militanti o quelle che nel corso della guerra erano state inviate a Mosca.

Le successive vicende dell’archivio sono complicate quanto la storia del Partito, che in Spagna viene annientato dalla dittatura e nell’esilio si disperde in tre tronconi corrispondenti ai posti nei quali i dirigenti comunisti hanno trovato rifugio: l’Urss (e Paesi satelliti), il Messico, la Francia.

L’organizzazione policentrica del Pce si rivelerà assai problematica quando non violentemente conflittuale. Perché, adesso, dove sta di casa el Partido autentico? A Mosca? A Parigi? In America Latina? È la diaspora di una “ecclesia“, con tutte le faide, le lotte per l’egemonia, le dispute teologiche tra contrapposte ortodossie che certi cataclismi comportano.

Per rimettere insieme i faldoni del Pce (ma molti restano ancora sotto chiave in Russia) bisognerà aspettare la morte del Caudillo e, nel 1977, il ritorno del Partito alla legalità.

Santiago Carrillo - Wikipedia

SANTIAGO CARRILLO ( Gijón, 18 gennaio 1915 – Madrid, 18 settembre 2012 ),  segretario generale del Partito Comunista di Spagna (PCE) dal 1960 al 1982.

 

 

 

Dopo quasi quattro decenni di clandestinità coriacea e per tanti versi valorosa, il Pce guidato da Santiago Carrillo rientra nella Spagna democratica con ambizioni da protagonista. Però nel guado della transizione si perde. Errori strategici, lacerazioni interne, più l’ascesa dell’arrembante Partito socialista condannano i comunisti all’irrilevanza. Le elezioni dell’82 li affossano al 4 per cento. Di lì a poco la caduta del Muro sarà un’estrema unzione. Eppure, fuso nell’alleanza Izquierda Unida, il Partido ancora esiste.

E nell’attuale governo Sánchez ha ottenuto due dicasteri: del Lavoro, e dei Consumatori. Ma torniamo agli archivi. ( RICORDIAMO : l’articolo è del marzo 2020 )

Da qualche anno i documenti del Pce sono custoditi nei locali della Biblioteca storica dell’Università Complutense di Madrid, in calle Noviciado, una stradina fuligginosa a pochi passi dalla trafficatissima Gran Via. L’accesso è libero, però bisogna prendere appuntamento spiegando i motivi della visita. Decine di migliaia i materiali cartacei – tutti con timbro a falce e martello – e poi microfilm, foto, video, audio. A come “Attivisti”; D come “Dirigenti” o “Divergenze interne”; E come “Esercito repubblicano” o “Esilio”; G come “Guerriglia”; M come “Movimento operaio”; O come “Organizzazioni femminili”… Basta un’occhiata al sito web ( archivohistoricoPce.org ) per ritrovarsi irretiti nelle memorie labirintiche di un partito che si prepara a celebrare un secolo di storia. Toccherà sceglierne un segmento.

Alla fine mi decido per i fascicoli raccolti sotto la “R” di “Repressione franchista”.

Contengono, scarabocchiati a mano su “pizzini” o trascritti a macchina, i resoconti che dal ventre della dittatura i comunisti in carcere o alla macchia facevano pervenire alle centrali del Pce in esilio. Seppure molto artigianale e stritolato dalla morsa poliziesca, era un lavoro informativo da rete d’intelligence.

Nelle carte si descrivono con profusione di dettagli le circostanze in cui è avvenuto un arresto, gli interrogatori, le condizioni di detenzione, i supplizi. In ogni cartella si nascondono spunti per dozzine di romanzi. Specie in quelle con gli elenchi di Verdugos y traidores, carnefici e spie. Dentro non ci trovi semplici liste di nomi, ma gallerie di tenebrosi personaggi tratteggiati in brevissime “semblanzas“, ritratti di poche righe, micro-schede di individui da cui guardarsi. “Rabbioso nemico del popolo”, “sadico degenerato” “cane da presa del regime”… Toni da propaganda, ma fatta la giusta tara restituiscono un clima di ordinaria ferocia.

Gli sgherri falangisti hanno soprannomi che sembrano pescati dall’argot della mala: “Il panza”, “Il guercio”, “Il negretto”,  “Il piedidolci”… Per tacere dei più immaginifici “Sfascio”, “Delirio”, “La Dolorosa”, “La Marchesona” o dell’ineffabile “El Especialista“.

Di un signor Pérez si scrive: “Grassoccio, aspetto e tono di voce effeminati, picchia utilizzando sedie”. Un certo Rabosa “ha fatto camminare i prigionieri sui cadaveri dei compagni fuciliati”, mentre il sicario Sánchez “per cinque pesetas scanna chiunque col coltello da maiale”. C’è poi quel sant’uomo di Padre Clemente, cappellano del carcere che per indurre al pentimento i detenuti “li colpisce in bocca con un crocifisso di bronzo”. Meditandone il castigo, dei torturatori si segnalano abitudini e vizietti: quello è morfinomane, quell’altro va spesso a sbronzarsi in tale bar della Coruña, quell’altro ancora è “muy dado a las mujeres“, un sottaniere.

Per “los del interior“, per i comunisti rimasti in Spagna, gli anni 40 furono un calvario.

Il Partito, che durante la guerra civile – complice il sostegno sovietico – aveva raggiunto i 350 mila militanti, era ridotto ormai a un’entità fantasmatica, catacombale, di non oltre duemila affiliati.

Le vendette franchiste procedevano a schiacciasassi: 50 mila i fucilati tra il ’39 e il ’46.

Retate, infiltrazioni, tradimenti: impreparata alla clandestinità, la pur formidabile macchina comunista “si squagliava come uno zuccherino” ricorda Fernando Hernández Sánchez. Classe 1961, è tra i “giovani” storici spagnoli quello che ha più scavato negli anni plumbei del Partito, Los años de plomo, come recita il titolo di un suo libro avvincente.

Sembrano un romanzo di Le Carré le pagine in cui si ricostruiscono le traiettorie di José Tomás Planas, detto “El Peque“, il piccoletto, e di Luis González Sánchez,  “El Rubio“, il biondino. Entrambi militanti con uno stato di servizio a prova di tritolo, arrivati in Spagna ai vertici del Partido, si rivelarono talpe del regime, causando arresti a cascata e facendo tremare la leadership di Carrillo, che dei due era stato sponsor. Lui, il duro, “El zorro rojo“, la vecchia volpe comunista. Nella temperie del primo franchismo, poi della Guerra fredda, la paranoia impazza. Ma i dirigenti che telecomandano il Pce dall’esilio “sono più preoccupati dalle dissidenze interne che dalle possibili infiltrazioni. Presto l’accanimento contro i dissidenti divenne un modo per sviare l’attenzione, nascondere gli errori commessi nella selezione dei militanti” dice Hernández.

Si tradisce per logoramento, sconforto, rancori intestini. Si passa dall’altra parte in cambio di soldi, sconti di pena o altri vantaggi. Intanto le tecniche investigative dei segugi franchisti si perfezionano.

 

El comisario Roberto Conesa "el garbancito" - LoQueSomos

Roberto Conesa
foto da : https://loquesomos.org/comisario-roberto-conesa-garbancito/

 

Si sta mettendo in luce il super-poliziotto Roberto Conesa che in seguito diverrà capo della sinistra Bps, Brigata Politico-Sociale, la “Gestapo di Franco”. Ex falangista, Conesa conosce le sue “prede” meglio di chiunque altro: per anni si è infiltrato personalmente tra le organizzazioni d’opposizione e ha sviluppato metodi di temibile efficacia. Invece che formare agenti da introdurre nelle reti clandestine preferisce reclutarli direttamente tra le file dell’avversario. Tipo dalla parlantina ben lubrificata, avvicina militanti demoralizzati e li convince a fare il salto. Nell’archivio c’è il lungo rapporto di una detenuta che pare quasi sedotta dai modi di quel commissario spiritoso, sornione dietro gli occhiali fumé, il quale apre l’interrogatorio/trattativa con un: “Sì, sono Conesa e vorrei che diventassimo amici”.

È solo a metà degli anni 50 che l’attività clandestina comincia a riaversi dalle batoste incassate nel decennio precedente. Nel Partito entrano nuove leve, giovani più preparati, accorti e sconosciuti ai casellari giudiziari. Da parte sua, il regime va “normalizzandosi”. La repressione resta incisiva, ma davanti al “paredón“, il muro delle fucilazioni, si finisce con meno facilità di un tempo. L’autodisciplina dei cospiratori si fa più severa. Però le precauzioni non sempre bastano.

Nel ’62,  a Madrid, viene catturato su un autobus Julián Grimau, militante di lungo corso e membro del Comitato centrale. Fu tradito da un compagno appena incontrato davanti a un cinema. Ma qualcuno insinuò che nell’inghippo ci fosse anche lo zampino del Partito. Mistero. Malgrado le poderose proteste internazionali, Grimau finì fucilato 5 mesi dopo.

 

Víctor en el comedor de la prisión de Segovia

Victor Díaz-Cardiel, nella prigione di Segovia
foto:
https://www.publico.es/politica/victor-diaz-cardiel-corazon-fiestas.html

 

 

Víctor Díaz-Cardiel fue compañero de Tamames en el comité del PCE. En las manos, el libro más famoso de entonces, que estudió estando en la cárcel.

 

Tra gli ultimi a vederlo libero, l’amico Victor Díaz-Cardiel, oggi ultraottantenne: “Con Julian c’eravamo visti a una riunione qualche ora prima che lui andasse a quel maledetto appuntamento” racconta nel tinello di casa. Poi mi allunga la fotocopia di un articolo italiano uscito su Paese Sera il 7 aprile 1965. Titolo: Arrestato dai franchisti un collaboratore di Grimau. 

Quel collaboratore era lui, Victor, operaio metallurgico passato alla clandestinità. Gli piombarono in casa di notte. Ai vicini, svegliati dalla baraonda, dissero: “Siamo venuti ad arrestare un rapinatore di banche”. A quelle parole Victor si precipitò alla finestra urlando: “In questa casa non vive un ladro, ma un comunistaaa!”.

Cominciarono a pestarlo tirandolo giù per cinque piani di scale e proseguirono nei sotterranei della Brigada Politico-Social.

Díaz ebbe diritto al trattamento noto come “botella borracha“, bottiglia ubriaca: il prigioniero in mezzo a un cerchio di scagnozzi che lo massacrano a turno. Nei commissariati franchisti era uno dei “servizietti” standard, come conferma – con tanto di disegni – un opuscolo sulle torture che il Pce distribuì tra i militanti e che è conservato nell’archivio.

“Quando mi portarono fuori non ci vedevo più dal sangue” dice Victor. Rimase in galera nove anni.

“Come si resisteva? Non lo so. Quelli che tenevano duro lo facevano ognuno a modo suo. Io per tutti quegli anni restai aggrappato a un ricordo, a un’immagine: i poliziotti, che mettendomi la casa sottosopra in cerca di materiale di propaganda, iniziano a squarciare con un coltello la culla dove dorme mio figlio. Aveva pochi mesi. Quelli squarciavano, squarciavano, ma lui continuava a dormire”.

 

NOTA :

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Dopo il 1982, fu eletto Segretario generale del PCE Gerardo Iglesias  dall’ ’82 al 1988; dall”86 all’ 1989 è stato coordinatore di  Izquierda Unida.

 

 

Dal 1988 al ’98 fu segretario gen. del PCE, e dall’ ’89 al 2000 coordinatore di Izquierda Unida ( IU )

segue..

 

 

 

 

 

 

 

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1 risposta a MARCO CICALA, I cento anni dei comunisti spagnoli — REPUBBLICA/ VENERDI’– 6 MARZO 2020

  1. DONATELLA scrive:

    Quando mai le sofferenze degli uomini, provocate da altri uomini, troveranno giustizia?
    Nell’intimo del nostro cuore c’è la triste certezza che ognuna di esse non avrà mai un risarcimento adeguato.

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